Fu composto tra il 1952 e il 1956.
Dopo nove anni dalla pubblicazione del suo primo romanzo, Menzogna e sortilegio
(1948), Elsa Morante propone un testo caratterizzato da un equilibrio e una
limpidezza narrativa straordinari accolto subito come un piccolo classico del
Novecento. La voce narrante è quella di Arturo Gerace, il protagonista, che da
una distanza temporale imprecisata rievoca le memorie della propria infanzia,
trascorsa sull'isola di Procida. Il racconto è introdotto da una poesia della
Morante stessa, intitolata Dedica, poi confluita nella raccolta Alibi (1958),
che contiene nell'ultimo verso la chiave di lettura dell'intero romanzo: «fuori
del limbo non v'è eliso». In epigrafe si incontrano i versi di Umberto Saba e di
Sandro Penna, poeti prediletti e amici personali della scrittrice, scelti come
"numi tutelari" del racconto; citazioni tratte dalle opere di Mozart e dai versi
di Rimbaud completano il quadro dei riferimenti letterari. Il testo è
strutturato in otto capitoli di varia lunghezza, a loro volta suddivisi in brevi
sottocapitoli; ogni segmento ha un proprio titolo e quello più rilevante
coincide con il titolo dell'intero capitolo. Da un'analisi dell'indice emergono
gli episodi salienti del romanzo, si definiscono i ruoli dei personaggi, vengono
messi in risalto gli "oggetti magici" che aiutano il protagonista a superare le
prove per il raggiungimento della maturità. La dimensione temporale non è
definita in modo chiaro, sebbene la vicenda sia ambientata negli anni
immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, a cui Arturo decide di
partecipare, lasciando l'isola per sempre. La Storia rimane fuori dallo spazio
mitico dell'isola, vero e proprio «cronotopo narrativo» (Giovanna Rosa) che
racchiude in sé il tempo ciclico della natura e la fissità archetipica della
favola. L'autrice stessa guida il lettore con una nota che compare nella quarta
di copertina dell'edizione del 1975, indicando le coordinate entro cui situare
l'iniziazione dell' "eroe-ragazzo" Arturo, che, come ogni "fanciullo divino",
cresce nella solitudine e nella fusione totale con il mondo primordiale.
«L'isola nativa rappresenta una felice reclusione originaria e, insieme, la
tentazione delle terre ignote. L'isola, dunque, è il punto di una scelta. Una
scelta rischiosa, perché non si dà uscita dall'isola senza la traversata del
mare materno: come dire il passaggio dalla preistoria infantile verso la storia
e la coscienza».
Arturo è orfano di madre, morta nel darlo alla luce, ed è stato allevato con
latte di capra dal fedele balio Silvestro.
Nel primo capitolo, «Re e stella del cielo», viene ricostruito l'universo
originario del personaggio, dominato dalla presenza del padre, Wilhelm, figura
mitizzata dal protagonista, che assume la statura di una vera e propria
divinità, e dall'assenza della madre, ugualmente sacra nella venerazione del
figlio. Il rapporto tra Arturo e Wilhelm è un classico caso di amore filiale non
corrisposto, come accadeva già in Menzogna e sortilegio, ma anche tradito, come
avverrà in Aracoeli (1982). Wilhelm è un idolo indifferente e crudele, che
ignora i tentativi disperati del figlio di conquistare la sua ammirazione; i
suoi continui e misteriosi viaggi non fanno che aumentare l'aura di mistero di
cui è ammantato, e i due mesi estivi che l'uomo trascorre sull'isola sono per
Arturo una concessione regale, elargita con magnanimità dal suo unico sovrano.
In assenza del padre, il ragazzo gestisce la propria vita in modo indipendente e
anarchico, tra le perlustrazioni dell'isola in compagnia dell'adorata cagna
Immacolatella, sua unica compagnia, e le gite sulla barca da pesca. La passione
per la lettura aumenta la fervida immaginazione di Arturo: egli costruisce un
proprio codice morale derivato dai modelli letterari e fondato sulle «Certezze
Assolute», che sono per lui «la sostanza della sola realtà possibile». Arturo,
che ha ereditato l'atteggiamento orgoglioso e superbo del padre, non cerca alcun
legame con gli isolani, né con i rari turisti di passaggio. I Gerace vivono in
una dimora enorme e semiabbandonata, la «Casa dei Guaglioni», abitata anni
addietro da un anziano spedizioniere misogino, Romeo l'Amalfitano, e rimasta
nella leggenda popolare per le sontuose feste che vi si allestivano, riservate
solo agli uomini. L'Amalfitano, ormai cieco e prossimo alla morte, era legato
con una morbosa amicizia a Wilhelm e gli aveva lasciato in eredità la casa e
tutti i suoi averi, per permettergli di vivere libero dalla schiavitù del
lavoro. La «Casa dei Guaglioni» è pertanto uno dei luoghi topici del racconto,
carico di significaci simbolici: è lo spazio dell'«infanzia solitaria», ma anche
«il palazzo negato alle donne», perché gravato da una maledizione lanciata da
Romeo che ha già colpito la madre di Arturo; nella trasfigurazione della memoria
assume ora la forma di un favoloso castello, ora l'aspetto decrepito di una
rovina. Il primo avvenimento che incrina lo specchio perfetto in cui
Arturo-Narciso si riconosceva è la morte di Immacolatella, causata dalle
complicazioni dovute a un parto tardivo. Questa scomparsa fa da cerniera tra i
primi quindici anni di vita del protagonista, concentrati in un capitolo, e il
tempo che lo separa dall'addio all'isola, dispiegato nei restanti sette.
