Il san Francesco percepito e il san Francesco storico

 

Perché quella del Poverello di Assisi non è un’icona per tutte le stagioni

 

di Carlo Cardia

 

Benedetto XVI ha parlato della conversione di Francesco d’Assisi (il 3 ottobre 2006 erano 780 anni dalla sua morte), proponendo uno spartiacque tra la gioventù scapestrata e l’opera successiva che l’ha portato a essere patrono d’Italia. Commentata dalla stampa, l’interpretazione ratzingeriana della giovinezza di Francesco (è stato un po’ playboy) suggerisce di ricordare alcuni tratti autentici della sua personalità, a volte chiusa dentro stereotipi riduttivi.

Francesco è uno dei santi più vicini al cuore dei cattolici, rispettato dai protestanti, amato anche fuori del cristianesimo, e ha superato tante prove della modernità. Forse per questo è interpretato all’interno di un’agiografia che ne limita il valore strategico nella storia della chiesa. Non si trova chi parli male di lui, o chi formuli riserve, come si fa ad esempio con san Domenico, o sant’Ignazio di Loyola. Al primo è di peso l’ortodossia che ha portato i domenicani ad apparentarsi con l’inquisizione; al secondo fa aggio l’immedesimazione con la Controriforma, nonché il potere che i gesuiti hanno conquistato nella chiesa, fin dentro la curia romana.

A Francesco non si rivolge alcun rimprovero. Perché è semplice, ama le creature, comprese quelle non umane, esalta la natura, predica l’amore di Dio e la pace, non ama troppo la sapienza dei dotti, respinge il lusso e pratica l’obbedienza. Con linguaggio moderno viene quasi presentato come ecologista, animalista, e pacifista, ma in questo modo all’iconografia classica, se ne sostituisce una moderna altrettanto insoddisfacente.

Francesco è un’altra cosa, ha personalità poliedrica, tratta con i grandi dell’epoca, interviene con originalità su questioni cruciali per i suoi tempi, consegue vittorie e sconfitte nel realizzare il suo disegno, rappresenta un pilastro morale e culturale che la chiesa deve ancora valorizzare in tutte le implicazioni e sfumature. Francesco si fa strada tra i potenti della terra, se si pensa che il pontefice suo primo interlocutore è stato Innocenzo III, il Papa più teocratico della storia ecclesiastica. È Innocenzo III che pone il papato quasi tra il cielo e la terra perché, a suo dire, il Papa è “inter Deum et hominem constitutum, citra Deum, sed ultra homine; minor Deo, sed major homine” (inferiore a Dio ma superiore all’uomo). A lui, il più grande tra gli uomini, Francesco propone la regola della povertà e dell’umiltà assoluta.

Altro suo interlocutore è uno dei più raffinati sultani, Malik al Kamil d’Egitto, nipote del Saladino, presso cui Francesco si recherà nel suo incredibile viaggio in oriente, e con il quale competerà in dialettica e intelligenza. E Francesco partecipa, insieme con san Domenico, al Concilio laterano del 1215, il Concilio dell’inquisizione e delle crociate, della chiesa medievale al massimo del suo fulgore. E’ il Concilio che legittima le operazioni di sterminio degli eretici (con l’occhio agli albigesi), assimilandole alle crociate contro gli infedeli: “I cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici, godano delle indulgenze e dei santi privilegi, che sono concessi a quelli che vano in aiuto della Terra Santa” (can. 3). Il concetto di crociata, oltre che alla Terrasanta, è riferito alla lotta contro gli eretici, contro i mori nella penisola iberica, i pagani della Prussia e di alcune zone baltiche.

