Già
nella prima edizione, era seguito da cinque racconti: Rumori, Una serata
indimenticabile, Pipe e bastoni, La vecchia stampa, Il bacio. Fu ripubblicato da
Bompiani (Milano 1942), con l'aggiunta di I due mondani e Nemici, e ancora dallo
stesso editore, nel 1952, con sei disegni fuori testo di Amerigo Bartoli.
«Giovanni Percolla aveva quarant'anni, e viveva da dieci anni in compagnia di
tre sorelle, [...] la vita di quest'uomo era dominata dal pensiero della
donna!». Così nel primo dei quattordici capitoli del romanzo viene presentato il
protagonista. La vicenda inizia nel 1939 a Catania, una città dove «i discorsi
sulle donne davano un maggior piacere che le donne stesse»; conseguentemente
Giovanni fino «a trentasei anni, non aveva baciato una signorina perbene».
Nell'adolescenza aveva trascorso le sere acquattato, con gli amici Ciccio
Muscarà e Saretto Scannapieco, «nel buio di certe straducole» a spiare l'aprirsi
di porte compiacenti su clienti frettolosi; poi, dopo un primo rapporto «rapido,
insipido e confuso» con un donnone che se l'era tirato in casa, la sua vita si
riempì «di cameriere d'albergo e di donne facili». La Donna esercitava su di lui
un dominio incontrastato negli spazi della mente e prendeva corpo
nell'interminabile affabulare con gli amici. L'esigenza di esplorare altrove
l'universo femminile lo aveva spinto nel 27 a Roma, con gli inseparabili Muscarà
e Scannapieco; il soggiorno si era risolto in un agitarsi frenetico da un capo
all'altro della capitale dietro una donna che sembrava avesse posato su di loro
lo sguardo, ma, quando essa si era dileguata, i tre catanesi «si sentivano
traditi e abbandonati. Un che di vedovile era sempre nel loro cuore, per le vie
di Roma». Richiamati perentoriamente a Catania dai parenti, i tre amici
progettano mete più lontane e promettenti. Viareggio, Riccione, Cortina,
Trieste, Abbazia, Cavalese li attraevano per inseguire, su labili notizie,
formidabili occasioni di cui avrebbero parlato a lungo al ritorno.
Giovanni Percolla aveva anche un'occupazione nel negozio di tessuti di uno zio,
ma il suo lavoro si riduceva « ad aiutare con gli occhi quello che facevano lo
zio e i cugini»; in realtà trascorreva molte ore in casa accudito dalle sorelle
premurose e devote, si levava tardi e si godeva lunghe sieste. In tanto
benessere il pensiero del matrimonio lo inorridiva. Improvvisamente Giovanni
cambia abitudini, chiede di fare il bagno due volte la settimana, comincia a
mangiar meno, a ridurre le ore della siesta e, fra la costernazione delle
sorelle, anche a cantare. È successo che «la signorina Maria Antonietta, dei
marchesi di Marconella, lo aveva guardato». Verificata con gli amici la indubbia
direzione dello sguardo (in siciliano taliata) di Ninetta verso di lui, inizia
per Giovanni l'estasi dell'amore. Lascia la casa delle sorelle che sa di vecchio
e si trasferisce in un villino fuori città e assume un cameriere. Anche le sue
frequentazioni mutano; ripudia, perché volgari, gli amici e si accosta alla
pallida e sospirosa genia degli innamorati catanesi, delicati cultori di
passioni antiche e inespresse. La sensibilità di Giovanni si raffina al punto
che per uno sguardo di Ninetta «era preso dal sentimento dell'universale». Le
occasioni concrete di incontrarla gliele procurano tuttavia i vecchi amici, ma
nel suo imbambolamento non sa sfruttarle per dichiararsi. Sarà Ninetta, nel
Parco dei Divertimenti, a prendergli la mano: un evento «smisurato» di cui
Giovanni non è ben sicuro.
Seguono il fidanzamento e le nozze celebrate in una giornata di forte scirocco
che acceca quasi il paggetto. Il rito si svolge con altri contrattempi: il
pianto convulso di un'invitata, «una quarantenne dì mezza taglia con l'occhio
destro bianco» segretamente innamorata di Giovanni e disperata di perderlo; la
predica dell'officiante che si rivolge allo sposo con tono collerico e
minaccioso chiamandolo inspiegabilmente «professore»; le insinuazioni di voci
sconosciute sulle sue risorse amatorie («questo qui, compare, non ce la fa!»).
