CRITICA LETTERARIA: BOCCACCIO

 

Luigi De Bellis

 
 
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Realtà storica e immaginazione nel "Decameron"






 


Realtà storica e immaginazione nel "Decameron"
di V. BRANCA



Se la struttura del Decameron si distende attraverso le varie « giornate » con la sua serie di vizi e di virtù, obbedendo agli schemi della tradizione medievale, la novità del narrare boccaccesco consiste nell'aver saldamente ancorato tale schema a figure e vicende storicamente concrete e note, ben diversamente dal gusto del simbolo e della leggenda proprio della narrativa precedente. Secondo il critico, proprio dove le allusioni storiche sono meno dirette ed evidenti - come nella novella di Andreuccio - allora il sottile gioco di rapporti tra storia e immaginazione suscita quella straordinaria dimensione narrativa che sarà esemplare per i secoli successivi.

Di fronte alla struttura di agglomerati episodici di racconti, che caratterizza le raccolte novellistiche precedenti, il Decameron si presenta come un'opera unitaria, retta saldamente da un disegno ideale, inquadrata in un'architettura morale precisa, di cui la cosiddetta «cornice» è elemento prezioso ma necessario. Dalla prima all'ultima giornata - come abbiamo or ora mostrato - le novelle. si svolgono secondo un chiaro ordine prestabilito ubbidendo ai canoni delle più autorevoli poetiche medievali. Illustrano cioè un ideale itinerario morale, che dalla riprensione aspra e amara dei vizi dei grandi nella prima giornata, attraverso la raffigurazione delle prove che gli uomini danno nella lotta quotidiana fra loro stessi e con le più grandi forze dominatrici del mondo, la Fortuna e 1 re e l'Ingegno, ha il suo epilogo nell'elogio della magnanimità e della virtú nella decima giornata. Ma per visualizzare in grandiosi cicli di affreschi queste verità prammatiche nella visione medievale della vita, il Boccaccio doveva necessariamente arricchire le sue rappresentazioni di riferimenti storici, che creassero in certo senso un rapporto con la vita, saldo e non elusibile. Era necessario un linguaggio che dando rilievo a un nome, a un luogo, a un fatto ben noti e carichi di tutta una suggestione sentimentale, approfondisse in maniera immediata ed eccezionale i sensi di quelle rappresentazioni. Occorrevano cioè dei termini, o meglio, in questo libro più di uomini che di paesaggi, delle figure eminentemente allusive che potessero - un po' come gli eroi delle rapsodie greche o, dell'epopea medievale - far gravitare e ordinare attorno a loro rappresentazioni, fatti, detti particolarmente significanti: proprio come Dante, per conferire alla sua mirabile visione forza di ammonizione profetica, aveva evocato soprattutto persone di «fama note».

L'impegno del Boccaccio nel creare un linguaggio storicamente allusivo si rivela cosí non solo decisivo per l'architettura ideale ed esemplare del suo capolavoro, ma centrale alle possibilità stesse della sua fantasia narrativa. I riferimenti a persone reali e di «fama note», a fatti o dati o ambienti sicuramente identificabili o almeno del tutto verisimili, non si allineano cioè nel suo rappresentare come elementi qualsiasi accanto ad altri elementi, si pongono come motivi costituzionali, come costanti, o meglio, condizioni, del suo narrare; non sono episodici, particolari a questo o a quel momento, ma determinano e in certo senso condizionano le possibilità che al rappresentare e al narrare offrì, nuovissime, la fantasia del Boccaccio.

