6-11-01

GUERRA GLOBALE

Le vere ragioni della guerra

di Manlio Dinucci

Intrapresa sulla spinta degli attentati terroristici dell'11 settembre, la guerra ha come obiettivo il rilancio dell'economia statunitense in crisi e il rafforzamento degli Usa in aree come quelle del Golfo e dell'Asia centrale, decisive per l'egemonia globale


Di fronte all’area maggioritaria del “sì alla guerra”, si è creata in parlamento un’area del “no” che, pur essendo nettamente minoritaria, può svolgere un ruolo politico significativo. Bisogna però rilevare che questo “no” si è basato sinora, essenzialmente, sulla motivazione che il terrorismo deve essere combattuto non dagli Stati Uniti ma dall’Onu, in modo tale da evitare vittime innocenti e una escalation dalle conseguenze catastrofiche. Anche il “no” è restato quindi all’interno dell’arco di posizioni che, benché contrapposte, partono tutte dalla stessa premessa: quella che all’origine dell’attuale crisi internazionale vi sarebbero gli attentati terroristici dell’11 settembre.

Accettando tale premessa, anche chi dice “no” finisce con l’avvalorare la motivazione ufficiale, secondo cui lo scopo della guerra è quello di annientare l’organizzazione di Bin Laden e le altre organizzazioni terroristiche. Nessun rappresentante politico di quest’area ha osato finora, né in parlamento né nei talk show televisivi, porre la domanda basilare: ma siamo sicuri che lo scopo della guerra sia effettivamente questo?


UN'ECONOMIA IN CRISI

Per cercare di capire quale sia il reale scopo della guerra, occorre anzitutto sfatare il luogo comune che sono stati gli attentati terroristici dell’11 settembre a provocare una crisi economica negli Stati Uniti.

“Già prima dell’11 settembre", sottolinea "The Washington Post" (9 ott. 2001), "era chiaro che gli Stati Uniti stavano subendo un forte rallentamento economico e che l’espansione avrebbe potuto giungere alla fine. Nonostante la ripetuta diminuzione dei tassi di interesse ad opera della Federal Reserve, e un taglio delle tasse decretato dal presidente Bush, la disoccupazione stava salendo, gli investimenti in nuove fabbriche e attrezzature si erano fermati e i consumatori cominciavano a diventare nervosi.”

Tale analisi si basa su precisi dati: a causa del rallentamento dell’economia statunitense, il cui tasso di crescita era sceso allo 0,3%, nel primo semestre del 2001 erano stati effettuati negli Stati Uniti già circa 770.000 licenziamenti, soprattutto in settori tecnologicamente avanzati come quello informatico.


DENARO PUBBLICO AI GRUPPI PRIVATI

Lo stato di guerra, decretato dopo l’11 settembre, ha permesso all’amministrazione Bush di ottenere un sostanziale appoggio bipartisan a un colossale programma mirante a rivitalizzare l’economia statunitense. Tale programma, ufficialmente motivato dallo stato di guerra, si basa su grosse iniezioni di denaro pubblico nelle vene di una economia capitalistica ricaduta in fase di stagnazione. Alla prima iniezione di 55 miliardi di dollari dovrebbe seguirne un’altra, consistente in almeno 100 miliardi nell’anno fiscale in corso (iniziato il 1° ottobre) e in altri 160 subito dopo. A beneficiarne saranno soprattutto i maggiori gruppi transnazionali, che saranno così tonificati per affrontare con rinnovata forza la sempre più aspra competizione nell’arena della globalizzazione capitalistica.

Le iniezioni di denaro pubblico nei maggiori gruppi economici statunitensi – sia del settore industriale che finanziario – avvengono direttamente, attraverso finanziamenti e contratti, e indirettamente, attraverso tutta una serie di sgravi fiscali. Questi ultimi vanno ad aggiungersi ai 74 miliardi di dollari di riduzione delle tasse, già decisi per il gennaio 2002, cui dovrebbero seguire a breve scadenza, su richiesta del presidente Bush, altri 60 miliardi. Ciò nel quadro della legge varata a maggio, che stabilisce per i prossimi dieci anni sgravi fiscali per l’ammontare di 1.350 miliardi di dollari, nei quali avranno la parte del leone gli stessi gruppi economici.


