Illustrazione di un guerriero Pitti, IV sec. a. C.
La società celtica è di tipo aristocratico e monarchico e comprende una tripartizione legata alla tipica formula indoeuropea: i druidi (i preti), i lavoratori manuali e i guerrieri (i cavalieri combattenti). Non tre classi, però, rigidamente separate, bensì tre specializzazioni di attività umane. E' una società senza Stato, con un solo funzionario: l'intendente del Re.
Al contrario
di quanto gli "osservatori esterni" affermavano inorriditi, in
genere i Celti non praticavano alcuna forma di tortura sui nemici, come
è stata per molti secoli consuetudine di parecchi popoli "civili".
Diodoro Siculo attesta che i guerrieri celtici disprezzavano talmente la morte
da affrontare i pericoli della battaglia senza armature di protezione, con
soltanto un perizoma attorno ai lombi. A tal proposito, la nudità in battaglia
non era soltanto una prova di temerarietà e coraggio e rientrava a sua volta
nella fede della rinascita e nel significato religioso attribuito
dai Celti alla funzione guerriera, che si arrivava a esercitare solo dopo
una lunga e articolata iniziazione. Per iniziazione si deve intendere
tanto il passaggio dalla minore alla maggiore età, che per il giovane celta
avveniva a diciassette anni, quanto l'addestramento a passare da uno stato
normale a uno stato superiore di coscienza, che comportava la capacità di
attivare e controllare energie straordinarie al momento del combattimento. In
questo modo sia sul piano sociale sia su quello operativo il guerriero diveniva
l'incarnazione della Forza. Il guerriero che così assumeva in piena
consapevolezza il suo ruolo sociale, morale e religioso, godeva della protezione
divina, come si apprende dal patrimonio mitologico e leggendario dei Celti, che
veniva mantenuto vivo nella memoria collettiva nelle abituali riunioni
conviviali dei guerrieri. Diodoro Siculo parla di come il pasto potesse
essere costituito da un intero bue, cucinato al momento allo spiedo o alla
brace, del quale i bocconi migliori spettavano al capo. Il banchetto rivestiva
dunque un significato rituale, come momento in cui si ribadiva appunto la
fedeltà al capo, si manifestava il senso di coappartenenza a un popolo e a una
classe, si risolvevano con una sfida a duello le contese interpersonali.
Il significato rituale di tutti gli atti della vita del guerriero e la
necessità che questi osservasse un codice comportante anche il rispetto di
determinati tabù (geasa) traspaiono dietro il racconto della fine del
grande eroe Cú Chulainn. Egli era
tenuto a non rifiutare mai e per nessun motivo un invito a un banchetto, né gli
era permesso di cibarsi di carne canina. Un giorno, per non infrangere il primo
tabù, accettò di partecipare a una riunione conviviale, ma si trovò imbandita
della carne di cane e fu così costretto a infrangere il secondo. In seguito a
ciò venne sconfitto e ucciso.
Una singolare ed eroica usanza tipica dei guerrieri Aquitani, era quella di
unirsi attorno a un capo liberamente scelto e tributargli sul campo di battaglia
una fedeltà assoluta fino alla morte, indipendentemente dalle ragioni del
combattimento. Se infatti il capo moriva sul campo, chi non trovava a sua volta
la fine per mano del nemico si toglieva spontaneamente la vita.
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