L'ordine e la misura nell'Umanesimo e Rinascimento

 

Convenzioni, norme, leggi, appunto: descriviamo analiticamente il funzionamento della 'macchina produttiva e comunicativa' del Classicismo, cioè il suo standard operativo. Leggi famose, anzi famigerate, sono quelle che la forma e la norma classicistica prescrive per la scrittura letteraria, in tutti i suoi generi, particolarmente in quelli fondati sulla centralità della favola. Leggi che durano nel tempo, se ancora Alessandro Manzoni deve discuterle, e con impegno, nei primi anni dell'Ottocento, scrivendo la Lettera a monsieur Chauvet sull'unità di tempo e di luogo nella tragedia (pubblicata nel 1823: il critico francese aveva negativamente recensito la tragedia manzoniana Conte di Carmagnola, edita nel 1820).

Queste leggi conseguono tutte dalla condensazione normativa di alcuni enunciati della Poetica aristotelica, che direttamente propone quattro requisiti come propri della struttura della favola:

Cerchiamo di comprendere il punto di vista e le ragioni di queste leggi per la poesia, analizzandone la seconda.

 

La quinta particella della terza parte principale della Poetica di Aristotele (sempre secondo la divisione di Castelvetro: corrisponde alla parte finale del capitolo 7 nelle edizioni moderne) definisce la grandezza della favola: non soltanto la sua estensione materiale, ma anche e soprattutto le proporzioni tra le sue parti, per un armonico ordine complessivo. E precisamente questo scrive Aristotele (nella traduzione di Castelvetro) a proposito della grandezza della favola:

 

"E oltre a ciò, poiché l’animale bello, e ogni altra cosa che è costituita di certe parti, non solamente dee avere quelle ordinate, ma ancora dee essere accompagnata da grandezza, ma non già da qualsiasi grandezza, ma non già da qualunque grandezza, conciosia cosa che la bellezza consista nella grandezza e nell’ordine. Laonde né animale alcuno picciolissimo potrà esser bello, percioché lo sguardo fatto in tempo presso che insensibile si confonde; né alcun grandissimo, percioché lo sguardo non si fa in una fiata, ma perisce a’ riguardanti l’unità e ‘l tutto dallo sguardo, come se uno animale fosse di stadi quaranta. Percioché dee, così come ne’ corpi vedevoli e negli animali, trovarsi una grandezza, e questa così fatta che si possa comprendere in uno sguardo, così ancora nelle favole dee trovarsi una lunghezza, e questa così fatta che si possa tenere a mente. Ora il termine della lunghezza quanto alla rappresentazione in atto e al senso non pertiene all’arte, Percioché se facesse bisogno di termine per rappresentar tragedie in atto, si rappresenterebbono senza fallo alla clepsidra, sì come già e alcuna volta affermano essersi fatto. Ora il termine che è secondo la stessa natura dell’azione, sempre è più bello, avendo rispetto alla grandezza, quanto si fa maggiore, purché sia manifesto. Ma, accioché simplicemente diterminando ne favelliamo, in quanta grandezza, facendosi le cose successivamente secondo la verisimilitudine o la necessità, aviene che di miseria si trapassi in felicità o di felicità in miseria, questo è sufficiente termine della grandezza".

 

L'indicazione di Aristotele è molto chiara, senza possibilità alcuna di equivoco: anche la favola è un corpo, e quindi deve uniformarsi ai criteri di misura propri delle leggi naturali. Per essere bella, la favola (cioè la poesia, e quindi tutta l'arte) deve assumere le stesse misure di ogni "animale bello", cioè dimensioni e rapporti tra le parti del suo corpo, che siano appropriate e convenienti a ciascuna specie, e ordinate e proporzionate tra loro.

 

Con assoluta coerenza, dunque, se l'opera d'arte funziona (per Aristotele: deve funzionare, se vuole raggiungere la bellezza e la perfezione) come se fosse natura, ne imita in primo luogo il modello organico del corpo animale. Ma questo non è solo il mondo degli animali, è anche - e soprattutto - quello dell'uomo in quanto animale, come Castelvetro puntualmente chiosa: se "gli animali non saranno belli se non hanno una convenevole grandezza", anche per la grandezza dell'uomo, del suo corpo fisico, è in primo luogo questione di convenienza ("giudicheremo un uomo essere bello, quanto è alla grandezza, quando arriva alla misura perfetta degli uomini").

 

Del resto uno degli assiomi costitutivi del Classicismo sin dalla primissima esperienza umanistica, è quello che costituisce l'uomo - nel suo stesso corpo - come "misura di tutte le cose". Ed è certo opportuno, a questo punto, ricordare che nel sistema classicistico misura si definisce prima di tutto in senso proprio: per quanto attiene, cioè, alle dimensioni materiali di un qualsiasi oggetto o corpo, ai rapporti di proporzione (in senso esclusivamente matematico e geometrico) tra le sue parti, nonché tra oggetti o corpi naturali diversi. Quando i nostri teorici si sforzano di dare indicazioni sulla grandezza della favola applicano in dettaglio questa economia della misura secondo natura: così come ogni "animale" ha un solo corpo, non smisurato né deforme, non sproporzionato né disordinato (sarebbe un mostro di natura, in questi casi), anche il corpo della favola deve avere una dimensione conveniente, cioè né troppo piccola né troppo grande. E questa necessità della mediocritas consegue da ragioni esclusivamente naturali: anche la favola - come tutti gli altri corpi naturali - deve essere proporzionata alle possibilità dello sguardo dell'uomo, che sono limitate: perché possa comprenderla (alla lettera: in senso materiale) tutta in una volta.

 

Questo è il senso della legge classicistica che regola l'unità e l'ordine, la misura e la proporzione, della favola poetica: se l'arte imita la natura, i suoi corpi estetici si producono come se fossero corpi naturali. Del tutto esplicito, in questo senso, è il commento di Castelvetro al passo della Poetica di Aristotele, sopra citato: insiste molto sull'istanza estetica (perché mimetica) della misura e della proporzione, ancora in termini di compatibilità con le risorse naturali dell'occhio che legge o guarda (a teatro) l'opera d'arte (e con le risorse della mente che deve ricordare il filo della vicenda e dei personaggi). L'occhio (la sua memoria) è il solo giudice della funzionalità comunicativa del corpo della poesia: "quale proporzione ha la misura dell'animale verso l'occhio nostro, tale ha la misura della favola verso la memoria nostra". Castelvetro ribadisce l'indicazione aristotelica: è soltanto per ragioni naturali che la misura della favola è definita dal giusto mezzo, perché "se l'animale [e quindi la favola] è grande oltre il convenevole, non può essere compreso tutto dall'occhio nostro in uno sguardo [per la favola è questione di memoria], e se è picciolo oltre il convenevole, fatica l'occhio, né per la sua picciolezza può essere ben compreso". Una legge dell'arte che è legge di natura, dunque, e pertanto anch'essa universalissima. Le diverse arti, e i loro singoli generi, si producono e comunicano (tutti) applicando questa legge primaria e costitutiva: come se fossero natura, perché tutti gli oggetti estetici sono "cose artificiali e rassomigliative della natura".

 

Per meglio comprendere le ragioni e il senso del sistema normativo del Classicismo, la sua stessa forma estetica, è opportuno tornare al famoso assioma che costituisce l'uomo come "misura di tutte le cose", in senso propriamente fisico: il suo corpo è dunque il solo parametro, paradigmatico e universale, di tutto ciò che concerne misura, ordine, proporzione, simmetria, convenienza, decoro, eccetera. Per questo il corpo umano - classico e classicistico - è stabilmente utilizzato come unità di misura della bellezza e della perfezione, e sappiamo ormai perché: come abbiamo appena ora visto, anche l'arte produce corpi viventi (quello della poesia è in forma di testo), del tutto omologhi, come abbiamo visto, ai corpi di ogni altro animale.

Il corpo dell'uomo è un luogo estetico: rappresenta materialmente la legge (inscritta nella natura) della debita e conveniente misura (con tutto ciò che ne consegue in ordine, proporzione, simmetria, decoro), e ne rappresenta, anche simbolicamente, la bellezza e la perfezione.

 

Una delle più note e diffuse immagini del Classicismo è il disegno di Leonardo che racchiude un corpo umano dentro un cerchio: la vediamo riprodotta ovunque, oggi. Ebbene questa immagine tanto a noi familiare raffigura esattamente quanto Aristotele dichiara a proposito di unità e di proporzione, cioè di bellezza: è convenzionalmente chiamata l’"uomo vitruviano", perché rappresenta uno dei fondamentali principi architettonici dell’arte antica, così come è definito dall’opera di Vitruvio.

Guardiamo con attenzione questa immagine e le altre equivalenti.

Un corpo umano, da solo e nella sua unità (unum et simplex, direbbe Orazio), di per sé ordinato e simmetrico (la simmetria è naturale), inscritto in un cerchio a sua volta inscritto in (o che inscrive) un quadrato (cerchio e quadrato: figure-simbolo della perfezione, perimetrano ed esaltano l'unità e l'individualità del corpo umano); un corpo in azione, nelle braccia e nelle gambe (come l'arte che imita la natura: racconta storie e rappresenta azioni), anch’essa simmetrica (ma in questo caso artificiale: prodotta da un gesto consapevole delle gambe e delle braccia, definisce, nella rielaborazione della topica immagine eseguita da Cesare Cesariano, quattro triangoli equilateri - vedi immagine sotto); il centro della figura è l’ombelico, organo della generazione (l’immagine è, dunque, simbolicamente produttiva).

