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Il concetto moderno di ragione
Il concetto “moderno” di ragione quale guida libera e progressiva della conoscenza umana viene fatto risalire a Cartesio (1596-1650). Molti sottolineano a tal punto il ruolo di questo pensatore da postulare un'effettiva soluzione di continuità con la cultura precedente. In realtà, a preparare e a favorire il sorgere della riflessione cartesiana vanno indicati numerosi fattori. Già a partire da san Tommaso, il quale distingue ragione e fede, e nel solco della linea teologica che da Sigieri di Bramante, passando per Duns Scoto, giunge a Guglielmo da Ockham, si assiste sempre di più all'accentuazione dell'autonomia della ragione rispetto alla fede. Non bisogna poi dimenticare la “rivoluzione” rinascimentale con il suo profondo antropocentrismo, corroborato dalle nuove scoperte geografiche: si assiste all'affermarsi di una nuova forma di “spiritualità-mentalità”, che introduce un'insuperabile instabilità nella visione teocentrica del mondo medioevale.
Le prime ricerche di tipo scientifico, inoltre, specie a partire da F. Bacone (1561-1626), avviano quel processo di “disincanto del mondo”, coerente all'instaurazione di un nuovo quadro della società dove non è più il sapiente a doversi giustificare davanti al teologo, ma viceversa. In questo contesto occorre menzionare la forza dirompente esercitata dalla Riforma protestante e dalle guerre di religione: soprattutto quest'ultime imposero l'esigenza di cercare un nuovo centro di unificazione tra gli uomini, non essendo più essa garantita dalla religione, e proprio nella ragione si troverà l'istanza universale a cui riferirsi per l'organizzazione del sapere e del vivere quotidiano.
La ragione in Descartes
La concezione moderna fa della ragione “l'istanza suprema e ultima” per l'orientamento dell'esistenza umana, del conoscere e dell'agire dell'uomo. Tale processo trova il suo incipit nel cogito cartesiano, per la filosofia, e nell'opera di Galileo e di Newton, per la scienza. Chiarito subito che intercorre una netta differenza tra il razionalismo seicentesco e quello illuministico - essendo quest'ultimo totalmente sganciato da una qualsivoglia prospettiva metafisica -, si può riconoscere proprio nell'insistenza con la quale Cartesio concentra la problematica filosofica sul tema della soggettività l'avvio di quel movimento di pensiero che farà della ragione il “giudice universale” su tutte le domande umane, anche quelle della religione. Per Cartesio, infatti,
la capacità di ben giudicare e di distinguere il vero dal falso — ciò che propriamente si dice buon senso o ragione — è per natura uguale in tutti gli uomini e, quindi, […] la diversità delle nostre opinioni non deriva dal fatto che gli uni sono più ragionevoli degli altri, ma soltanto dal condurre i nostri pensieri per diverse vie e dal non considerare le stesse cose. Non basta infatti esser dotati di un buon ingegno; importa soprattutto applicarlo bene.
(Discorso sul metodo, 1637)
Da qui l'urgenza di individuare le regole idonee a indirizzare la ragione nel suo compito fondamentale di guida conoscitiva e morale dell'uomo, tenendo come paradigma di riferimento il sapere matematico. Con Cartesio e, sulla sua scia, con Leibniz e Spinoza, la ragione non è semplicemente una facoltà conoscitiva, ma la realtà stessa dell'essere dell'uomo (res cogitans). Successivamente, con Locke e con l'empirismo inglese, la ragione verrà intesa quale puro strumento di conoscenza probabile o, al massimo, certa. Nella disputa filosofica della modernità tra empirismo e razionalismo, la ragione illuministica troverà un trampolino di lancio per giungere alla sua più compiuta definizione nel pensiero di Kant, grazie all'influenza esercitata su di lui e su tanti altri pensatori illuministi dalla scienza moderna (il progetto dell'Encyclopédie), quale modello del sapere.
La ragione per Galileo e Newton
La nascita della scienza moderna, e in particolare della fisica, a opera di Galileo (1564-1642), proseguita e sistematizzata poi da Newton (1642-1727) nei suoi Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), segna uno iato molto forte con la scienza pre-moderna. L'emergere dell'elemento quantitativo su quello qualitativo, la forza probante dell'esperimento, il progressivo abbandono delle prospettive metafisiche determineranno un formidabile sviluppo nella comprensione del “funzionamento del mondo”, la cui realtà ora si vuole comprendere senza aggancio al mistero. Sebbene nella maggior parte degli autori che furono protagonisti di questo cambiamento un tale sviluppo non fu interpretato in chiave anti-religiosa, esso segnò tuttavia l'ingresso in un'epoca nella quale, grazie al nuovo pensiero scientifico, quasi tutto avrebbe ricevuto ormai una spiegazione senza più ricorrere all'aiuto della teologia o della Rivelazione biblica. Se è forse esagerato ritenere che la razionalità moderna nasca proprio dalla critica al dogma cristiano e alla sua prospettiva cosmologica, derivata in gran parte dall'assunzione del modello aristotelico, certo è che la modernità si propone come un programma dichiaratamente anti-aristotelico (ma non anti-cristiano, almeno nelle intenzioni), coinvolgendo nella sua critica molte “espressioni del cristianesimo” in quanto dipendenti concettualmente dall'aristotelismo. La progressiva emancipazione e indipendenza della natura e dell'intelletto da ogni trascendenza e da ogni mediazione che non fosse immanente alla natura e all'intelletto stesso, produsse quella esaltata libido sciendi che pretese strappare alla realtà il mistero gelosamente custodito, invece che contemplarla con stupore. Per penetrare la realtà con tutte le energie fondamentali dell'intelletto si rendeva necessario recidere definitivamente il vincolo che teneva unite la teologia e la fisica e fu questa l'opera degli Enciclopedisti francesi.
