|
in parallelo agli Epòdi, Orazio coltiva negli stessi anni un altro genere poetico, la satira (sorta con Ennio e codificata da Lucilio). I due libri di Sermones (="conversazioni alla buona") escono nel 35 e nel 30 a.C., dedicati a Mecenate
come negli Epòdi il poeta osserva a fondo la società circostante, ma, rispetto agli Epòdi mantiene una maggiore cordialità: generalizza, diventa più discorsivo e indulgente nei confronti dell'errore e dell'uomo. Vuole sviluppare un discorso morale, privo di tono predicatori, ricco di umanità e comprensione. L'ottica è quella epicurea, ma è poco sistematico e riduttivo (concetti base sono l'autarkhèia, autosufficenza e la metriòtes, moderazione)
non si presenta come eroe, ma rimane sempre consapevole dei proprio limiti, cerca se stesso confrontandosi con gli altri e il mondo
il criterio della medietas in sede morale è attivo anche in sede formale: raffinatezza ellenistica, naturalezza colloquiale e tono medio allontanano Orazio dal suo modello satirico, che è Lucilio. Usa il sermo quotidianus, privo però di volgarismi.
Sulla medietas resta esemplare il primo sermo (testo integrale), dedicato a Mecenate e in qualche modo programmatico, almeno nei versi che qui riportiamo:
1 14 20 25 |
Qui
fit,
Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
Ne te morer, audi |
Come mai, Mecenate, nessuno, nessuno vive contento della sorte che sceglie o che il caso gli getta innanzi e loda chi segue strade diverse? (...) A farla breve, ascolta dove voglio arrivare: se un dio dicesse: 'Eccomi qui, pronto a fare ciò che volete:tu, ch'eri soldato, sarai mercante, e tu, giurista, un contadino: scambiatevi le parti e via, uno di qua, l'altro di là. Che fate lí impalati?' Rifiuterebbero, eppure era possibile che fossero felici. Non ha forse ragione Giove a sbuffare irritandosi con loro e a sancire che d'ora in poi non sarà piú tanto arrendevole da porgere orecchio a preghiere simili? Insomma, per non continuare negli scherzi, tal quale una farsa (per quanto, che cosa vieta di dire la verità scherzando? anche i maestri a volte con blandizie danno delle chicche ai bambini, perché si decidano a imparare l'alfabeto; ma bando alle burle: pensiamo a cose serie) ... |
Come importante resta il famoso sermo 4 (testo integrale), dagli importanti contenuti metapoetici, come ad esempio:
17
18 39 40 81 85 103 105 106 126 130 135 140 |
Di bene fecerunt, inopis me quodque pusilli finxerunt animi, raro et perpauca loquentis; (...) primum ego me illorum, dederim quibus esse poetis, excerpam numero: neque enim concludere versum dixeris esse satis, neque siqui scribat uti nos sermoni propiora, putes hunc esse poetam. ingenium cui sit, cui mens divinior atque os magna sonaturum, des nominis huius honorem. (...) Absentem qui rodit, amicum qui non defendit alio culpante, solutos qui captat risus hominum famamque dicacis, fingere qui non visa potest, conmissa tacere qui nequit: hic niger est, hunc tu Romane caveto. (...) Liberius si dixero quid, si forte iocosius, hoc mihi iuris cum venia dabis: insuevit pater optimus hoc me, ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando. (...) Avidos vicinum funus ut aegros exanimat mortisque metu sibi parcere cogit, sic teneros animos aliena opprobria saepe absterrent vitiis. ex hoc ego sanus ab illis perniciem quaecumque ferunt, mediocribus et quis ignoscas vitiis teneor; fortassis et istinc largiter abstulerit longa aetas, liber amicus, consilium proprium: neque enim, cum lectulus aut me porticus excepit, desum mihi. «rectius hoc est; hoc faciens vivam melius; sic dulcis amicis occurram. hoc quidam non belle: numquid ego illi inprudens olim faciam simile?» haec ego mecum conpressis agito labris; ubi quid datur oti, inludo chartis. hoc est mediocribus illis ex vitiis unum; cui si concedere nolis, multa poetarum veniat manus, auxilio quae sit mihi — nam multo plures sumus —, ac veluti te Iudaei cogemus in hanc concedere turbam. |
Grazie
agli dei, che mi fecero d'animo modesto e timido, di concise e pochissime
