CRITICA LETTERARIA: BOCCACCIO

 

Luigi De Bellis

 
 
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La "commedia umana" di Giovanni Boccaccio
di F. DE SANCTIS



In queste pagine il De Sanctis descrive il mondo del Decameron corne dominato dal caso e dalla natura, volto al ;usto dell'avventura e dello straordinario; in esso la nuova società borghese si rispecchia nelle sue qualità d'ingegno e di spirito d'iniziativa, ma si esprime anche attraverso la libera irrisione di ogni costrizione e di ogni stoltezza. Cosí il critico può contrapporre drammaticamente, secondo la sua concezione romantica della poesia e della storia, il Decameron come «commedia umana» alla Commedia «divina» di Dante.

Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e religioso ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male; ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona. Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri. La virtú, posta qui a fare effetto sull'immaginazione, manca di semplicità e di misura, e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso, condotta ad una esagerazione che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di sensi morale. Ma virtú eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni, e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali, una certa generosità e gentilezza di re, di principi, di marchesi, reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi. La qual virtú è in questo: che il principe usa la sua potenza a protezione dei minori, e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna, come furono Primasso e Bergamino, verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala. Cosí è molto commendato il primo Carlo d'Angiò, il quale, potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle figliuole di un ghibellino, amò meglio dotarle magnificamente e maritarle. La virtú in questi potenti signori è di non fare malvagio uso della loro forza, anzi di mostrarsi liberali e cortesi. Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di letterati, che viveva alle spese di questa virtù, celebrando con giusto cambio una magnificenza della quale assaporavano gli avanzi. L'anima altera di Dante mal vi si piegava, né gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale. Ma i tempi non erano più all'eroica; e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati, e il Boccaccio viveva de' rilievi della corte di Napoli, comicamente imbestiato quando il mantenimento non era dicevole a un par suo, disposto da' buoni o da' cattivi cibi al penegirico o alla satira. Tale è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole è chiamato «la virtú»: una liberalità e gentilezza d'animo, che dalle castella penetra nelle città e fino ne' boschi, asilo de' masnadieri, della quale sono esempio Natan, e il Saladino, e Alfonso, e Ghino di Tacco, e il negromante di Ansaldo. Questo, se non è propriamente senso morale, è pur senso di gentilezza, che raddolcisce i costumi e spoglia la virtú del suo carattere teologico e mistico, posto nell'astinenza e nella sofferenza, le dà aspetto piacevole, più conforme ad una società colta e allegra. Vero è che, siccome il caso, regolatore di questo mondo, ne fa di ogni maniera, talora l'allegria che vi domina è funestata da tristi accidenti che turbano il bel sereno. Ma è una nuvola improvvisa, la quale presto si scioglie e rende più cara la vista del sole,, o, come dice la Fiammetta, è una « fiera materia, data a temperare alquanto la letizia ». Volendo guardare più profondamente in questo fenomeno, osserviamo che la gioia ha poche corde, e sarebbe cosa monotona, noiosa, e perciò poco gioiosa, come avviene spesso ne' poemi idillici, se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e più ricche d'armonia, traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni: l'amore, la gelosia, l'odio, lo sdegno, l'indignazione. Il dolore ci sta qui non per sé, ma come istrumento della gioia, stuzzicando l'anima, tenendola in sospensione e in agitazione, insino a che per benignità della fortuna o del caso comparisce d'improvviso il sereno. E quando pure il fatto sorta trista fine, com'è in tutti i racconti della giornata quarta, l'emozione è superficiale ed esterna, esalata e raddolcita in descrizioni, discorsi e riflessioni, e non condotta mai sino allo strazio, com'è nel fiero dolore di Dante. Sono fugaci apparizioni tragiche in questo mondo della natura e dell'amore, provocate appunto dalla collisione, della natura e dell'amore, non con un principio elevato di moralità, ma con la virtù cavalleresca, «il punto d'onore».

La base della tragedia è mutata. Non è più il terrore che invade gli spettatori incontro a un fato incomprensibile, che si manifesta nella catastrofe, come nei greci; e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia superiore, come nell'inferno dantesco: ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e cieche, nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore, incontro a cui tutti hanno torto. Per dirla con un solo vocabolo comprensivo, virtú e vizi qui non hanno altro significato che di «avventure», ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio del caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e dei loro piacere è mezzana la stessa virtú e lo stesso dolore.

Un mondo, il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura, non è solo spensierato e allegro, ma è anche comico. Già quel non prendere in nessuna serietà gli avvenimenti e farne un gioco di pura immaginazione, quell'intreccio capriccioso de' casi, quell'equilibrio interno che si mantiene sereno tra le più crudeli vicissitudini, sono il terreno naturale su cui germina il comico. Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa insipida: è appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti. Perché il riso abbia malizia o intelligenza, dee avere una intenzione e un significato, dee essere comico. E il comico dà a questo mondo la sua fisionomia e la sua serietà.

Questa società è essa medesima una materia comica, perché niente è più comico che una società spensierata e sensuale. Ma è una società che rappresentava a quel tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo, e ne aveva coscienza. Una società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter ridere essa di tutto il mondo. In effetti due cose serie sono in queste novelle: l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da' più potenti signori, e una certa alterezza borghese che prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti. Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio, istruita, intelligente, che teneva sé civile e tutto l'altro barbarie. E il comico qui nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale. La società colta aveva innanzi a sé i frati ed i preti, o, come dice il Boccaccio, le cose cattoliche, orazioni, confessioni, prediche, digiuni, mortificazioni della carne, visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità. Sopra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la sferza.

Materia del comico è dunque l'efficacia delle orazioni, come il «paternostro» di San Giuliano, il modo di servire Dio nel deserto, la vita pratica de' frati, de' preti e delle monache in contraddizione con le loro prediche, l'arte della santificazione insegnata a fra Puccio, i miracoli e le apparizioni de' santi, come l'apparizione dell'angelo Gabriello, e la semplicità della plebe, trastullo dei furbi. Visibile soprattutto è la reazione della carne contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de' romanzi e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso. È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo. La carne scomunicata si vendica e chiama « meccanici » i suoi maldicenti, cioè gente che giudica grossamente secondo l'opinione volgare. Cosí il mondo dello spirito in quelle sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare. È immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga comprensione si sfoghi, con che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti, scegliendo i modi e le frasi più scomunicate, e talora volgendo a senso osceno frasi e immagini sacre. È il mondo profano in aperta ribellione, che ha rotto il freno e fa la caricatura al padrone cadutogli di sella. Su questo fondo comico s'intreccia una grande varietà di accidenti, di cui sono gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le commedie, chi burla e chi si fa burlare, i furbi e i gonzi, e di questi i più martoriati e i più innocenti, i mariti. E fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici, de' quali alcuni sono rimasti veri tipi, come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri seri sono piuttosto singolarità che tipi, individui perduti nella minutezza ed eccezionalità della loro natura, come Griselda, Tito, il conte di Anguersa, madonna Beritola, Ginevra e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di questo mondo, e riflettono in sé fisonomie universali che incontrate nell'uso comune nella vita, come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate Montone e il giudice Squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi, e tutte le varietà, perché « infinita è la turba degli stolti ». Cosí questo mondo spensierato e gioviale si disegna, prende contorni, acquista una fisonomia, diviene la «commedia umana».

Ecco, a cosí breve distanza, la commedia e l'anticommedia, la «divina commedia», e la sua parodia, la «commedia umana»! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo Passavanti, Cavalca, Caterina da Siena; voci dell'altro mondo, soverchíate dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio. La « gaia scienza » esce dal suo sepolcro col suo riso incontaminato; i trovatori e i novellatori, spenti da' ferri sacerdotali tornano a vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo, proscritti, proscrivono alla lor volta e rimangono padroni assoluti della letteratura. Certo, questo mutamento non viene improvviso, come appare un moto di terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si continua con tradizione non interrotta, come s'è visto, insino a che nella Divina commedia prende arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di diritto divino, e Dante, laico, assume tono di sacerdote e di apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria, che tutto l'edificio stia in piedi e la base rimanga salda. La sua « commedia » è una riforma; la « commedia » del Boccaccio è una rivoluzione, dove tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it