L'evento che cambia radicalmente la vita di Arturo, e introduce nel cuore della
sua crescita, è l'arrivo sull'isola della seconda moglie di Wilhelm, Nunziatina,
una ragazzina di soli sedici anni, proveniente dai quartieri poveri di Napoli.
L'iniziale sentimento di Arturo nei confronti della matrigna è di gelosia per
l'affetto del padre che la sposa-bambina gli sottrae; ma ben presto Wilhelm si
stanca della moglie, che ha sposato solo per convenienza, proprio perché non era
innamorata di lui, e la lascia sull'isola per riprendere i suoi vagabondaggi.
Nunziatina rimane incinta e la gravidanza la trasforma nella «regina delle
donne» agli occhi del figliastro, che prima rivede in lei sua madre, poi si
accorge di provare un sentimento ben diverso. La nascita del piccolo Carmine
Arturo rivela al ragazzo quanto sia profondo l'amore che lo lega alla giovane
matrigna: il terrore di vederla in pericolo di vita al momento del parto e la
gelosia per le attenzioni rivolte al neonato sono i segni del mutamento del
rapporto tra i due. Per attirare l'attenzione di Nunziatina, ma anche per
provare a se stesso il proprio coraggio, Arturo sfida la morte e tenta il
suicidio avvelenandosi con il sonnifero. Il tentativo fallisce, ma ormai le
«Colonne d'Ercole» che separavano le loro vite sono state oltrepassate: si
scambiano un «bacio fatale», che provoca una reazione di ripulsa in Nunziatina,
spaventata dal sentimento «contro natura» che prova per Arturo. Altra tappa del
cammino di maturazione di Arturo è la relazione con Assuntina, vedova
ventunenne, che lo inizia ai misteri del sesso; da questa relazione il ragazzo
capisce di quale diversa intensità sia l'ardore che prova per la matrigna, a sua
volta gelosa del nuovo legame del figliastro, tanto da scontrarsi apertamente
con Assunta. Mal a vera, dolorosa fine dell'infanzia, con tutte le sue leggende
e le sue illusioni, avviene con il crollo del mito paterno. Uno dei tanti amici
di Wilhelm (che nelle fantasie del figlio venivano rivestiti di grandezza e di
mistero al pari del padre) giunge sull'isola: ma è solo un delinquente comune,
Tonino Stella, costretto a trascorrere qualche anno nel penitenziario di
Procida. Il carcere è un altro dei luoghi centrali del romanzo: «feudo lugubre e
sacro» costituisce il lato buio dell'isola luminosa, la «terra murata» dove il
bene più prezioso per ogni essere vivente, la libertà, è irrimediabilmente
negato; è anche l'unico territorio interdetto al ragazzo, che ha il ricordo
delle rare visite fatte con il padre come di «traversate d'una regione assai
lontana dalla mia isola». Arturo segue Wilhelm nelle sue spedizioni notturne al
carcere e scopre che il suo idolo manda messaggi disperati all'amico detenuto,
ma come risposta riceve inizialmente un silenzio pieno di disprezzo, poi
l'umiliante appellativo di «parodia». Grazie all'indulto del 1938, Stella lascia
il carcere e viene accolto con una ricca cena nella «Casa dei Guaglioni»;
durante la serata si scontra apertamente con Arturo, al quale rivela le tendenze
omosessuali del padre, svelando anche la finzione dei viaggi all'estero, che non
sono altro che soggiorni a Napoli in cerca di squallide avventure. Wilhelm
lascia l'isola con l'amico e rifiuta la richiesta del figlio di portarlo con sé;
si consuma così il distacco doloroso dalla figura paterna, a cui segue l'addio a
Nunziatina. Arturo le confessa tutto il suo amore, ma la ragazza, per rispetto
all'autorità del marito, lo respinge di nuovo con foga.
Nel finale interviene un deus ex machina, il balio Silvestro, tornato per
rivedere Arturo dopo tanti anni di lontananza: l'uomo si è arruolato
nell'esercito e informa il ragazzo della Grande Guerra che fuori dall'isola
incendia il mondo. Senza salutare Nunziatina e il fratellino, né fare ritorno
per l'ultima volta alla «Casa del Guaglioni», Arturo abbandona Procida per
sempre. È Silvestro che informa la matrigna della decisione di Arturo e prende
l'occorrente per il viaggio, compresi i fogli dello scrittore in erba e un
orecchino d'oro, dono di Nunziatina. Il racconto si interrompe nel momento in
cui il piroscafo diretto a Napoli lascia l'isola, che scompare dallo sguardo del
narratore; nulla viene detto della vita di Arturo adulto, ma dai vaghi accenni
disseminati nel testo traspare la delusione e il rimpianto per l'abbandono
dell'unico paradiso che ci è destinato, il «limbo» dell'infanzia.
Quella di Arturo è una «iniziazione impossibile» (Giovanna Rosa) che «non sarà
servita a nulla, se mai ha svilito l'eroe» (Giacomo Debenedetti). È stato anche
scritto: «L'isola di Arturo è un romanzo che si nasconde in se stesso come la
luce del sole: è un romanzo di formazione, un'educazione sentimentale, una
storia edipica, il ricordo di un Eden perduto, una metafora (l'isola) di beata
incomunicabilità e di consapevole narcisismo» (Cesare Garboli).
Il romanzo ebbe un grande successo, di critica e di pubblico, e vinse nel 1957
il premio Strega. Ne è stato tratto un film, nel 1962 con la regia di Damiano
Damiani, interpretato da Vanni De Maigret, Key Meersman, Reginald Kernan.
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