 

Per la verità, una parziale revisione storica dovrebbe riguardare anche Pietro Bernardone, padre di Francesco, tramandato come esoso e nemico della sua vocazione, immortalato nella celebre scena della spoliazione di Francesco che rinuncia a tutto. Ma Bernardone è soltanto un bravo e ricco mercante di tessuti, che passa la vita commerciando e viaggiando per acquisire sempre nuova e raffinata mercanzia, per mantenere nell’agiatezza la sua famiglia. Il fatto è che il figlio, anziché collaborare con il padre, vive la sua prima età, più che come un playboy moderno, come un tipico esponente della jeneusse dorée dell’epoca. Allegro e gioioso, mai volgare, spende e spande il denaro di Bernardone, e coltiva ogni tanto gli ideali cavallereschi dell’epoca, senza prender parte alle attività del padre. Quando a questi ideali subentra la chiamata religiosa, avviene un fatto singolare: mentre Bernardone è fuori sede, Francesco acquisisce una parte del denaro paterno con l’intenzione di utilizzarlo per riparare la chiesetta della Porziuncola. Si può immaginare la reazione del padre quando ne viene a conoscenza. Insomma, si può nutrire comprensione cristiana per Bernardone, anche perché non è stato facile essere padre di un santo. La prima grande rivoluzione di san Francesco è quella di riproporre la povertà evangelica all’interno della chiesa in un periodo nel quale il pauperismo è il cuore di molte eresie. Francesco vive nel periodo in cui si moltiplicano i movimenti ereticali, e il pauperismo sconvolge la vita di una chiesa nella quale non pochi prestano il fianco alle critiche con la ricchezza e la potenza che ostentano.

Prima di Francesco, Arnaldo da Brescia aveva denunciato la ricchezza del clero e la proprietà ecclesiastica come fonti e radici della corruzione della chiesa e dei conflitti con lo stato. E mentre già dilagava l’eresia catara, Pietro Valdo, sul fondamento della povertà della chiesa, anticipa i grandi temi della Riforma sulla religiosità laicale e la predicazione del Vangelo. Idea originaria di Francesco è quella di richiamare la radicalità evangelica, di farne motivo di ispirazione e di esempio per la chiesa. Vuole quindi che i frati che intendono seguirlo vivano soltanto di ciò che riceveranno in dono, senza avere beni o sedi stabili, senza amministrazione e amministratori. L’obiezione che Innocenzo III gli rivolge è quella di essere fuori del mondo, troppo lontano dalla natura umana: “Vai, chiedi al Signore di ispirarti idee più sensate per il tuo avvenire, e quando sarai sicuro dei tuoi desideri, ritorna da me e approverò la tua regola”. Francesco aspetterà molto prima di vedere approvata la sua regola, e dovrà venire a compromessi sul suo contenuto. Ma anche senza regola le prima comunità francescane si formano spontaneamente, perché Innocenzo III gli aveva concesso verbalmente il permesso di predicare e di vivere, con i suoi discepoli, secondo il suo stile. Francesco possiede un carisma eccezionale con il quale converte alla sua scelta spirituale uomini come Bernardo da Quintavalle, Pietro de’ Cattani, o donne come Chiara di Favarone, appartenente a una delle più ricche famiglie di Assisi, che si lascia recidere la chioma e si stabilisce presso la chiesa di San Damiano insieme alla sorella Agnese e ad altre compagne, formando il nucleo del futuro ordine delle clarisse. Le comunità francescane si diffondono un po’ dovunque uniformandosi alle idee più rigorose del fondatore, prima ancora che possa nascere un vero ordine religioso. Alla fine, però, Francesco la spunta e i francescani stanno lì a rappresentare l’anima evangelica della chiesa, nella quale la povertà si coniuga con la semplicità e con la carità cristiana.

