Vanità, una delle più tarde liriche dal fronte. Vanità è giudicata da Pasolini il «capolavoro» delle «composizioni rarefatte» ungarettiane. In essa «meglio si configura l'ineffabilità ungarettiana, la parola in trasparenza, il sintagma volatilizzato in nuclei semantici senza peso», e in essa «si riscontra quella situazione di abbandono, di confidenza, di allegria, molto giovanili, che sono il sottofondo fisico più ancora che psicologico del primo libro ungarettiano» (Pasolini usa qui il termine "allegria" secondo l'interpretazione di Contini, che egli stesso descrive: allegria «come momento attivo dell'atto liberatorio della poesia, come passaggio dal piano della vicissitudine umana al piano linguistico»). Si tratta, comunque, dell'illuminazione improvvisa di una dimensione di limpidezza, di infinito (e di eterno?) che pare radicalmente negata dalla provvisorietà torbida e finita del presente. II poeta coglie questa intuizione nel rischiararsi improvviso d'uno specchio d'acqua colpito dal sole (o dalla stessa limpida trasparenza dell'acqua). Rinvenirsi «ombra» può - come si è osservato in nota - mantenere implicazioni negative (del resto presenti irrimediabilmente nel titolo), in parte risolte però nel moto lieve dell'acqua che culla appunto l'ombra del poeta e forse la sua illusoria intuizione.
Con il Gioanola si deve ricordare che «una delle opposizioni immaginative fondamentali della poesia ungarettiana è quella tra "deserto", con le connotazioni dell'aridità e sete e abbandono ed esposizione alla morte, e "acqua", con le connotazioni contrarie della protezione, del conforto, del rifugio».
Il critico compie quest'osservazione a proposito della lirica I fiumi, ma è chiaro che essa può applicarsi anche al finale di Vanità. Notevole la genesi "africana" di questa opposizione deserto/acqua, che talora complica le stesse rievocazioni della passata solarità..
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