Soltanto una ventina di componimenti, raggruppati nella sezione «Nuove poesie»,
costituiscono una primizia editoriale: il volume è in larga misura di natura
antologica e compendia dodici anni di intensa attività poetica. I versi di Acque
e terre, usciti di volta in volta su «Solaria», vennero infatti riuniti in
volume nel 1930; Òboe sommerso uscì nel 1932 a Genova; seguirono poi Odore di
Eucalyptus e altri versi (1933) e Erato e Apòllion (1936). L'ultima parte della
raccolta, «Traduzioni», propone una scelta della lirica greca - Saffo, Alceo,
Anacreonte e molti altri -, di cui Quasimodo aveva operato una vera e propria
riscrittura nei Lirici greci (1940), suscitando le reazioni accese e discordi
della critica. L'interesse della silloge del '42 non sta però solo nella
selezione dei materiali. Rispetto ai testi originari i criteri di rifacimento
sono molteplici e le modifiche davvero notevoli; basti l'esempio del "taglio"
drastico subito dalla celebre Ed è subito sera: delle sei strofe che
costituivano la primitiva Solitudini sono sopravvissuti unicamente tre versi, a
buon diritto famosi. Il gran numero di varianti documenta una consuetudine
analoga a quella di Ungaretti: la continua ripresa e verifica dei propri testi,
a cui peraltro il poeta siciliano aveva già tentato di dare una prima
sistemazione nell'antologia Poesie (1938) introdotta da un importante saggio di
Oreste Macri sulla poetica della parola. La raccolta ebbe diverse edizioni nel
corso di pochi anni: nel '44, nel '51, nel '52.
Il titolo pone sul limitare della raccolta uno dei temi più cari,
all'ispirazione di Quasimodo: quello della solitudine e della transitorietà
dell'esistenza umana; nello stesso tempo fornisce alcune indicazioni di poetica
ed esemplifica assai bene i risultati a cui intendeva pervenire il lavoro
correttorio dell'autore, all'epoca impietosamente orientato "in levare".
L'asprezza lapidaria dei tre vocaboli non lascia infatti presupporre alcun
seguito, semmai suggerisce l'idea di un'espressione in sé compiuta e dal valore
assoluto, proprio come una sentenza. Tuttavia la clausola gnomica implica un
lungo, sofferto discorso a cui è indissolubilmente legata e ad esso rinvia la
congiunzione ed. Dunque, ciò che viene offerto al lettore è un brandello di
verità isolato da qualsiasi altra informazione, in modo da aprire la via a
un'interpretazione estensiva del valore del messaggio e permettere, almeno nei
casi più felici, di supplire con la propria sensibilità e fantasia a ciò che
rimane sottaciuto. Naturalmente alla base del "culto del frammento" c'erano i
canoni dell'ermetismo, gli influssi europei, ma non bisogna sottovalutare il
peso della cultura classica e l'attenzione che in quegli anni il poeta le
dedicava.
Il divario cronologico che separa le diverse parti dell'opera è sensibile;
nonostante la meticolosa revisione, non c'è una grande uniformità di toni: si
passa dalla cripticità di «Oboe sommerso», tutta dominata dall'esile trama dei
nessi analogici e delle suggestioni fonico-timbriche («un òboe gelido risillaba
/ gioia di foglie» ; «ali oscillano in fioco cielo / labili»), ai testi assai
più sobri ed equilibrati di «Acque e terre» e soprattutto di «Nuove poesie».
Sono invece costanti i motivi più tipici del poetare quasimodiano: l'assolutizzazione
di un evento contingente caricato di sacralità (il suono di un corno diventa un
grido che chiama i morti); la tendenza a cogliere le misteriose vibrazioni del
paesaggio; il senso di solitudine frutto delle vicende del poeta e della sua
sensibilità accesa, che è tale da isolarlo persino dalla donna amata. Ma
soprattutto la condizione di esule e, di conseguenza, la vibrante evocazione
della Sicilia - per lo più trasfigurata in un'atmosfera arcana e densa di
memorie mitiche - sono i due poli attorno ai quali ruota la magia lirica di
Quasimodo. Così, magari risvegliata dall'odore famigliare di un eucalyptus,
nell'«isola mattutina: / riaffiora a mezza luce / la volpe d'oro / uccisa a una
sorgiva» (L'Eucalyptus); oppure è l'io rammemorante a decidere un'estatica
immersione: «ecco discendo nell'antica luce / delle maree, presso sepolcri / in
riva d'acque / che una letizia scioglie / d'alberi sognati» (Nell'antica luce
delle maree); o ancora « in te mi getto: / una fresco di navate posa nel cuore»
(Alla mia terra).