 

Ma Francesco è figlio della chiesa, obbediente alla gerarchia, non ha velleità rivoluzionarie. Questo il segreto del suo successo, di cui Roma intelligentemente si appropria: far lievitare la povertà dentro la struttura ecclesiastica, senza contestarne la legittimità, la gerarchia, il potere temporale. Dunque, Francesco è un contestatore della chiesa ricca e potente, ma la sua contestazione è portata avanti con i fatti, con l’esempio della vita, non con proclami o proposte antiistituzionali. Francesco è un contestatore obbediente, e con questo ossimoro salverà più volte la chiesa in difficili frangenti. C’è un’altra rivoluzione che Francesco opera senza troppe esibizioni, che penetrerà nell’anima cattolica e che fungerà da formidabile antidoto qualche secolo dopo, nei confronti della Riforma e delle idee di Lutero. E’ la rivoluzione che riguarda la concezione di Dio e della sua opera, il rapporto tra Dio, il creato e le creature umane. Non si trovano trattati teorici o teologici a firma di Francesco, per quanto il suo Cantico delle Creature val più di tante dotte dissertazioni. Ma il valore dirompente del rapporto creaturale con Dio è tale da superare i tempi e proiettarsi in una dimensione metastorica, e insieme quotidiana, che supera ogni raffinata filosofia. Il Dio di Francesco è benefico, dona la vita a tutte le creature dell’universo, le sostiene e le assiste con la bellezza della vita e della forma, con i frutti della natura, con il suo spirito provvidenziale. Con Francesco tutto il creato parla continuamente di Dio. Il Dio di Francesco è vicinissimo all’uomo, non lo lascia mai, fa sentire il suo calore chiedendo sempre la conversione ma senza rimproverare troppo le cadute dovute all’umanità dell’uomo. Si tratta di una vera filosofia teologica, il cui punto d’immagine più alto è rappresentato dal presepio di Greccio che ha fatto entrare il Dio-bambino in tutte le case, facendolo sentire vicino a tutti i bambini, le mamme, i padri, insomma a tutte le famiglie del mondo. Un’invenzione creatrice che non ha eguali. Questa vicinanza di Dio all’uomo, questo calore rassicurante e provvidenziale, divengono i più efficaci antidoti alla Riforma quando nel Cinquecento questa torna a sottolineare l’irreversibile caduta dell’uomo, l’impenetrabilità di Dio, e del suo disegno di predestinazione.

Nella cultura e nella sensibilità cattolica, dove Francesco conquista subito un posto di primo piano, la prossimità a Dio, il suo rapporto familiare con le creature, resteranno un dato inconfondibile, irriducibile a qualunque concezione protestantica che allontana Dio, e lo spoglia delle altre figure che hanno collaborato al disegno della redenzione. L’esaltazione del carattere benefico dell’opera divina porta Francesco a essere un uomo di pace, non un pacifista. La guerra è una colpa in sé perché viola l’armonia del creato, spezza il rapporto con il suo creatore e tra le creature.

 

