Il Positivismo

 

 

Le premesse filosofico-scientifiche

 

Se l'idealismo criticava e teneva in subordine le scienze, il positivismo, nato in Francia e poi diffusosi in tutta Europa nel secondo Ottocento, seguì esattamente la via contraria. Per molti aspetti infatti esso è infatti una diretta prosecuzione del pensiero illuministico, come è evidente in Saint-Simon (1760 - 1825) e nel suo allievo Auguste Comte (1798 - 11857).

 

Il positivismo vuole servirsi del continuo progresso delle conoscenze scientifiche per giungere ad una comprensione rigorosa dell'uomo e della sua vita storico-sociale. La razionalità scientifica viene perciò assunta come unica paradigma, criterio e modello del sapere. Ciò perché il sapere scientifico - dicono i positivisti - si basa sui fatti (in questo senso è 'positivo') e non su intuizioni irrazionali e arbitrarie o su vaghe e confuse idee metafisiche. L'avvento della mentalità scientifica porta ad un'umanità compiutamente storica, capace di affrontare e risolvere razionalmente i suoi problemi. Questa soluzione diviene possibile in quanto la scienza abbandona la chimerica ricerca del perché dell'esistenza delle cose, e si chiede invece, più concretamente e positivamente, come esse sono e quali ne siano le leggi di comportamento.

 

Il positivismo punta a ridurre a leggi i comportamenti umani, ed è per questo motivo che Comte è considerato il fondatore della sociologia, cioè la scienza della società. In realtà Comte non riuscì a sganciarsi da una visione romantica e misticheggiante: alla sociologia affida il compito di realizzare la felicità sulla terra, poiché unica scienza capace di eliminare per sempre i conflitti sociali e le guerre tra i popoli.

 

 

L'evoluzionismo inglese

 

Il positivismo francese, depurato delle componenti misticheggianti, conservò la sua carica utopica nell'ambito filosofico inglese, dove prese la forma dell'utilitarismo con John Stuart Mill (1806 - 1873), dell'evoluzionismo filosofico di Herbert Spencer ( 1820 - 1903) e, infine, dell'evoluzionismo scientifico di Charles Darwin (1809 - 1882).

 

Quest'ultimo espose la teoria dell'evoluzionismo nell'Origine della specie (1859), opera che scatenò polemiche violentissime e censure religiose e statali in tutto il mondo. Darwin teorizzò che, analogamente alla selezione artificiale operata dall'uomo, anche in natura dovesse agire un meccanismo simile per effetto di un fattore selettivo che doveva essere individuato nella lotta incessante per la sopravvivenza all'interno di un dato ambiente. Osservando piante e animali, Darwin rilevò che due individui di una popolazione sono perfettamente identici: gli organismi differiscono per dimensioni, colori e molti altri caratteri. Lo scienziato iniziò ad intuire che sono in realtà le variazioni, piuttosto che i caratteri acquisiti, a essere trasmesse alla discendenza. Erano le basi della sua teoria della "selezione naturale": un meccanismo, responsabile dei cambiamenti riscontrabili nelle popolazioni, che interviene quando gli individui con le variazioni più favorevoli per un determinato ambiente sopravvivono e trasmettono questi caratteri alla progenie. Darwin concluse che gli organismi che non hanno successo nella competizione per le risorse hanno minori probabilità di sopravvivere in quell'ambiente. Solo gli organismi che sopravvivono possono trasmettere i propri caratteri alla generazione successiva, e dunque in ogni nuova generazione i figli degli individui più adatti saranno più numerosi.

Darwin rivoluzionò la concezione tradizionale dell'origine delle specie viventi e diede un aspetto organico e definitivo alla concezione deterministica. Egli sosteneva che il numero degli organismi viventi che nasce è superiore a quello che può sopravvivere con le risorse disponibili. Quindi esiste tra i vari individui una lotta continua per sopravvivere. In questa lotta prevalgono i più adatti alle condizioni di vita in cui si trovano e trasmettono i loro caratteri ai discendenti. Questa sopravvivenza del più adatto è la «selezione naturale»: come l'uomo seleziona artificialmente le specie animali e vegetali più utili ai suoi bisogni, modificandone le caratteristiche, così opera la natura, scegliendo per la riproduzione degli individui che nella lotta per l'esistenza hanno dei vantaggi sopra i concorrenti.