Lungo tutta la tradizione letteraria dell'antichità e del medioevo d'Oriente come d'Occidente - le rappresentazioni della vita umana si componevano in forme pure, in stilizzate simbologie oppure si ordinavano nei diversi tipi di cronaca o di leggenda, come sequenze di avvenimenti disposti paratatticamente su di un solo piano. Erano le due direzioni in cui si svolgevano le esperienze narrative, i due poli estremi di attrazione e di opposizione: tra il simbolo e l'evento non v'era incontro o sintesi possibile. Questa dualità, o meglio questa dicotomia, costituiva del resto ancora uno dei più costanti limiti del linguaggio fantastico delle opere giovanili del Boccaccio: oscillavano tra faticose costruzioni su simboli e allegorie troppo macchinose (Filocolo, Ameto, Amorosa visione) e la rappresentazione monocorde di realtà umane (Caccia, Filostrato, Teseida). Ma già nella Frammetta e nel Ninfale il processo di superamento di questa «impasse» si delineava chiaramente. E nel Decameron la fantasia narrativa del Boccaccio trova finalmente il ritmo che rende possibile la sintesi rappresentativa delle due forme, mediandole proprio attraverso un linguaggio storicamente allusivo. Simbolo e cronaca, esempio e leggenda possono cosí finalmente incontrarsi, comporre e illuminare le loro dimensioni diverse, prima contrastanti o meglio l'un l'altra estranee, in questa nuova dimensione figurativa: una dimensione in cui le rappresentazioni senza perder nulla del loro valore esemplare ed eterno, fuori dei tempo e dello spazio, sono invece potentemente calate e identificate proprio nel tempo e nello spazio. La cronaca, di episodi come di sentimenti, è cosí commisurata al soggetto e alle forme; gli eventi e la simbologia si storicizzano insieme, si incontrano in un punto di convergenza che li rinnova e li rende, artisticamente e intellettualmente, evidenti.

È questa la risolutiva scoperta del Boccaccio, quella che gli permette di creare nel suo Decameron la grandiosa « summa » della narrativa nel Medioevo, e insieme di aprire le vie al nuovissimo rappresentare dell'età seguente, in cui quel contrasto tra simboli ed episodi è non solo superato ma per sempre obliato.

Quell'architettura ideale del Decameron poggiata sulle idee-forza della visione medievale della vita, quella esigenza di rappresentare queste forze operanti soprattutto in figure « di fama note » (cioè immediatamente identificabili Sial lettore), quell'apertura della novellistica alla vita municipa e contemporanea, quell'alta lucidissima esemplarità in cui so o composti e rinnovati temi e trame tradizionali, quelle ricchissime possibilità scoperte nel linguaggio storicamente allusivo, tutti questi elementi trovano proprio il loro senso figurativo ed espressivo in questa nuova dimensione.

Il nuovo linguaggio fa la sua prova più rischiosa e in certo modo estrema nelle novelle in cui i sensi storicamente allusivi sono ridotti a una esilissima filigrana, studiosamente celata nell'avventuroso fluire di eventi affidati all'immaginazione pura. L'allusione storica rinuncia allora alle sue funzioni più determinabili, per mirare a sensi più sottili e più sorprendenti: quasi un gioco allucinante di ombre e di bagliori fra due piani diversi, quasi una sospensione fra realtà e sogno miracolosa ed enigmatica insieme, che dà al narrare nuova profondità di rappresentazione.

Basterebbe ríandare con la memoria a quell'atmosfera losca della Napoli più picaresca, che avvolge e scande insieme l'incalzante e sorprendente ritmo delle incredibili avventure di Andreuccio da Perugia (II 5 ). Nel fiammeggiare improvviso degli episodi più strani (che dal paradiso d'amore precipitano Andreuccio in un abisso maleodorante per trarlo su alla voce di un terribile Mangiafuoco e riprecipitarlo in un pozzo e farlo affiorare subitamente come un'apparizione demoniaca, e poi sprofondarlo .ancora dentro una tomba in un macabro abbraccio per farlo ancora una volta scattar su improvviso come uno spettro beffardo), in questa fantasmagoria di impensate sorprese, si profilano irreali per la loro stessa realtà, quasi favolosi grotteschi, i contorni di cose e persone ben solidamente identificabili. Quella notte favolosamente grave e spessa in cui le sorprese più incredibili acquistano una loro precisa consistenza, flotta e ristagna proprio tra gli agguati degli angiporti e dei chiassi in cui il Boccaccio aveva consumato la sua adolescenza di apprendista mercante; quella scaltra cortigiana siciliana sembra avere il profilo della «Flora sicula» che era «pensionaria» proprio al Malpertugio nel 1340-41; quella figura orchesca di mafioso trova il suo nome immaginosamente eroicomico, scarabone Buttafuoco, appuntato accuratamente proprio nei registri angioini del maggio 1336; quel cadavere imbalsamato che diviene a un tratto il «deus ex machina» di tutta la novella, mostra ancor oggi, nel Duomo di Napoli, il suo dito spogliato dell'anello prezioso. Il gioco di fantasia si è fatto qui più serrato: il linguaggio allusivo sospende tutte le rappresentazioni in una atmosfera di allucinante lucidezza e le fa rimbalzare continuamente tra realtà e immaginazione, in un avventuroso rifrangersi di luci e di sfaccettature sempre più sfuggenti. Il rappresentare più immaginoso diviene, nel gioco avventuroso e avventurato, più reale del reale.