Vuole andare tra i musulmani per convertirli ma per due volte deve rinunciarvi: la prima nel 1212 perché la tempesta gli impedisce di raggiungere la Siria, la seconda nel 1213 perché, avviatosi verso il Marocco, una malattia lo costringe a tornare. Ma quando nel 1219 riesce a giungere in Terrasanta si trova nel pieno delle crociate, e constata gli stermini che da una parte e dall’altra vengono consumati. Francesco si trova ad assistere all’assedio e alla devastazione di Damietta (da parte dei crociati) e al diffondersi della peste tra i vincitori a causa delle cataste dei cadaveri. Francesco vorrebbe evitare una simile tragedia, e ha ragione perché il sultano aveva offerto ai franchi l’intera Palestina musulmana, inclusa Gerusalemme, se avessero abbandonato l’assedio. Ma il cardinal Pelagio e altri, avidi di conquiste mirabolanti (addirittura quella del Cairo), che non verranno mai, scelgono la strada dello scontro e del massacro. La vicenda di Damietta è considerata una svolta nella parabola del regno latino in Palestina. Francesco decide comunque di parlare con il sultano per porre fine alle guerre, ma vuole raggiungere questo obiettivo attraverso la sua conversione al cristianesimo. In questo modo, pensa, tutti i problemi si risolvono da soli. E come capita spesso ai grandi visionari, riesce ad ottenere il colloquio, anche se prima di essere condotto di fronte al sultano riceve una dose abbondante di botte. Per quanto filtrati da intenti agiografici, gli incontri con Malik al Kamil riflettono l’elevatezza dei due personaggi, e la loro gara in arguzia e ironia. Quando Francesco gli propone di convertirsi, il sultano risponde che (pur apprezzando lo spirito della proposta) non potrebbe comunque seguire il consiglio perché la conseguenza sarebbe che entrambi verrebbero immediatamente uccisi. E dunque è meglio che lui resti musulmano e Francesco ritorni tra i suoi. Il sultano però non rinuncia a mettere alla prova l’intelligenza e la prontezza di Francesco quando in una successiva udienza gli fa trovare dei tappeti sui quali sono disegnate parecchie croci, in modo da costringerlo a “calpestare la croce”. Francesco comprende il tranello, però con fare sicuro passa sopra i tappeti e una volta giunto davanti al sultano gli dice pressappoco: “Quelle sono le croci dei due ladroni, perché quella di Gesù la porto sempre con me”. In ogni caso Francesco ottiene dal sultano un permesso speciale, e prezioso, quello di poter predicare in terre musulmane, sia pure con la promessa di non offendere l’islam. Di lì riceve nuovo impulso il programma missionario dei francescani (ancora oggi custodi dei luoghi santi in Gerusalemme) che si svilupperà nei secoli, incoraggiato e sostenuto dai pontifici, e che si estenderà un po’ in tutto il mondo. Un risultato religioso duraturo, che affonda qualche radice in una iniziativa apparentemente sconsiderata.

 

Anche la propensione verso le creature non umane assume un profilo anticonformista, perché Francesco ama gli animali, parla con loro, stabilisce con alcuni di essi un rapporto unico nel suo genere. Per sé non si tratta di un fatto nuovo nella tradizione giudaico-cristiana. Il salmista si rivolge a Dio ricordando “il (suo) giudizio come il grande abisso: uomini e bestie tu salvi, Signore” (36,7). E Basilio il Grande, riprendendo questo passo, prega per gli animali: “supplichiamo la tua grande tenerezza di cuore perché tu hai promesso di salvare gli uomini e gli animali e gli hai concesso loro il tuo amore infinito”. Dio stesso, d’altronde, parla con amore della sua opera, loda i cerbiatti e i leoncini, gli uccelli e le gazzelle, ricorda a Giobbe quanta bellezza si trova negli animali, e compone quasi un inno all’ippopotamo, esaltandone la forza e la maestosità: “Esso è la prima delle opere di Dio; il suo creatore lo ha fornito di difesa” (Gb, 40, 10). In ambito eremitico, poi, non mancano asceti amici degli animali, da san Gerolamo che toglie la spina dalla zampa di un leone a san Sergio che nei boschi ha come compagno un orso con il quale divide il suo pane. Ma Francesco fa del suo rapporto con gli animali un luogo teologico. Fratello sole e sorella luna, e nostra madre terra, sono la casa di tutti, e nel celebre discorso agli uccelli, che accorrono ad ascoltarlo, propone una concezione provvidenziale di Dio, dicendo ai volatili: mi complimento con voi per i vostri bei vestiti, e mi congratulo per il fatto che Dio vi ha regalato una grande indipendenza donandovi le ali, perché volando voi possedete il cielo, nel quale potete muovervi a piacimento. Il rispetto per l’opera creatrice di Dio si sta rivelando tra le eredità di Francesco più adatte alla modernità, perché contraria a tutti i disegni pseudoscientifici e manipolatori nei confronti della natura. Francesco è l’antesignano di una teologia che rivede il rapporto dell’uomo con i processi e i ritmi della natura. Egli ci ricorda che senza gli animali il creato sarebbe una cosa diversa, privo di bellezza e fantasia, assai deprimente. Immaginiamo di svegliarci un giorno e scoprire che gli umani sono gli unici abitanti della terra. Non un suono che non sia la nostra voce. Non un canto di uccello, in città o nelle campagne, o i mille versi emessi dagli animali disseminati in ogni angolo della terra. Non un gatto o un cane, un leone o un cervo, un merlo o un elefante, né in Europa o in Africa, in Asia o nelle Americhe. Non la ricchezza delle tante cose buffe, eppure bellissime (o anche cattive), che ogni animale compie, che riempiono da sempre la fantasia dei bambini, e temperano la razionalità dei grandi. Vi sarebbe un silenzio assoluto, avremmo la sensazione di un nulla ancor più grande. Ma Francesco vuole preservato il creato in tutti i suoi aspetti, compresi i ritmi naturali. L’inno a “sorella morte” sta lì a suggerire l’accettazione positiva dell’uomo dei propri limiti, nell’attesa di un loro superamento definitivo. Ignorare questi limiti, voler evitare o manipolare la vita, o anticipare la morte a piacimento, distruggere quanto di bello c’è attorno a noi, tutto ciò è il contrario del messaggio francescano. Si tratta di un messaggio che lo scientismo d’oggi stenterebbe a capire e ad accettare. Francesco, che ha dato vita al suo ordine, è profeta e carismatico, non un organizzatore. Per avere il placet pontificio alla sua regola impiega anni, e soltanto nel 1223 lo ottiene da Onorio III. Gli stessi confratelli a volte lo contestano, come quando nel capitolo di Pentecoste del 1222, obiettano che la sua regola è troppo rigida. Eppure Francesco aveva convenuto nel togliere alcuni divieti, come quello di andare a cavallo, o di portare con sé alcun oggetto. D’altra parte i francescani cominciano a studiare regolarmente, anche se Francesco aveva detto che era meglio pregare che studiare.