La dottrina darwiniana ebbe un'influenza enorme su tutto lo sviluppo scientifico e filosofico del secondo Ottocento, ed ebbe peso notevole anche nelle scienze sociali, dando origine a quel filone del pensiero sociologico che si definisce appunto "darwinismo sociale". Tale dottrina tende a vedere la società umana regolata dalle stesse leggi del mondo animale e naturale, quindi dominata anch'essa dalla lotta per la vita, che assicura la sopravvivenza e il dominio al più forte. In effetti la società umana nella sua storia millenaria è sempre stata caratterizzata da conflitti tra le varie classi sociali. Tuttavia il darwinismo sociale non analizza la lotta per la vita come un dato legato a forme specifiche, storicamente definite di società, ma la pone come legge assoluta di ogni forma di società possibile. Le tendenze di pensiero più reazionarie ne ricavano la conclusione che l'assetto sociale vigente fondato sul dominio di una classe sulle altre, corrisponde alle leggi stesse di natura e non potrà mai essere modificato, o addirittura affermano la legittimità e la necessità del predominio del più forte sui più deboli, respingendo le nozioni di uguaglianza e di democrazia maturate nel corso moderno della storia borghese, dall'Illuminismo alla Rivoluzione francese in poi. Queste teorie sono la manifestazione della profonda crisi attraversata dalla coscienza borghese nella seconda metà dell'Ottocento: viene meno la sicurezza di poter dominare concettualmente e praticamente tutta la realtà, la serena certezza in futuro di pace, di equilibrio, di giustizia e di benessere illimitato, che erano i punti fondamentali della concezione della borghesia nel periodo eroico della sua ascesa.

 

 

Lo scientismo

 

Il cammino della scienza dell'Ottocento fu spesso accompagnato da una diffusa ideologia scientista, che divisa la pubblica opinione tra credenti e laici. Tale ideologia, generalmente associata a idee politiche progressiste o talora rivoluzionarie, oltre a ridurre la religione a puro fenomeno sociale, a espressione di mentalità superstiziose e primitive, propugnò talora un materialismo rozzo e sommario, ricavandolo molto arbitrariamente dai risultati delle scienze, per loro natura sempre provvisori.

Grande diffusione ebbe questo atteggiamento in Germania, ma anche in Italia a causa del più moderato Roberto Ardigò (1828 - 1920).

 

Lo scientismo è un atteggiamento mentale che non si esaurisce nel secondo Ottocento, ma conosce precedenti e conseguenze molto ampie (v. approfondimento).

 

 

 

Influenza del positivismo sull'arte

 

Il positivismo incide notevolmente sulla produzione letteraria e figurativa contemporanea orientandola verso una rappresentazione che metta a fuoco il 'vero', la realtà non mistificata, la precisione 'scientifica' di ogni dato e situazione.

Le modalità con le quali vengono rappresentate la dinamica delle classi sociali, la famiglia, gli aspetti della vita associata nella narrativa (da Capuana a Verga, da Zola a De Roberto), nel teatro e nella pittura (da Courbet ai macchiaioli) traggono origine dall'ideologia positivistica.

Forti le influenze anche nel campo della critica letteraria: la genesi e la fisionomia dell'opera d'arte vennero messe in relazione con la razza, l'ambiente, il contesto storico in un modo un po' troppo meccanico e deterministico, come poi - in non pochi casi - farà lo storicismo novecentesco.

 

 

 

Aspetti letterari

 

Sviluppo e crisi del Romanticismo

 

La Scapigliatura

(si ringrazia Ilenia Franchina per questa sezione)

 

 

Il Naturalismo francese

Il Verismo italiano

 

Al nord, la maggiore articolazione della compagine sociale, con l'affermarsi, accanto ai ceti elitari, di una media e piccola borghesia costituita da professionisti e da ceti impiegatizi legati all'apparato industriale, porta all'ampliamento della "base sociale" della letteratura, cioè al numero degli autori e dei lettori, parallelamente a nuove a varietà letterarie, dal romanzo di consumo al romanzo di appendice. La nuova cultura positivista, i nuovi usi e modelli di comportamento legati alla rivoluzione tecnologica, spostano l'attenzione su nuovi tipi umani e su nuovi problemi: protagonista dei romanzi e del teatro, accanto al contadino e al pescatore, è l'impiegato (De Marchi). Nuovi eroi, come è stato osservato, sono l'industriale, lo scienziato, il medico e il maestro (De Amicis). I nuovi temi sono quelli della famiglia, fondamentale cellula della società e quelli dell'adulterio e della prostituzione.