parole (...) Innanzi tutto io voglio togliermi dal novero di quelli a cui darei il nome di poeta: non mi dirai che basta chiudere in ritmi un verso per essere poeta o che sia tale chi come me scrive al limite della conversazione. Solo a chi ha genio, afflato divino e sublimità d'espressione puoi concedere l'onore di questo titolo. (...) Chi sparla dell'amico assente, chi non lo difende quando l'accusano, chi cerca la risa smodate della gente per esser detto spiritoso, chi sa inventare cose inesistenti e chi non sa mantenere un segreto: questa è l'anima nera, da cui tu, romano, devi guardarti. (...) Se mi sfuggirà una battuta troppo franca, o magari troppo scherzosa, con un po' d'indulgenza questo diritto me l'accorderai: me l'ha inculcato quel brav'uomo di mio padre a fuggire i difetti, facendomeli notare uno per uno con esempi. (...) Se il funerale di un vicino sgomenta gli ammalati intemperanti e per paura della morte li induce a riguardarsi, cosí la vergogna altrui distoglie dal male le menti ancora da plasmare. Grazie a questo, esente da tutti quei difetti che portano a rovina, sono affetto solo da quelli piú comuni e che si possono scusare. Forse anche da questi potranno almeno in parte liberarmi gli anni a venire, un amico sincero o il mio discernimento: neanche a letto o sotto i portici infatti vengo meno a me stesso. 'Questo è piú giusto, facendo cosí vivrei meglio e cosí riuscirò caro agli amici. L'azione di quel tale non è bella: potrebbe capitarmi un giorno di fare come lui senza riflettere?' Questi i discorsi che faccio tra me a bocca chiusa; se poi ho un po' di tempo libero li butto per diletto sulla carta. Ecco una delle mie debolezze: se tu non me la vuoi scusare, verrà in mio aiuto una schiera compatta di poeti (siamo di gran lunga la maggioranza) e, al pari dei giudei, ti costringeremo a passare tra le nostre file. |
Resta celebre l'apologo sul topo di campagna e il topo di città (Sermones II, 6, vv. 80 - 117 - con testo latino), in cui Orazio ribadisce l'importanza della sobrietà e della mediocritas, aggiungendo la contrapposizione fra la città, regno della confuzione, dell'intrallazzo e della corruzione, alla campagna, sospirato rifugio, oasi di serenità e di pace.
C'era una volta un topo di campagna che nella sua povera tana ebbe ospite un topo di città, come per vecchi vincoli si accoglie un vecchio amico: ruvido e attaccato ai suoi risparmi, ma non al punto da negare il suo animo gretto ai doveri dell'ospitalità. In poche parole, non gli fece mancare né i ceci che aveva messo da parte, né i lunghi chicchi dell'avena, e, portandoli in bocca, gli offrí acini passiti e pezzetti di lardo rosicchiati, cercando di vincere con la varietà dei cibi la riluttanza dell'amico, che a mala pena assaggiava le singole vivande con fare indisponente, mentre sdraiato sulla paglia fresca il padrone di casa si mangiava farro e loglio, lasciando all'altro i bocconi migliori. Alla fine il cittadino gli disse: 'Che gusto c'è, amico mio, a vivere di stenti sulle pendici di questo bosco scosceso? Non ti pare che alle foreste inospitali siano da preferire uomini e città? Dammi retta, mettiti in cammino con me, visto che le creature terrestri anima mortale hanno avuto in sorte e che, piccoli o grandi, non si sfugge alla morte: perciò, mio caro, finché t'è concesso, goditi le gioie che dà la vita e ricorda quanto questa sia breve'. Scosso da questi suoi discorsi, il campagnolo balza lesto dalla tana, ed eccoli correre insieme sul loro itinerario,ansiosi d'insinuarsi nottetempo nelle mura della città. E già la notte era a metà del suo corso celeste, quando i due mettono piede in un palazzo sontuoso, dove su divani d'avorio splendeva un drappo tinto di rosso scarlatto e dove una quantità di vivande, avanzate da una cena opulenta, erano in un canto riposte dal giorno avanti in canestri ricolmi. Sistemato che ebbe il campagnolo lungo disteso su un drappo di porpora, l'ospite con l'agilità di un servo si mette a scorrazzare avanti e indietro, serve portate una dopo l'altra e assolve al servizio come un domestico assaggiando per primo tutto ciò che porta. Quello si gode sdraiato la nuova condizione e in mezzo a tante leccorníe fa la parte del convitato soddisfatto, quando a un tratto un gran fracasso di porte li fa balzare giú dal letto. E via impauriti a correre qua e là per la sala e in piú senza fiato, tremanti, come nell'immenso palazzo rimbombano i latrati dei molossi. Allora il campagnolo sbotta: 'Non so che farmene di questa vita', e 'stammi bene: il bosco e la mia tana, sicura dai pericoli, mi compenseranno delle mie povere lenticchie'