Tuttavia la naturalità beata della terra dove «mansueti animali / le pupille
d'aria / bevono in sogno» (L'Anapo) si accompagna alla coscienza di un
decadimento senza riscatto. Il moderno Ulisse è stanco, gravato da inquietudini
estranee al vitalismo del suo fratello omerico e il viaggio verso Itaca più che
nello spazio può avvenire ormai solo nel tempo immobile della memoria-sogno.
L'anelito verso un ideale luogo di primitività incorrotta è, perciò,
continuamente frustrato dal «verde squallore» della realtà: l'unica possibilità
di reintegro è foscolianamente offerta dall'illusione della poesia.
Analogo dualismo nella resa formale dei componimenti, senz'altro vicini alla
tradizione stilistica di Valéry e di Ungaretti, atta a valorizzare anzitutto la
capacità evocativa del discorso ricorrendo a tutti gli strumenti della retorica
implicita: ellissi, metafore interpolazioni grammaticali. Senonché la malia
incantatrice del verso, che pure ripudia l'espressione diretta legata al dettato
tradizionale, si sforza di convivere con suggestioni di stampo addirittura
veristico: quando l'occhio del poeta indugia sulla sofferta vita di provincia,
l'attenzione il dato di realtà sembra quasi imporsi sulla trasfigurazione
lirico-simbolica sempre operante. Non a caso lettori autorevoli hanno parlato di
una «dimensione mitico-realistica» o ancora meglio di una «rielaborazione
ermetica del realismo provinciale del Verga»: tutte definizioni che ben rendono
l'ambiguità di un autore perennemente sospeso tra ermetismo e "sicilianesimo
nostalgico".
Terra è forse la prova più convincente e rappresentativa di questa tendenza
«Notte, serene ombre / culla d'aria / mi giunge il vento se in te mi spazio /
con esso il mare odore della terra / dove conta alla riva la mia gente / a vele
a nasse a bambini anzi l'alba desti. / Monti secchi. pianure d'erba prima / che
aspetta bevi e greggi / m'è dentro il male vostro che mi scava».
L'opera fu accolta dalla critica come un riuscito tentativo di superamento di
quell'oscurità di linguaggio che nel '32 si era guadagnata con Òboe sommerso gli
strali polemici di De Robertis: «una finzione di profondi sensi che diventano
nonsensi». Sergio Solmi, nel saggio posto a prefazione del volume del '52, si
soffermò a lungo sui caratteri di questa poesia constatando come il suo
«organismo costitutivo» fosse più la parola che il verso: «ciò spiega come la
trama della composizione così spesso si allenti e diradi, mentre l'espressione,
l'effetto tendono a raccogliersi nella parola singola musicalmente insistito
nelle sue sillabe»; giudizio altrettanto calzante per quanto riguarda i limiti
di un verseggiare che, «intenso» e «raccolto», vòlto a «espressioni totali»,
induce il poeta «ad esprimere troppo e troppo poco, ricorrendo a dure torsioni e
oscurità abbacinanti». Oreste Macrì, indagando le influenze di Leopardi e
Pascoli, nonché dell'ambiente solariano e infine dei modelli francesi, parlò
addirittura di «crisi ultima del simbolismo». Né si può dimenticare che proprio
la funzione di mediatore tra esperienze straniere e italiane - da un certo gusto
neoclassico al simbolismo dannunziano, ad alcune cadenze ungarettiane - ha
contribuito a costruire la fortuna del poeta, declinata solo in tempi recenti, e
ancor più dei suoi modi stilistici, che Mengaldo vede alla base «della koiné
dell'ermetismo minore».
Le poesie hanno conosciuto anche diverse esecuzioni radiofoniche. Tra le più
significative si ricordano: Vento a Tìndari in Antologia dei poeti moderni letti
da Vittorio Gassman; Òboe sommeremo, dizione di Salvatore Quasimodo, in Secondo
Novecento, a cura di Ruggero Jacobbi (Milano, Nuova Accademia, 1965); Da Acque e
terre e Òboe sommerso.
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