E inversamente è l'insistenza su un riferimento, o meglio su una precisa allusione, che può illuminare un gesto, un'azione, una figura in senso altamente reale ed esemplare. La citazione precisa all'inizio della novella (V 9) di un cittadino d'onestà antica e proverbiale, Coppo di Borghese Domeniche, quale fonte dell'episodio; il nome degli Alberighi ripercosso dagli echi nostalgici del rammemorar di Cacciaguida

                      lo vidi li Ughi, e vidi i Catellini, 
                            Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, 
                            già nel calare, illustri cittadini


impreziosiscono subito di una patina d'oro antico la elegia pacata e cavalleresca di Federico degli Alberighi, chiuso nella virile malinconia del suo soffrire: danno al racconto il ritmo e il sapore di una candida leggenda primitiva. E allora la rinunzia di Federico spoglia di ogni gesto spettacolare, e quella sua prontezza non ragionata nel sacrificare all'amata, pur sempre ritrosa, anche l'ultimo ricordo della sua vita gentilesca, il suo amato falcone, possono comporsi in una ricchezza di sensi umani che per essere piana e disadorna è forse più grandiosa é certo più intima di quella raffigurata nei grandi affreschi delle generosità di principi e di re. Il gesto di Federico assume chiaramente un'esemplarità solenne, non il senso del duello eroico d'un paladino per la sua dama: e il cavaliere delle ardue rinunzie interiori, delle lotte silenziose, il cavaliere di un'umanità spiritualmente gentile, si pone accanto ai cavalieri della spada e della cortesia guerresca con una dignità esemplare simile ma più intima e più persuasiva.

Nella nuova dimensione figurativa il Boccaccio ha cosi fatto convergere non solo due tradizioni, o meglio due prospettive narrative, per troppo tempo separate e disgiunte, ma ha stabilito anche l'ideale punto di incontro e di conciliazione fantastica di due società: quella feudale irta di ferro e d'oro, solenne nei suoi atteggiamenti nobilmente statuari, e quella della più splendida età comunale, tutta sapienza e cortesia umana nella usurata eleganza dei gesti e delle parole. Proprio perché situava concretamente nella storia i più diversi valori umani, il Boccaccio poteva istintivamente avvertire - come già abbiamo rilevato - la continuità fra quel mondo dei cavalieri della spada e questo dei cavalieri dell'ingegno e della misurata finezza d'animo. Federico degli Alberighi e Lisabetta da Messina hanno una nobiltà umana non meno elevata di quella di re Carlo il Vecchio e di Ghismonda, la principessa normanna; Gentile de' Carisendi non è meno cavalleresco di re Piero; l'Andreuola ha una fierezza aristocratica non inferiore alla Marchesana del Monferrato. Non sono, questi nuovi personaggi, incoronati e ingemmati come gli antichi; ma sono ricchi di un'umanità più profonda e più vicina alla nostra sensibilità, di una generosità più semplice ma più intima, seppure composta in un esemplare alto decoro.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it