Le prime cento copie dell'opera uscirono in un'edizione fuori commercio nel
1918. Solo nel 1926 il Contributo fu pubblicato.
Croce compose la sua autobiografia in soli tre giorni, tra il 5 e l'8 aprile
1915. Venne pubblicata ben tre anni dopo, e ciò conferma il carattere
eminentemente personale e intimo dello scritto. In quattro capitoli l'autore
ripercorre la propria attività di scrittore e di filosofo, ma nelle prime pagine
del capitolo d'esordio («Ciò che non si troverà e ciò che si troverà in queste
pagine») chiarisce che non intende tracciare né una confessione né una memoria,
bensì una «critica» del proprio lavoro: parlare di sé è parlare della propria
opera.
Nel secondo capitolo («Casi della vita e vita interiore») egli torna con la
memoria alla propria giovinezza e ricostruisce la sua produzione letteraria e
filosofica fino al 1913. Croce riconosce alla propria madre di averlo stimolato
allo studio della letteratura e della storia; d'altra parte, mancava nella sua
famiglia «qualsiasi risonanza di vita pubblica e politica». Si taceva, in
particolare, di quel Risorgimento di cui egli poco sentì parlare anche nel
collegio dei gesuiti dove entrò a nove anni.
L'autore considera evento spartiacque della propria esistenza il terremoto di
Casamicciola (1883), nel quale i genitori e la sorella persero la vita; infatti
egli, insieme con l'altro fratello superstite, fu ospitato a Roma dal cugino del
padre, Silvio Spaventa, noto uomo politico, che si assunse l'onere di fare da
tutore ai due giovani. In quegli anni cominciò a frequentare, senza entusiasmo,
la Facoltà di giurisprudenza, per poi passare a filosofia, dopo aver ascoltato
nel salotto di casa e in Facoltà le lezioni di Antonio Labriola: «L'etica
herbartiana del Labriola valse a restaurare nel mio animo la maestà dell'ideale,
del dover essere contrapposto all'essere, e misterioso in quel suo contrapporsi,
ma per ciò stesso assoluto e intransigente».
Le riflessioni di quel periodo confluirono poi nella Filosofia della pratica
(1909). Tornato a Napoli nel 1866 - ricorda ancora Croce -, accantonò gli
interessi filosofici e si dedicò a ricerche erudite, poi raccolte nel volume
sulla Rivoluzione napoletana del 1799 (1899); ma il senso di sazietà che gli
derivò da queste «estrinseche esercitazioni» lo fece tornare alle antiche
passioni e, in particolare, a quella per la natura della storia e della scienza.
Così, nel 1893, egli abbozzò La storia ridotta sotto il concetto generale
dell'arte.
Egli indica come vera svolta nei suoi interessi gli studi sul marxismo, che
conobbe grazie alla mediazione del maestro Antonio Labriola e che lo condurranno
a scrivere numerosi saggi tra il 1895 e il 1900, poi riuniti nel volume
Materialismo storico ed economia marxistica. Cominciò in quegli anni anche il
sodalizio con Gentile, che aveva recensito alcuni suoi lavori sulla storia e sul
marxismo. Nell'estate del 1899 Croce riprese i suoi interessi di estetica, ma
riuscì a portare a termine solo quella che definisce una «memoria»: le Tesi
fondamentali di un'Estetica come scienza dell'espressione e linguistica
generale. A distrarlo temporaneamente dagli studi fu uno scandalo che, nel
novembre del 1900, travolse il Comune di Napoli; il Comune fu commissariato e a
Croce fu chiesto di reggere l'amministrazione delle scuole elementari e medie.
Così, soltanto nel 1902 uscì l'Estetica come scienza dell'espressione e
linguistica generale, divisa in due parti, una dedicata alla teoria e una alla
storia. L'anno successivo vide la luce la nuova rivista, fondata da lui insieme
con Gentile, «La Critica», concepita come applicazione degli indirizzi teorici
enunciati nell'Estetica e i cui articoli erano rivolti a illustrare «la vita
intellettuale italiana dell'ultimo cinquantennio, ossia dalla formazione del
nuovo Stato italiano», Croce tenne per sé la storia della letteratura e affidò a
Gentile la storia della filosofia italiana. Egli afferma esplicitamente che il
lavoro per la rivista rappresentò il superamento della scissione, fino a quel
momento dolorosamente avvertita, tra l'uomo teorico e l'uomo pratico, nella
consapevolezza di assolvere il proprio compito di studioso e di cittadino.