MISURE PER RILANCIARE I CONSUMI

Anche la misura a favore dei 70 milioni di contribuenti col reddito più basso, proposta da un economista della "Brookings Institution", va nella stessa direzione: questi contribuenti, che non beneficiano quasi per nulla degli sgravi fiscali decisi a maggio, godrebbero alla fine di quest’anno di una riduzione straordinaria di tasse per l’ammontare di 300 dollari a testa, in modo che possano spendere di più negli acquisti di Natale. Ciò dovrebbe contribuire a ridare slancio ai consumi, sempre a vantaggio dei grandi gruppi economici. Misure come questa sono però dei palliativi.

L’economia statunitense, così come le altre principali economie capitalistiche, ha un eccesso di capacità produttiva, sia su base interna che internazionale, in rapporto a un mercato interno e internazionale che non solo ha precisi limiti, ma in diversi casi si restringe a causa del peggioramento delle condizioni di vita anche delle classi medie. Vi ha contribuito negli ultimi anni la crisi finanziaria che, fatta esplodere in Asia dai meccanismi speculativi, si è ripercossa su scala globale colpendo anche i piccoli azionisti e risparmiatori.


IL BOOM DELL'INDUSTRIA BELLICA…

Il settore che prima e più di altri ha beneficiato della guerra è stato, naturalmente, quello dell’industria bellica. Nel momento stesso in cui le Torri Gemelle crollavano, le azioni delle principali industrie statunitensi degli armamenti cominciavano a salire, raggiungendo in breve tempo livelli record. Nel giro di tre settimane, a partire dall’11 settembre, sono aumentate in media del 25%.

In testa si è piazzata la Raytheon, con un aumento del 40%, seguita dalla Northrop Grumman con il 30 e dalla Lockheed Martin con il 20. A dare impulso al nuovo boom dell’industria bellica è la certezza che l’amministrazione Bush, con lo stato di guerra, ha ormai mano libera per accrescere ulteriormente la spesa militare: il bilancio del Pentagono – già preventivato, prima dell’11 settembre, in 329 miliardi di dollari nel 2002 (in confronto a 296 nel 2001) e in 347 nel 2003 – salirà sicuramente a livelli molto più alti.

In tale quadro, la spesa annua per l’acquisto di armamenti, già aumentata da 42 a 60 miliardi di dollari, dovrebbe salire a 110 miliardi solo “per mantenere l’attuale struttura delle forze armate e arrestare il loro processo di invecchiamento” (Statement of the Chairman of the Joint Chiefs of Staff, 30 sett. 2001). Ma l’amministrazione Bush ha ben altri progetti per il settore militare: basti pensare a quello dello “scudo spaziale”, punta di lancia della militarizzazione dello spazio.


… E IL RUOLO DELLA FORZA MILITARE

Questa crescente spesa militare – che grava direttamente e indirettamente sulla grande maggioranza dei cittadini – sostiene l’economia degli Stati Uniti, dando loro capacità militari superiori a quelle di ogni altro paese. Nella Quadrennial Defense Review (Revisione quadriennale della difesa), pubblicata dal Dipartimento della difesa il 30 settembre 2001, si ribadisce che “scopo delle Forze armate degli Stati Uniti è proteggere e promuovere gli interessi nazionali”, così che gli Stati Uniti possano esercitare la “leadership politica, diplomatica ed economica” che spetta loro come “potenza globale con importanti interessi geopolitici in tutto il mondo”.

Gli Stati Uniti sono, nel mondo, il paese con il maggior saldo negativo nella bilancia dei pagamenti: circa 450 miliardi di dollari nel 2000. Sono il paese con il più alto debito del mondo: circa 18.800 miliardi di dollari (il doppio del prodotto nazionale lordo), di cui oltre 5.800 miliardi di debito pubblico nell’ottobre 2001 (oltre il doppio del debito estero complessivo dei paesi in via di sviluppo e di quelli dell’Europa orientale e dell’ex Urss) e oltre 10.000 miliardi di debito del settore privato non-finanziario.