La bellezza e la proporzione del corpo umano è tale, dunque, in senso strettamente geometrico e matematico: esattamente nei termini in cui Raffaello e Castiglione, nella lettera a papa Leone X, sostengono che per "ragione mattematica" l’arco rotondo romano non solo è funzionalmente più idoneo a sostenere i carichi, ma è anche il più bello (perché possiede "quella grazia all’occhio nostro, al quale piace la perfezione del circolo", che è propriamente la forma privilegiata della natura). Ed è la matematica a inventare, nella cultura dell'Umanesimo, la nuova scienza della rappresentazione bidimensionale, quella che dà compiuta forma alla nuova pittura del Rinascimento e si costituisce in paradigma sino all'Ottocento, all'esplosione delle avanguardie non più figurative e antiaccademiche: la prospettiva.

Un’osservazione s’impone: sia Aristotele che Castiglione e Raffaello fanno riferimento all’occhio e allo sguardo come ai costitutivi strumenti di valutazione, della bellezza corporale. Un occhio e uno sguardo che hanno, però, adottato parametri matematici e geometrici. Su questa ragione economica dell'occhio e della memoria si fonda il principio di unità dell'opera estetica (per la poesia: della favola), nel senso qui definito: cioè di misura, proporzione, simmetria, convenienza, eccetera.

 

L'immagine del disegno di Leonardo (con le altre equivalenti) compendia, in realtà, una lunga tradizione che assume il corpo dell’uomo come unità di misura e di proporzione per i corpi delle nuove fabbriche architettoniche: da Vitruvio a Francesco di Giorgio Martini, da Leon Battista Alberti a Piero della Francesca sono moltissime le testimonianze in questo senso. Un paradigma costante e forte, in grado di essere citato anche da Mario Equicola, nel Libro de natura de amore, che allega un’immagine dei rapporti di proporzione tra le diverse parti del corpo, perché possa essere riconosciuto come conveniente rispetto al canone della bellezza.

La funzione produttiva della legge dell’unità e della proporzione, fondata sulla misura del corpo umano, costituisce uno dei più importanti principi architettonici dell’Umanesimo: il suo manifesto è nella facciata della chiesa di santa Maria Novella a Firenze, progettata da Leon Battista Alberti a metà Quattrocento. Un rigoroso impianto geometrico, che esalta la "ragion mattematica", con quadrati, triangoli, cerchi. Un trionfo dell’ordine, dell’unità, della simmetria, della proporzione. Per virtuosa imitazione della natura.

A partire da questo momento fondativo, per imitazione degli antichi e della natura da loro splendidamente imitata, un edificio (chiesa o palazzo che sia) per essere bello dovrà avere alcuni elementari requisiti: essere il prodotto di un progetto (cioè di precisi calcoli che misurino dimensioni e proporzioni del corpo architettonico), presentarsi (all’occhio di chi lo guarda) unitario e ordinato, cioè strutturalmente simmetrico nelle proporzioni, avere, tra l’altro, un numero pari di colonne o di lesene nella facciata (perché in natura nessun animale ha un numero dispari di arti), eccetera.

A partire da questo momento l’immagine del corpo architettonico delle città europee (sino a noi, o quasi) sarà modulato sulla base di queste leggi: un succedersi ordinato di archi, triangoli, quadrati, timpani, rientranze, sporgenze, cupole, eccetera.

L’esecuzione disciplinata di questa legge dell'ordine, della misura e della proporzione è sotto gli occhi di tutti: senza scandalo di nessuno inscritta nei corpi di fabbrica di tutte le città d’Europa (ma anche nei luoghi a forte indice simbolico degli Stati Uniti d’America: in ogni loro città c’è pur sempre un Campidoglio , esemplato su modelli classicistici, ancora nell’Ottocento).

Ma se senza scandalo abbiamo introiettato l'ordine dell’architettura moderna, l'immagine dei suoi corpi misurati e proporzionati, perché tanto scandalo di fronte alle leggi (del tutto omologhe a questi ordine costruttivo) che hanno per secoli regolato la produzione del corpo testuale della poesia e della letteratura?

Un'ultima considerazione, a proposito del corpo come misura di tutte le cose.

Nella tradizione degli Antichi e dei Moderni, il corpo dell’uomo non è solo un corpo estetico, ma è anche un corpo etico, come dimostra il formidabile radicamento dell'apologo di Menenio Agrippa (risemantizzato in senso ecclesiale dall'interpretazione di san Paolo nella prima lettera ai Corinti), che nell'Antico regime corrisponde anche al corpo politico della società: tutti i suoi membri, anche i più umili, concorrono al benessere complessivo dell'organismo, perché un corpo (sociale) è bene ordinato e sano quando le mani o il ventre convengono con la testa.


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