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Architettura fascista

 

La soppressione delle libertà democratiche, non riuscì a spegnere quel fuoco che in taluni movimenti lo stesso regime attizzò, come l'architettura.

Il livello qualitativo, professionale, espresso nell'architettura, è tale che, a confronto con quello che avveniva nel resto dell'Europa, l'Italia non sfigura.

La storia dell'architettura moderna italiana è la storia dei suoi difficili rapporti con il sistema fascista. Questa storia ha due tempi: il primo è di compromesso, il secondo di lotta.

Nel 1926 si forma il Gruppo 7(Libera-Pollini-Terracini e altri) che poi si qualifica e si amplia nel M.I.A.R.(movimento italiano per l'architettura razionale) del quale Libera fu l'anima.

Dapprima il regime non fu decisamente ostile. Marcello Piacentini(architetto ufficiale del regime fascista nato a Roma nel 1881 e morto nel 1960) adotta una politica di compromesso: non sconfessa la tendenza moderna perché il regime, a parole, è per lo svecchiamento della cultura; in sostanza appoggia però il tradizionalismo dei mestieranti. Il trionfo del compromesso Piacentiniano è la città universitaria di Roma(1936): vi sono edifici in stile monumentale ed edifici in stile moderno. Ma questo non è grave. Il grave è la falsa impostazione urbanistica che non tiene conto del fatto che l'Università è un organismo sociale, un luogo di incontro dei giovani, il modello culturale di una grande città e non un recinto per segregarvi i giovani e scoraggiare ogni loro velleità di iniziativa.

Se non ci si poteva aspettare dal fascismo un'interpretazione democratica della funzione della scuola, meno che mai ci si poteva aspettare un'interpretazione democratica della funzione della città.

Furono prese anche troppe iniziative come la riforma di vecchie città e la fondazione di nuove.

Per gli architetti ufficiali, l'intervento moderno sulla città antica, consisteva generalmente nella "sventramento" e nel cosiddetto "risanamento" dei centri storici, nell'allontanamento dei ceti poveri dai centri delle città per relegarli nello squallore delle borgate e delle infette baracche della periferia.

Il "volto monumentale" o "imperiale" era poco più che un pretesto. Snidare la povera gente dal centro urbano significava in realtà rendere più disponibili, per la speculazione, i terreni più pregiati.

In non poche città italiane fu parzialmente distrutto il centro storico, come a Brescia, a Roma furono sventrati il quartiere detto del Rinascimento e quello dei Borghi Vaticani.

La fase di lotta ha come protagonista un critico, Persico, e un architetto, Pagano, fondatori della rivista "Casabella".

Persico aveva idee chiare anche in politica: sapeva che l'architettura moderna europea muoveva da promesse ideologiche irrinunciabili, che al di fuori di esse e della conseguente problematica urbanistica, non sarebbe stata né razionale né democratica, né internazionale.

Pagano era un polemista coraggioso, illuso all'inizio di poter persuadere il regime ad una politica urbanistica più aperta; poi deluso passò alla Resistenza e morì in un campo di sterminio tedesco.

La rivista "Casabella" mantenne vivo il dibattito sui grandi problemi dell'architettura mondiale. Intorno ad essa si raccolsero, specialmente a Milano, giovani architetti di tendenze avanzate: studiarono fra l'altro, un piano urbanistico per Milano (Milano Verde) che naturalmente non aveva nessuna possibilità di essere preso in considerazione dalle autorità del momento, ma che dimostrava come nonostante le direttive del regime, i migliori architetti italiani fossero coscienti dell'impossibilità di porre il problema dell'architettura al di fuori di una più vasta programmazione urbanistica.

Alcuni di quei giovani come Albini, Gardella, Rogers, divennero poi protagonisti della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale.