IL PROGRAMMA DEL
"CAFFE'"
di
SERGIO ROMAGNOLI
Fin dal titolo, che si richiama a un luogo tipico di incontri e di discussioni della vita settecentesca, quale fu la «bottega del caffè», il «Caffè» rivela uno dei caratteri fondamentali del suo programma: l'intenzione di parlare con prontezza e con vivacità dei temi più attuali, dei problemi più vivi della società contemporanea, delle novità più significative della politica, della scienza, della tecnica. Ciò che impegna profondamente Pietro Verri e gli altri compilatori del «Caffè» è il raggiungimento di uno scopo morale e sociale insieme: l'utilità dei lettori, che consiste nell'informazione intorno alle nuove idee elaborate in Inghilterra e in Francia, e il rinnovamento della società anche in Italia, con profonde riforme che devono trasformare radicalmente le vecchie strutture economiche e sociali dando inizio a un progresso civile stabilito sui principi della scienza e della, ragione.
Il Caffè, in effetti, nacque in un momento in cui s'avvertiva nell'Italia settentrionale la stanchezza di certe formule giornalistiche; l'aridità delle gazzette da una parte, strumenti dell'amministrazione pubblica, e l'inefficacia, dall'altra, per una larga azione culturale, quale i tempi tendevano a promuovere, del giornalismo erudito. Già il nome del periodico verriano era un indice della sua novità, se non addirittura «un facile simbolo settecentesco di modernità attiva e disinvolta nelle volute del suo profumo di moda esotica», volendo esso indicare la trattazione di cose varie, che toccassero delle scienze, delle arti, della vita sociale nei suoi aspetti morali, politici ed economici, di cose veramente disparatissime, come può succedere d'ascoltare e di discutere e di chiarire a sé e agli altri entro una bottega di caffè, per l'immediatezza con cui le questioni vengono poste, per la spregiudicatezza degli argomenti, che dovrebbero scaturire dall'osservazione della vita medesima e da una vivace reazione ai fatti, per la spontaneità con cui si possono sviluppare le discussioni, per l'assenza necessaria d'ogni paludamento erudito: «una bottega di caffè è una vera enciclopedia all'occasione, tanto è universalissima la serie delle cose sulle quali accade di ragionare», verrà fatto dire a Demetrio alla fine del primo tomo. Questo salotto moderno, questo nuovo foro della vita civile, gradevole e libero luogo d'incontro della più varia gente, - lodato già nei fogli inglesi e soprattutto nello Spectator di Joseph Addíson, che il Verri ricorda come progenitore del Caffè insieme ad altri simili fogli, e ad altre simili iniziative di diffusione culturale, dello Swift, dello Steele, del Pope, intuito come istituzione di blando e cordiale rinnovamento anche dal Goldoni proprio perché vi si offre in libera comunione una bevanda universale accetta sia al gentiluomo don Marzio sia a gente «che si alza di buon mattino», lodato con tenue ironia da Gasparo Gozzí, che amava rappresentarsi «rincantucciato in una bottega da caffè», interpretata come «liberale abitazione per dimenticarsi le percosse della fortuna, fuggire la malinconia, e addottrinarsi in molte cose che non si apprendono ad altre scuole, o s'imparano con soverchia lentezza», sta, dunque, qui, con la funzione di leggera cornice a racchiudere articoli freschi d'ingegno e d'inchiostro, e tutti diretti alla pubblica utilità, cioè diretti a migliorare la generazione presente per consentirle, come dirà Pietro Verri, di partecipare attivamente al progresso dei tempi e ai nuovi compiti civili di tutta l'Europa, al fine di trarre l'Italia dalla decadenza in cui la vedeva giacere.
Pietro Verri rimase fedele a questo modo di presentazione più di quanto non si avverta ad una prima lettura; si rifletta, infatti, a quanto spesso gli articoli siano introdotti dal gorgoglio delle cuccume bollenti e dall'acciottolio delle tazze da caffè, e come egli finga alcuni suoi scritti in forma dialogica con il caffettiere Demetrio, nel quale, del resto, s'avverte quasi lo sdoppiamento della personalità dello scrittore, quasi il personaggio assuma l'aspetto di specchio della coscienza obiettivata del Verri, ne sia l'alter ego, oltre che l'ideale di una popolana dignità di costumi e di educazione civile. Del resto anche Gian Rinaldo Carli, formatosi negli studi classici e devoto della bella tradizione letteraria, evidentemente attratto dalla suggestione artistica di tale finzione e dall'invito umanistico del dialogo, porrà, nel suo unico articolo, i suoi pensieri intorno alla Patria degli Italiani, sulle labbra di un cliente forestiero entrato per caso nella bottega milanese di Demetrio. Ma questa bottega non è solo artificio per introdurre più familiarmente il lettore nella trattazione dei vari argomenti; essa svolge ancora, se volessimo addentrarci nel difficile esame dei sostrati umorali degli autori, determinati tanto spesso dall'ambiente sociale e culturale in cui operavano, una funzione che potrebbe corrispondere, di volta in volta, alle situazioni di isolamento o di apertura rispetto al pubblico, che si verificarono lungo tutto l'arco di vita del Caffè: dal giugno 1764 a tutto il maggio 1765 e dal giugno 1765 «per un anno seguente», cioè a tutto il maggio 1766, con una somma totale di settantaquattro numeri, trentasei, nel primo, trentotto nel secondo Tomo.
È una cornice leggera, dicevamo, che riappare di quando in quando per sparire di nuovo nei momenti in cui risulterebbe soltanto un espediente letterario, cioè nei momenti in cui l'urgenza della battaglia ideologica si fa più pressante, giacché tale cornice pareva esser nata con il fine cordiale di presentare « in tal guisa i soggetti, e gli stili che potessero esser letti e dal grave magistrato, e dalla vivace donzella, e dagl'intelletti incalliti e prevenuti, e dalle menti tenere e nuove ». Se dobbiamo credere che questa cornice sia stata regolata sempre da Pietro Verri, dobbiamo riconoscere che egli la regolò con misura, saggiamente proporzionata alla propria ed altrui debolezza artistica a reggere una più grande e ornata finzione letteraria. D'altronde nel Caffè l'intenzione di un «bello stile», sia pur nuovo e inconsueto, («siamo pur sempre in mezzo a dei letterati. Ribelli si, amanti del concreto e della statistica, precursori della più ambrosiana praticità, ma letterati che amano un'aria di gusto intorno ai loro articoli e che perfino al loro linguaggio efficace (cose e non parole) adibiscono inflessioni poetiche proprio nella sua rapidità spregiudicata», che si affaccia nelle prime pagine, mostra presto cavilli e crepe.
Alla fine del primo anno un avviso Al lettore, dinanzi al tomo che riuniva i fogli, proseguiva l'enunciazione del programma. È prosa di Pietro Verri, non priva di quella segreta baldanza che le donava la sicurezza di un bilancio positivo. Si nota il vanto che il lavoro fosse stato intrapreso da una piccola società di amici per il piacere di scrivere, per l'amore della lode e soprattutto per la confessata ambizione di promuovere e di spingere sempre più gli uomini italiani «allo spirito della lettura, alla stima delle scienze, e delle belle arti, e ciò che è più importante, all'amore delle virtú, dell'onestà, dell'adempimento de' propri doveri». Come si vede, un intento morale soprintendeva saldamente all'entusiasmo degli scrittori, un entusiasmo lievitato dall'amor proprio, ,ma da un amor proprio utile al pubblico.
Tuttavia, di fronte a questo consuntivo, che annunziava al contempo la prosecuzione dell'impresa, si levavano le ombre delle diffidenze e dei pericoli fra i quali era stato attuato sino a quel momento il programma e che si prospettavano forse maggiori per il futuro. L'ostilità della società milanese che il Verri aveva avvertito intorno a sé e di cui aveva informato il Carli nel 1762, era, se mai, cresciuta, non diminuita di fronte alle più autorevoli espressioni di indipendenza e di spregiudicatezza dei giovani accademici dei Pugni. Il Verri, infatti, continuava dichiarando che « una onesta libertà degna di cittadini italiani ha retta la penna. Una profonda sommissione alle divine leggi ha fatto serbare un perfetto silenzio su i soggetti sacri, e non si è mai dimenticato il rispetto che merita ogni principe, ogni governo, ed ogni nazione ». Non è la sola dichiarazione d'omaggio alle autorità costituite che incontreremo nel Caffè, necessaria a sollevare gli autori dall'accusa, sempre pronta nella società contemporanea, di ribelli di fronte ai poteri laici e religiosi. Parole tutte, queste dell'avviso Al lettore, che ci conducono a intendere come per la «dolce compagnia di buoni amici» la battaglia che veniva svolgendo sui fogli del Caffè non coincideva necessariamente con l'eversione dei grandi istituti religiosi o civili, con la negazione delle strutture fondamentali della società organizzata contemporanea, ma come per essa la battaglia delle idee avesse ancora tante trincee colme di neghittosità, d'inerzia civile, morale e culturale, da espugnare, e avrebbe dovuto agire nel tessuto compatto dell'umanità - assonnata vittima dell'ignoranza, del pregiudizio, dell'intolleranza, dell'accidia nella sua vita giornaliera - prima di giungere a scalzare altari e troni; compito non necessario, se si fosse potuto attuare la rinnovazione civile nella continuità storica delle istituzioni.
Per gli uomini del Caffè la battaglia - ché di battaglia si trattò - si restringeva, o meglio si concretava - con consapevolezza della novità del proprio compito, e con un sofferente senso dell'imminenza delle sciagure, se non fosse giunto presto il soccorso - nella necessità di risvegliare il torpido corpo della società italiana, prima che fosse tardi, per congiungerlo a quel progresso culturale, scientifico, produttivo, mercantile, più vastamente civile quindi, che si verificava nei . grandi paesi europei. Ogni forma di cultura che rallentasse o addirittura inceppasse la loro impresa, era perciò considerata come impedimento al- risorgimento generale che era nei loro voti. Le vecchie accademie, che sopravvivevano a se stesse o che tentavano di ,riprendere nuova lena senza mutare i loro principi, e che apparivano a quegli. inquieti giovani quali baluardi di una tradizione letteraria e linguistica sentita come fedeltà del tutto formale all'antica civiltà letteraria italiana; le vecchie strutture scolastiche insufficienti e aride, adatte ad una società costruita su chiusi privilegi, non scuole, cioè, adatte a promuovere lo sviluppo di ingegni pronti, ma adatte a creare una media e convenzionale cultura di casta, e sorde di fronte alla necessità impellente di addestrare con nuove tecniche le classi artigianali e impiegatizie, rappresentavano, quindi, un aspetto non trascurabile di quel vecchio mondo che il piccolo gruppo di amici si era impegnato ad avversare. Anche l'Accademia dei Trasformati, nella quale avevano pur recitato e dissertato Pietro Verri e Cesare Beccaria prima di staccarsene definitivamente nel 1761; anche, cioè, quell'Accademia che, accogliendo e onorando Giuseppe Parini, e dedicando molte tornate ad argomenti di viva contemporaneità, aveva mostrato di non dover essere confusa con altre consimili istituzioni - divenute per davvero, alla metà del secolo, rifugio di divertimenti in rima o di inutili esibizioni d'eruditi - era considerata estranea e perciò nemica di quel moto di rinnovamento auspicato e condotto dai giovani filosofi milanesi. D'altronde essi non si sentivano soli; a confortarli nella loro impresa vi erano le testimonianze di tutta l'Europa civile, il perfezionamento delle scienze dopo le grandi scoperte del secolo XVII, le applicazioni di esse alla tecnica del lavoro, gli studi e le discussioni intorno all'economia pubblica tanto fiorenti in Inghilterra e in Francia, che si tramutavano anche in Italia in trattati di tecnica finanziaria, in esami di bilance commerciali, in libelli auspicanti la liberalizzazíone degli scambi per sviluppare sempre più i commerci europei, per favorire l'agricoltura e le nuove colture necessarie all'incremento demografico e alla sempre più complessa ed esigente società. I rinnovatori delle teorie economiche volgevano la loro attenzione alla ricchezza industriale, attirati anche dalla possibilità di dare applicazione, appunto, per il pubblico bene, agli ultimi risultati delle scienze moderne, dalla meccanica alla chimica alla elettrologia.
Le cognizioni poi della fisica grandissima influenza hanno a perfezionare tutte le manifatture e i comodi della vita; di più, rendono, per cosí dire, più
delicato e fino il gusto in ogni cosa. L'arte de' tintori deve tutt'i suoi
avanzamenti alla fisica; la farmaceutica, tanto interessante il nostro ben essere, dalla medesima pure riceve lume; in somma lo spirito della buona fisica si adatta a tutte le cose, che servono all'uso dell'uomo, ed ivi sono sempre più eleganti e più comode, dove quella scienza abbia fatti progressi.
La scienza, ancora alla metà del Settecento, serbava per i suoi ammiratori una veste domestica, e appariva al contempo come una sorprendente avventura dell'intelletto, alla quale accostarsi quasi godendone come d'un fatto d'arte. Il fervore, che i giovani milanesi avvertivano nell'Europa oltremontana, s'era manifestato con tanta autorità, e si manifestava tuttavia, attraverso la voce dei filosofi che avevano gettato le basi dei nuovi metodi scientifici e delle nuove esigenze politiche, che da quel pensiero e da quella scienza ci si attendeva lo sviluppo di una società organizzata dalla ragione umana, volta tutta alla felicità delle
nazioni. |