BENEDETTO CROCE, "MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI"
Al "Manifesto degli intellettuali fascisti" rispondeva, nel maggio dello stesso anno, Benedetto Croce con un contromanifesto. Il valore del documento sta in primo luogo nella riaffermata fede, non tanto sentimentale, ma prima di tutto intellettuale e morale, nella libertà, come conquista storica della società moderna e sicuro mezzo di progresso.
Egli afferma che se gli intellettuali, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'iscriversi a un partito e con il servirlo fedelmente, come cultori delle scienze e dell'arte, hanno il dovere di innalzare tutti gli uomini e tutti i partiti a una più alta sfera spirituale in modo da combattere le lotte necessarie. Varcare questi limiti, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore che quando si fa, come nel caso del Fascismo, per patrocinare violenze, prepotenze, soppressione della libertà di stampa, "non può neppure dirsi un errore generoso".
Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto in quel manifesto, secondo il Croce, se paragonato all'abuso che si fa della parola "religione" perché secondo gli intellettuali fascisti, in Italia si combatterebbe una guerra di religione, in nome di un nuovo vangelo e di un nuovo apostolato. Non si può ridurre a contrasto religioso l'odio e il rancore che spingono un partito a chiamare stranieri i componenti di un altro partito, non si può mobilitare con il nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi in tutti gli strati sociali, che hanno tolto anche ai giovani dell'Università la vecchia fratellanza e la fiducia nei giovanili ideali.
Il verboso manifesto in realtà non chiarisce in cosa consisterebbe questa nuova religione, anzi mostra un incoerente miscuglio di appelli all'autorità, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica.
A questo punto Croce sottolinea il turbamento che si potrebbe vedere sul volto degli uomini del Risorgimento per le parole e gli atti che vengono compiuti dai fascisti.
Gli intellettuali fascisti dicono nel loro manifesto che il Risorgimento fu opera di una minoranza e sembra che quasi si compiacciano della perlomeno apparente indifferenza di gran parte degli italiani di fronte ai contrasti fra il fascismo e i suoi oppositori, mentre i liberali hanno sempre cercato di coinvolgere nella vita pubblica il maggior numero possibile di cittadini e in questo è da vedere l'origine di uno dei loro atti: la largizione del suffragio universale. Questo spiega il favore con il quale fu accolto nei primi tempi da molti liberali il movimento fascista, perché avevano la speranza sottintesa che con esso nuove forze, di rinnovamento e anche conservatrici, sarebbero entrate nella vita politica.
Gli impedimenti presenti non inducono i liberali alla rassegnazione, anzi essi sono sicuri che la lotta politica, per ragione di contrasto, farà apprezzare ancora di più al popolo gli ordinamenti e i metodi liberali.
È interessante rilevare i limiti politici dello scritto crociano, che riflettono opinioni diffuse e anche l'imbarazzo della vecchia società liberale davanti al fascismo.
Il Croce esorta gli intellettuali a tenersi al di fuori o al di sopra della lotta politica, a non "contaminare" con essa la letteratura o la scienza, ignaro, sembra, del fatto che la nuova tirannide renderà la vera cultura impossibile a molti, perché si impadronirà dei mezzi di diffusione.
Ancora più grave è l'opinione del Croce, condivisa allora da molti uomini politici, che il Fascismo fosse non la negazione, ma una crisi passeggera di crescenza dello stato liberale, che avrebbe poi anzi condotto al suo rinvigorimento dopo un breve tempo.
Così la violenza organizzata della dittatura trovò divise e disorganizzate le forze liberali e democratiche.