L'Arcadia

 

Vivere in Arcadia: l’utopia della finzione bucolica

L’Arcadia, in cui Virgilio ambienta le Bucoliche, è un universo del tutto immaginario; un “mondo possibile" ma irreale, un’autentica utopia (da u-topos, "in nessun luogo"), che prende il nome convenzionale di «Arcadia" ma che i lettori sapevano bene essere del tutto differente dalla regione del Peloponneso greco così chiamata. Il poeta seleziona eventi, oggetti, particolari della realtà, combinandoli insieme così da riprodurre un mondo che "potrebbe" effettivamente esistere; la vita dei suoi pastori si svolge in un ambiente del tutto artificiale, ma che esibisce la paradossale concretezza di cose vere, umili e quotidiane. Virgilio sa di rivolgersi al raffinato pubblico delle città e, per introdurre i lettori in un mondo del tutto lontano dalle loro abitudini e mentalità e creare questo "effetto di realtà", è attento a designare con la masssima precisione gli oggetti della vita quotidiana, ricorrendo per ciascuno di essi al nome preciso (si veda in proposito qui sotto Il lessico pastorale delle Bucoliche).

Tanta esattezza dei dettagli è utile al poeta per creare essenzialmente l’ambientazione, lo sfondo, della sua poesia bucolica. Si tratta di uno sfondo, si badi bene, attivo a ogni livello, anche psicologico: quando i pastori-poeti pensano e parlano, si riferiscono sempre e solo alla cultura dei campi; da essa attingono idee, paragoni, giudizi, proverbi. In tal modo il genere bucolico acquista una forte coerenza interna, diviene un vero e proprio genere letterario, capace di dare forma alle cose, nel senso che esse sono dicibili e pensabili solo perché e in quanto sono interpretate dal linguaggio e dalla mentalità dei pastori.

Precisione di dettaglio evocativo, peraltro, non significa realismo, concretezza descrittiva: già si è visto che, rispetto alla precisione dei quadretti di Teocrito, Virgilio preferisce descrizioni più rarefatte e allusive. Quello delle Bucoliche è, in sostanza, uno scenario irrealistico, quasi onirico: un mondo utopistico. Lo vediamo nel paesaggio, a prima vista concreto e specifico, ma nella realtà vago e indeterminato: il poeta crea una sorta di collage di geografie diverse, fondendo elementi dell’originaria Arcadia greca (montuosa e selvaggia) con altri della pianura Padana, a lui ben familiare, mescolando fonti e fiumi di paesi diversi ecc.

 

La 'vera' Arcadia

Regione montuosa del Peloponneso greco, bagnata dal fiume Alfeo; la sua risorsa primaria era la pastorizia. Grazie al suo isolamento, conservò un dialetto d’impronta arcaica e miti e culti singolari. Vi si venerava il dio Pan; anche Hermes e suo padre Zeus erano ritenuti nativi dell’Arcadia. La tradizione romana (si veda l’Eneide di Virgilio) riteneva di origine arcade anche il re Evandro, che avrebbe dedotto una piccola colonia dalla patria greca sul sito (il futuro Palatino) dove poi sarebbe sorta Roma. L’idealizzazione della vita pastorale dell’Arcadia si deve a Virgilio, che ne fece la sede della sua poesia bucolica. Sulla sua scia l’umanista napoletano Jacopo Sannazaro scrisse il romanzo pastorale Arcadia (1501; poi 1504), in prosa e versi, che celebrava lavita schietta e felice dei pastori arcadi e che ebbe grande fortuna e imitatori in tutta Europa. A tali precedenti s’ispirava l’Accademia letteraria dell’Arcadia, sorta a Roma nel 1690 e presto diffusasi con proprie «colonie » in tutta Italia, con il programma di «restaurare» la poesia italiana in senso classicista, contro le stravaganze del barocco. Gli accademici adottavano pseudonimi grecizzanti e altri elementi rituali: i poeti si chiamavano «pastori»; il loro simbolo era la siringa o zampogna di Pan, l’antico dio greco dei boschi; ecc.

 

Il lessico pastorale delle Bucoliche

ll vocabolario poetico del Virgilio bucolico ricorre a designazioni precise, realistiche: sono nomi di piante (baccar, una pianta con radice odorifera, forse la digitale purpurea; myrica, "tamarisco"; colocasium, l’erba tropicale della "colocasia" o "fava d’Egitto"; viburnum, "viburno" o "lentaggine", l’arbusto sempreverde usato per le siepi; amomum, la pianta aromatica del "cardamomo", di origine indiana; saliunca, un’altra pianta odorosa), di lavori campestri (depellĕre, "staccare dalle madri", "svezzare"; submittĕre, "lasciar crescere"; inserĕre, "innestare" le piante; premĕre, “far rapprendere" il formaggio), di oggetti e cose della vita del pastore (novale, il "campo" dissodato e lasciato riposare per un anno; segetes, i "campi" appena seminati; ansa, il "manico" della brocca; ferula, il "bastone" di canna; tugurium, la "capanna" con il tetto di paglia; villa, il più solido "casolare" di campagna). Lo stesso strumento che i pastori-poeti utilizzano per intonare il canto viene designato in molti modi diversi (fistula, avena, calamus, stipula, cicuta), che alludono tutti, senza sostanziali differenze, al gambo cavo di una pianta palustre, cioè all’umile canna usata come zufolo semplice o anche nella forma della «Siringa di Pan» (più canne digradanti e saldate con la cera).

 

L'Arcadia nella letteratura europea

Nella letteratura italiana ed europea l’Arcadia, regione montagnosa e arretrata nel cuore del Peloponneso, è divenuta luogo simbolo della tradizione bucolica. Se infatti l’«inventore» della poesia pastorale, il greco Teocrito, aveva ritratto nei suoi componimenti le campagne di Siracusa o, talvolta, delle isole egee, già in Virgilio ai paesaggi italici si alternano le vallate montane dell’Arcadia come ambientazione preferita per il canto dei mandriani e dei pastori. È questo il caso, per esempio, delle ecloghe IV e X; mentre gli arcadi Tirsi e Coridone, protagonisti dell’ecloga VII, erano destinati a divenire quasi il paradigma del pastore- cantore.

Ma per quale ragione proprio l’Arcadia venne prescelta da Virgilio quale terra d’elezione per questo particolare genere di espressione poetica? Precise testimonianze ci rivelano come la poesia pastorale fosse il fondamento dell’educazione dei giovani arcadi nell’antichità, e particolarmente interessante da questo punto di vista è la testimonianza di un famoso storico greco di origine arcade, Polibio di Megalopoli (II secolo a. C.). Polibio, in una digressione all’interno delle sue Storie, così riferisce:

Tutti sanno benissimo infatti che quasi solo presso gli Arcadi i bambini fin da piccoli vengono abituati per legge a cantare inni e peani, con i quali, secondo il costume tradizionale, celebrano gli eroi e gli dèi del luogo; più tardi poi (…), ogni anno, in occasione delle feste dionisiache, danzano a gara in teatro, e i fanciulli celebrano i certami loro riservati, i giovanetti quelli detti virili. Similmente durante tutta la vita gli Arcadi non ricorrono, per rallegrare i banchetti, a cantori stranieri, ma cantano a turno essi stessi. E mentre non ritengono vergognoso confessare la propria ignoranza in altri campi, non possono dire di non conoscere il canto, perché è obbligatorio impararlo, né, ammettendo di conoscerlo, esimersi dal cantare, perché ciò presso di loro è considerato illecito. I giovani imparano a marciare ritmicamente con accompagnamento di canti e di flauto; si esercitano inoltre nella danza, aiutati da pubbliche sovvenzioni, e poi annualmente, nei teatri, danno prova ai concittadini dei loro progressi. Gli antichi Arcadi, a mio parere, hanno introdotto queste usanze non per mollezza e per lusso, ma in considerazione del lavoro che ognuno deve compiere, della vita aspra e faticosa che conducono, e in generale dell’austerità dei costumi loro imposta dal clima freddo e dall’asprezza ostile del terreno che li circonda. (…) Gli antichi Arcadi dunque introdussero gli usi ricordati per desiderio di addolcire e temperare la loro natura eccessivamente aspra e fiera.

(Storie IV, 20-21; trad. C. Schick).

Nell’età moderna sarà il napoletano Jacopo Sannazaro (ca 1455-1530) con la sua Arcadia (1501; 1504) a rinnovare la tradizione classica, riproponendo l’adesione a un ideale estetico fondato sul senso dell’equilibrio e della misura, sulla semplicità e sull’immediatezza, che più tardi, in polemica con l’artificiosità barocca, diverranno le linee guida dell’Accademia fondata a Roma nel 1690 e che proprio dall’Arcadia trarrà il suo nome. Un aneddoto famoso vuole che Agostino Maria Taja, nel corso di una riunione di letterati riuniti per commemorare la loro patrona, l’ex regina Cristina di Svezia, morta a Roma nel 1698, abbia esclamato dopo avere udito recitare alcuni componimenti di tema pastorale: «Ei sembra che noi oggi abbiam rinovato l’Arcadia!».


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