Nel terzo capitolo («Svolgimento intellettuale») Croce ripercorre il proprio
itinerario intellettuale, individuando nel modello critico di De Sanctis
l'origine della sua filosofia estetica e ridimensionando, invece, l'influsso
della filosofia hegeliana sul suo pensiero che, secondo alcuni critici, gli
sarebbe derivato da Bertrando Spaventa. Sostiene, invece, di essersi avvicinato
alla filosofia hegeliana prima attraverso il marxismo e il materialismo storico,
poi, a partire dal 1905, leggendo direttamente l'opera di Hegel. Nella
composizione dell'Estetica egli superò definitivamente il naturalìsmo e l'erbartismo,
e l'analisi del giudizio artistico lo condusse a rilevare che non c'è dualismo
tra pensiero vero e pensiero falso, tra espressione bella ed espressione in
quanto tale, poiché il pensiero falso o l'espressione brutta sono semplicemente
nonessere. Se Hegel sottolinea l'importanza di un Logos che si sviluppa,
inconsapevolmente, nel mondo della natura, Croce afferma che non esiste alcun
dualismo tra Spirito e Natura, la quale è un momento della dialettica dello
Spirito. D'altra parte egli dice di aver assorbito il carattere immanentista e
concreto della filosofia hegeliana, ma, in questo, si sente anche «figlio
spirituale» di Vico. Con Gentile, infine, Croce accetta l'identificazione tra
filosofia e storia della filosofia, arrivando addirittura a teorizzare che la
filosofia è la storia tout court. Se, infatti, la verità fosse extrastorica,
nessun filosofo potrebbe pensare di attingere a essa; se invece la verità è
immanente, ogni sistema di pensiero aggiunge chiarificazione a chiarificazione
ed è soggetto esso stesso a correzioni e ampliamenti, così come l'oggetto di cui
si occupa. Perciò «la perfezione di un filosofare [...] sta nell'aver superato
la forma provvisoria dell'astratta "teoria", e nel pensare la filosofia dei
fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata».
Nell'ultimo capitolo («Sguardo intorno e innanzi a me») Croce accenna al
progetto di lavoro che ha in animo: recapitolare la propria produzione,
correggerla e ordinarla, e accingersi alla composizione di un lavoro sul XIX
secolo, «una storia che desse quasi mano alla praxis». Ma la guerra ha
rimescolato le carte e «l'animo rimane sospeso; e l'immagine di sé medesimo,
proiettata nel futuro, balena sconvolta come quella riflessa nello specchio
d'un'acqua in tempesta».
Nelle note autobiografiche del 1934 il filosofo riferisce dei suoi interessi
sempre più marcatamente storici. Ripercorre così la sua produzione dalla Storia
della storiografia italiana nel secolo decimonono (1921) fino alla Storia
d'Europa nel secolo decimonono (1932). Egli riferisce, infine, le tappe più
importanti del suo impegno politico: in particolare, il ruolo ricoperto nel
governo Giolitti del 1920 come ministro della pubblica istruzione e, durante il
Ventennio, la sua ferma critica al regime fascista attraverso il Manifesto degli
intellettuali antifascisti (1œ maggio 1925), fino al voto nel Senato contro
leggi che sopprimevano la libertà di stampa e di associazione.
Pur sottolineando l'importanza degli altri scritti autobiografici di Croce
(tutti raccolti nelle Memorie della mia vita. Appunti che soro stati adoprati e
sostituiti dal «Contributo alla critica di me stesso», a cura dell'Istituto
italiano per gli studi storici, Napoli 1966) e, in particolare del Curriculum
vitae (1902), Giuseppe Galasso sostiene che il Contributo fu stilato
completamente ex novo. Di parere diverso era Gianfranco Contini che, nel suo
saggio L'influenza culturale di Benedetto Croce (1967), riteneva il Curriculum
una sorta di «prima redazione» dell'autobiografia intellettuale del filosofo.
Secondo Galasso, cifra dello scritto autobiografico di Croce è la figura
dell'«animo sospeso» nell'imminente scoppio della guerra mondiale, che sembra
contraddire «la professione della conseguita vittoria sull'angoscia e la
dichiarazione della calma guadagnata con l'età e col lavoro fatto per
maturarsi». Tale figura, non superata nelle aggiunte del 1934 e del 1941,
suggerisce «un'immagine conclusiva della sua storicizzazione di se stesso».
Contini giudicò il libro «il capolavoro dell'espressione crociana e il giudizio
più accettabile sul Croce della storia», ravvisandovi «un pathos rattenuto, una
commozione non spenta ma vinta e superata», che «danno il tono a questa che
l'autore [...] chiama "autobiografia mentale", memore evidentemente dell'esempio
vichiano [...] e che tuttavia ha un sapore dominante di Settecento francese,
proprio il secolo più ingrato al Croce teorico».
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