Il viaggio di nozze, dopo il soggiorno canonico a Taormina, ripercorre le tappe,
ben note al protagonista, dell'itinerario galante degli scapoli catanesi, da
Viareggio ad Abbazia. Nelle varie località, diffidando dei conterranei, Giovanni
chiede alla moglie di non concedere balli ai siciliani; le consente però di
ballare con un giovane continentale dall'aria rassicurante, che invece cercherà
di baciare Ninetta. Gli sposi si stabiliscono a Milano, dove Giovanni si impiega
presso una ditta di tessuti. Milano rappresenta una svolta per Giovanni Percolla
che, a furia di docce fredde, vince il ribrezzo per il clima settentrionale e si
converte alla vita attiva. Sradicato dalle sue abitudini, si concede «pochi
minuti di riposo durante il giorno, e poche ore durante la notte». Ne esce
rigenerato, ma smagrito, «con gli occhi lucidi e a fior di testa». Nei salotti
milanesi, per la nomea di gallo siciliano, è cautamente corteggiato dalle
signore che egli asseconda con parsimonia, sentendosi apostrofare qualche volta
con sprezzo e delusione: «Che siciliano siete?». La relazione con una
diciottenne scontrosa e irritabile lo strema. Ma sono avventure senza gusto,
vissute e non pensate. Intanto Ninetta è rimasta incinta. La felicità di
divenire padre lo salva dalla gelosia che nell'ambiente milanese così disinvolto
provava per la moglie, specialmente nei confronti degli uomini brutti, perché
secondo un assioma dell'amico Scannapieco: «La donna bella cerca l'uomo brutto,
per regalargli un po' della sua bellezza!». Recuperato il marito alla vita
attiva, Ninetta esprime il desiderio di fare un viaggio in Sicilia per mostrare
ai parenti il prodigioso cambiamento. I due sposi tornano a Catania, ma le
sorelle rivedendo Giovanni scoppiano in lacrime trovandolo «assai malandato».
Dopo un lauto pasto come ai vecchi tempi, Giovanni vuole riprovare il gusto del
riposo pomeridiano nella stanza da scapolo. Appena sotto le coperte, insorge
l'antica sua natura: «Tutto il corpo gli s'intiepidì, e fin dai calcagni, che a
Milano s'era trascinato dietro come pezzi di ghiaccio, gli salì alla testa
un'onda di sangue calda e mormorante. Rivide le signore lombarde; ma al paragone
di come le aveva viste, sembrava che proprio allora fossero ricordi dilavati e
ora invece erano donne vere. E che donne! [...] Il bisogno di raccontare gli
formicolò nella lingua: desiderava che Muscarà e Scannapieco gli sedessero, come
ai bei tempi, vicino al capezzale». Per godersi il se stesso ritrovato, Giovanni
durante il soggiorno a Catania rimarrà a dormire nella sua casa, senza la
moglie.
Don Giovanni in Sicilia, alla sua uscita, venne riconosciuto dalla critica come
l'epos grottesco del gallismo siciliano, una condizione mentale che Leonardo
Sciascia circoscrive in «un vedersi e sentirsi vivere erotico», legato al «senso
penoso acre e "inadatto" dell'adolescenza: qualcosa di acerbo, di immaturo, di
impedito». Per Nino Borsellino il romanzo rappresenta il compiuto approdo di
Brancati al comico: «La materia comica non era ancora lievitata in una
equilibrata commistione di personaggio e situazione. Il impasto prende
consistenza di farsa erotica, di ineludibile tipicità catanese».
Nel 1917 Alberto Lattuada trasse dal romanzo il film omonimo con Lando Buzzanca
(Giovanni Percolla), Katia Moguy (Ninetta Marconella), Ewa Aulin (Wanda),
Ludovico Toeplitz (Vittorio Valsecchi), Pino Ferrara (Muscarà), Carletto Sposito
(Scannapieco), Katia Christine (Francoise).
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