È quindi loro interesse vitale che questo enorme deficit venga rifinanziato in continuazione dal flusso di investimenti provenienti dal resto del mondo, sotto forma di acquisto negli Usa di titoli di stato (come i buoni del tesoro), di obbligazioni emesse da enti pubblici e società private, di azioni e altri tipi di investimento. Il combustibile che alimenta la “locomotiva dell’economia mondiale” (come viene definita quella statunitense) è il flusso di capitali che, dal resto del mondo, vengono investiti negli Stati Uniti in base al fatto che la loro economia è sostenuta dal loro ruolo di potenza globale, garantito dalla supremazia militare. In tal modo i 37 gruppi transnazionali statunitensi, che fanno parte dei cento maggiori del mondo, riescono ad accaparrarsi circa il 50% dei profitti complessivi.

UNA STRATEGIA DI LUNGA DURATA PER L'EGEMONIA

Nonostante ciò, la locomotiva economica statunitense (con i cingoli di carrarmato) ha cominciato a rallentare, rischiando di veder calare l’afflusso di capitali e di veder diminuire la supremazia dei propri gruppi transnazionali nell’arena della globalizzazione capitalistica. È a questo punto che il governo degli Stati Uniti, sull’onda degli attentati terroristici dell’11 settembre, ha dichiarato lo stato di guerra: ciò gli ha permesso, da un lato, di lanciare col denaro pubblico un colossale programma di sostegno ai maggiori gruppi economici statunitensi; dall’altro, di gettare la spada sul piatto della bilancia, con una guerra che costituisce il primo passo di una strategia di lunga durata attraverso cui gli Usa intendono rafforzare il loro ruolo di potenza globale, impedendo che si formino potenze in grado di sfidare quella statunitense.


L'IMPORTANZA PRIMARIA DELL'ASIA CENTRALE

L’area con al centro l’Afghanistan – dove gli Stati Uniti hanno lanciato, insieme al fidato alleato britannico, la prima fase dell’Operazione “Libertà duratura” – è di enorme importanza economica e strategica (vedi su questo anche gli articoli di Klare e Aslam, p. 5, 9, 22). Essa comprende, a nord, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Kirghizistan e Kazakistan – repubbliche che, dopo la digregazione dell’Urss, sono rimaste collegate alla Federazione russa nel quadro della Comunità di stati indipendenti, e che gli Usa cercano ora di portare nella propria area di influenza. A est, essa confina con Cina e India, potenze asiatiche emergenti, con una popolazione complessiva di circa 2 miliardi e 300 milioni di abitanti (equivalente a circa il 38% di quella mondiale) ed economie in crescita: il prodotto nazionale lordo della Cina si colloca al settimo posto mondiale dopo quello dei sei maggiori paesi industrializzati; quello dell’India, all’undicesimo. Qui Washington cerca di impedire che un avvicinamento tra Cina, Russia, India e Iran possa creare un blocco di potenze in grado di sfidare la superpotenza statunitense, non solo sul piano regionale.

A sud, tale area comprende l’Oceano Indiano (su cui si affaccia il Pakistan), di importanza primaria per i crescenti traffici commerciali dell’Asia e per qualsiasi operazione militare nella regione. A ovest, la zona petrolifera del Golfo e del Caspio, dove si trovano le maggiori riserve mondiali di greggio e gas naturale. Qui vi sono forti tensioni e conflitti sia sul piano interno – nella stessa Arabia Saudita, paese di importanza strategica – che su quello internazionale, per il controllo non solo delle fonti energetiche ma, soprattutto nel Caucaso, dei “corridoi” per il trasporto del petrolio e gas naturale fino ai paesi consumatori.


USA, RUSSIA ED EUROPA

Con l’operazione “Libertà duratura” gli Stati Uniti, scavalcando nella prima fase anche la Nato, hanno voluto rafforzare direttamente la loro presenza e influenza nel Golfo, area di crescente importanza strategica e, allo stesso tempo, in quella del Caspio, dove Washington opera per sottrarre alla Russia l’esportazione del petrolio e gas naturale della regione, sostenendo le compagnie petrolifere statunitensi in competizione con quelle europee, anche occidentali. Ciò spiega la sollecitudine con cui Germania e Francia hanno inviato, non richieste, proprie forze militari nell’area, ben sapendo che il fine dell’operazione è quello di una nuova spartizione di aree di influenza.

Lo hanno però ben capito anche i popoli, la cui reazione può trasformare l’impresa di Bush nel disastroso esperimento di un apprendista stregone.

 

cobasalfaromeo,6-11-01