La ragione in Kant
“Il cielo stellato”, che insieme alla legge morale interiore desta lo stupore di Kant (1724-1804), non è altro che proprio quell'“ordine” visibile nel cosmo all'occhio della scienza, di cui si ritiene di svelare il segreto: da qui l'entusiasmo con il quale si indica nella ragione diventata “adulta” l'essenza stessa dell'illuminismo (cfr. Risposta alla domanda: che cos'é l'illuminismo? , 1784). Il tribunale supremo della ragione non riconosce oltre alcuna autorità: tutto è sottoposto al suo giudizio secondo il compito assegnato da Kant alla Critica della ragion pura (1781 e 17872). La ragion pura, infatti: «non s'immischia nelle controversie che si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per giudicare i diritti della ragione in generale».
L'analisi kantiana circa le condizioni di possibilità del sapere individua nella facoltà conoscitiva superiore dell'uomo, distinta da quella inferiore della sensibilità, due usi possibili, quello dell'intelletto e quello della ragione.
Se l'intelletto può essere una facoltà dell'unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell'unità delle regole, dell'intelletto mediante i princìpi. Essa, dunque, non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per mezzo di concetti; unità, che può dirsi razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto.
(Critica della ragion pura, 1781 e 17872)
Essendo così stabilito che solo il riferimento all'esperienza dà garanzia di conoscenza vera, l'uso della ragione potrà essere, con parole di Kant, semplicemente regolativo e non “costitutivo”. La ragione non offre nulla da conoscere nel suo procedere argomentativo: gli oggetti a cui essa punta la sua attenzione nel ricondurre ad unità le molteplici conoscenze dell'intelletto — come l'idea di mondo, l'idea di Dio, l'idea di anima —, in quanto non commisurabili con l'esperienza, danno luogo solo a conoscenze fittizie (paralogismi), se da essi si pretende una conoscenza vera e non semplicemente regolativa, se cioè si pretende che queste idee ci dicano come le cose stanno in realtà.
Poiché la ragione moderna si è autoposta nelle proprie leggi e nei propri confini, essa ha posto ogni cosa all'interno del proprio orizzonte, chiudendo tutto nei propri limiti. Lo scritto kantiano del 1793 La Religione nei confini della pura ragione appare, in questo senso, non solo programmatico, ma anche conclusivo di un itinerario di pensiero che ha voluto spiazzare il “sapere critico della fede”, in concreto la scienza teologica speculativa. La famosa espressione della prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, secondo cui Kant ha dovuto superare ( aufheben ) il sapere per far posto alla fede, è quanto mai significativa. L'autolimitazione della ragione teoretica solo su oggetti della esperienza possibile creava uno spazio del tutto particolare alla ragione pratica e ai suoi postulati. La fede in Dio, nella libertà e nell'immortalità dello spirito umano non più giustificabili teoreticamente venivano compresi da Kant come «religione nei confini della pura ragione», essendo la religione, obiettivamente considerata, nient'altro che la conoscenza di tutti i nostri doveri morali considerati come comandamenti divini. Un nuovo rapporto tra ragione e fede veniva, così, proposto e veicolato. Precisamente quel rapporto che sulla doverosa distinzione degli ambiti perviene ad una loro effettiva separazione, rendendo inutile (e intollerabile) qualsiasi fondazione razionale (teoretico-speculativa) del motivo di fede, in quanto la fede appare fondabile e giustificabile solo ed esclusivamente in ambito pratico-etico. L'oscillazione kantiana tra un uso “assoluto” e uno “critico” della ragione sta alla base della tensione che il criticismo ha nei confronti dell'elemento religioso e la complessità dell'atteggiamento religioso dell'Illuminismo.