 

Ma a consolidare il francescanesimo è Frate Elia, figura di grande spessore che interviene nelle dispute tra i potenti, sarà consigliere di Federico II, e verrà scomunicato due volte. A lui Francesco dice un giorno: “Elia, tu ti sta dannando”. Ma Elia sa tenere i contatti con tutti, sa provvedere alle esigenze organizzative dell’ordine, sa inserirlo nelle grandi vicende della chiesa. Due volte ministro generale dei Frati Minori, per il fascino delle cose grandi sembra perdere in semplicità e umiltà. Si prodiga in ambascerie, assumendo atteggiamenti da politico e consumato diplomatico, gira con un seguito ricco e raffinato, non si fa mancare nulla. Scomunicato da due Papi, Gregorio IX e Innocenzo IV, negli ultimi anni si riconcilierà con la chiesa. Elia sembra avere doti di realismo che a Francesco mancavano, ma è privo della più autentica ricchezza del santo di Assisi. Tanto brillante e ansiosa è stata la sua giovinezza, quanto dolorosi e ascetici sono gli ultimi anni di Francesco. Afflitto da problemi alla vista, deve curarsi per ordine del Papa, e subisce anche l’oltraggio della medicina che sbaglia (accostandogli ferri incandescenti alle tempie) e peggiora le cose, rendendolo quasi cieco. Passa gli ultimi tempi a La Verna, ove riceve le stimmate, compiendo brevi viaggi nei dintorni. E finisce di comporre il Cantico delle Creature – primo grande poema italiano in lingua volgare – dove è riassunta in forma poetica una teologia che è insieme naturalistica e trascendente, ottimistica e obbediente, e che anticipa l’umanesimo ponendo anticorpi e antioti contro ogni visione pessimistica di Dio e della vita. Per questo Francesco non è ecologista, animalista, pacifista.

È uomo innamorato di Dio, che lavora per la pace, ama il creato in tutte le sue manifestazioni, e chiede il rispetto delle sue leggi e dei suoi ritmi naturali, vuole diffondere l’Evangelo con la persuasione, sta dentro la sua chiesa che pure vorrebbe migliore. A ben vedere, molto più moderno e realista di quanto certe opportunistiche interpretazioni farebbero immaginare.

«Il Foglio» del 7 ottobre 2006


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