Il tratto più singolare e comune all'epoca dei Lumi in tutti i campi fondamentali del sapere (la conoscenza della natura, la religione, la gnoseologia, la psicologia, la storia, il diritto, l'estetica) resta comunque il seguente: il guadagno di una nozione di ragione, creduta unica e immutabile, che nel proprio espandersi cognitivo in tutte le diramazioni dell'esistente non si disperde, ma ritrova sempre se stessa con maggiore consapevolezza e più intensa coscienza di sé, delle proprie forze attive e delle proprie potenziali capacità intellettive, protese al dominio del tutto. Di questo tutto essa pretende (e ritiene di) poter scoprire la forma che lo pervade e governa, offrendone una sua determinazione matematica attraverso il numero e la misura. È noto come dopo Kant e in reazione al suo pensiero si è espressa l'esigenza di una ragione filosofica che non assolutizzi la “dimostrazione” come metodo esclusivo del discorrere, ma sappia giovarsi di ciò che è “altro”, “eteronomo” per ampliare l'orizzonte della propria navigazione veritativa, fino all'Assoluto. Non l'intelletto, ma la fede sarà la chiave sicura e completa. È il caso solo di rilevare le tendenziali istanze fideistiche che serpeggiano abbastanza chiaramente in queste posizioni (con F.H. Jacobi e J. Hamann): è forse l'esito acritico verso cui spinge, per contrasto, ogni eccessiva assolutizzazione della ragione.
La ragione nel Romanticismo
Anche J.G. Herder (1744-1803) incontra la stessa questione e ne fa un motivo costante della sua critica all'Illuminismo: la ragione non è realtà originaria nell'umano, ma, pur nella sua originalità, è un prodotto e comunque realtà successiva nel dinamismo della vita cosciente dell'uomo. Così la ragione umana non è surclassata, ma contestualizzata, non impoverita, quanto alle proprie possibilità teoretiche, ma collocata al centro di una totalità più ampia, per la quale l'uomo è propriamente un essere “senziente”, e questo ne riferisce opportunamente la sua natura e le sue storiche condizioni. La ragione non crea, ma è creata: questa acquisizione permette di precisarne la sua “gettatezza esistenziale”, i suoi limiti e le proprie possibilità conoscitive. Anche la ragione è una funzione di forze organiche che la precedono e la rendono possibile: si tratta di forze invisibili e formative dalla cui incarnazione dipende lo svolgimento del corso e dello sviluppo sia della natura che della storia umana nella sua globalità.
Tuttavia, la ragione moderna che aveva trovato in Kant una delle sue più alte espressioni, con Georg F. Hegel (1770-1831) giungerà alla sua consumazione definitiva. Portando a termine il superamento delle aporie del sistema kantiano avviato da Fichte e da Schelling, Hegel punta decisamente sul carattere dialettico della ragione, che costituisce per lui, a differenza di Kant, la superiorità della ragione rispetto all'intelletto: essa non si pone di fronte ai concetti in modo esterno, ma li vive dall'interno nel loro passare l'uno all'altro. La “ragione hegeliana”, in questo movimento, supera la distinzione tra soggettivo e oggettivo, stabilendo in se stessa l'identità di pensiero e di realtà:
L'autocoscienza, ossia la certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive — determinazioni dell'essenza delle cose —, quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale, in quanto è siffatta identità, è non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere
(G. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817).
La ragione è quindi l'assoluto infinito che si realizza nel dispiegamento dei suoi momenti finiti non solo in sede logica ma anche in quella storica:
«tutto ciò che è razionale è reale» ( ibidem , p. 7).
Si assiste in tal modo alla costruzione di un sistema chiuso e perfettamente necessario in ogni sua esplicitazione, dove il margine di azione libera del soggetto finito è concretamente nullo. Tutto è sottoposto alla “furbizia” della ragione e tutto riceve un'interpretazione razionale. Con Hegel il progetto cartesiano di una ragione guida autonoma dell'uomo giunge al suo compiuto apogeo. Tuttavia, nello stesso tempo, il sistema hegeliano pone le condizioni per una sua fortissima contestazione: la ragione non è più a servizio del soggetto, ma è il soggetto una funzione della ragione.
Un analogo sviluppo può essere ravvisato nelle vicende della razionalità in campo scientifico, con un particolare riferimento al positivismo ottocentesco. Le nuove scoperte in campo tecnico e la discussione sull'origine della specie umana favorirono la sopravvalutazione della scienza quale vero sapere-guida del genere umano, fautore di un progresso irresistibile. Esemplarmente in Auguste Comte (1798-1857), la scienza viene considerata l'autentico erede della filosofia, come questa lo sarebbe stata della religione. Il movimento che qui si avvia giungerà senza soluzione di continuità sino alle discussioni del Circolo di Vienna, dalle quali nasceranno il neopositivismo logico e il razionalismo critico, concentrate nell'esecuzione del programma di una “concezione scientifica del mondo”. Il legame che unisce questi passaggi, e che è insieme la base per la loro revisione, è l'ambiguo atteggiamento verso la ragione: da una parte, si registra un uso ipercritico della ragione empirica nei confronti di qualsiasi speculazione filosofica, specialmente verso quelle di tipo metafisico; dall'altra si denuncia l'acritica fiducia nei confronti della ragione empirica stessa, come nel pensiero di Karl Popper, il quale con il suo programma fallibilista tenterà di dare una soluzione plausibile all'aporia.