 

Al sud, il verismo, non essendovi un proletariato urbano o i bassifondi di una capitale tentacolare da "studiare", si interessò all'umile vita dei contadini e dei pastori con le loro passioni elementari. Ad un mondo «pressochè vergine e ignoto, il mondo del meridione e delle isole, delle plebi contadine e artigiane, chiuse nella loro opaca renitenza alle forme e agli statuti della civiltà moderna, affioranti per così dire dal buio di una civiltà arcaica, stranamente sopravvissuta dietro le barriere di una secolare solitudine». Questa fu infine la vocazione del verismo italiano, e nel ritrarre la vita dei contadini e delle plebi il verismo ottenne i suoi migliori risultati. Non a caso gli scrittori più rappresentativi della corrente, da Verga a Capuana, da De Roberto alla Deledda, furono meridionali o isolani.

 

Carducci e il classicismo ottocentesco

 

Pur non essendosi mai interrotto, neppure negli anni del pieno romanticismo, il rapporto della letteratura italiana con i modelli classici riprende un certo vigore negli anni immediatamente successivi all'unificazione, soprattutto per impulso di Giosue Carducci, a detta di molti ciritici, il maggior poeta di questa stagione.

 

La sua formazione intellettuale, in un primo momento, si basa sullo studio dei classici greci e latini, di cui si serve per criticare i tardo-romantici (Prati, Aleardi, ecc.), considerati troppo vuoti e sentimentali. I versi di Juvenilia (1850-60) sono improntati a un intransigente classicismo.

Quando si dedica allo studio della moderna letteratura italiana, esalta Alfieri e Foscolo, lasciandosi altresì influenzare dal francese Victor Hugo e dal tedesco Enrico Heine, scrittori che univano letteratura e politica progressista. Ora il Carducci può criticare il Romanticismo abbandonando l'imitazione dei modelli classici. I versi di Levia Gravia (1861-71) attestano una maggiore consapevolezza artistica. 

La sua raccolta di poesie più importanti, culminata con la violenta reazione del poeta alle delusioni politiche degli anni 1867-72, è Giambi ed epòdi (1867-79). Essa (il cui nome deriva dall'antica forma metrica dell'invettiva greca, poi ripresa dalla satira latina) esprime uno stato d'animo risentito, sarcastico, satirico, con l'intento esplicito di voler persuadere il lettore che il nuovo Stato ha tradito le aspettative di coloro che l'avevano realizzato: quello Stato che, per reggersi in piedi, era dovuto scendere a compromessi con la Prussia e l'Austria. Particolarmente violenta è la polemica contro il papato. Carducci in sostanza vagheggiava una società di liberi ed uguali, disposta a concedere pochi poteri allo Stato, basata sull'ideologia populistica della piccola-borghesia radicale. Non a caso ammirava profondamente l'età Comunale. 

Secondo il Carducci di questo periodo, il poeta deve essere un uomo impegnato politicamente, moralmente responsabile delle sue azioni ("poeta-vate"). Egli manifesta chiaramente il suo forte patriottismo, che, anche se a volte cade nella retorica, è pur sempre sincero e leale. 

Relativamente alla sua concezione della natura (in parte mutuata dal Positivismo) va detto: 

 

Oltre a ciò va sottolineato il suo forte amore per la poesia, specie per quella civile, che è senz'altro la più difficile da trattare sul piano stilistico, tanto è vero che i Giambi ed epòdi sono in gran parte estranei alla poesia. Sempre netta comunque è stata la sua avversione per il romanzo, ritenuto incapace di esprimere elevati valori artistici.

 

Negli anni più maturi, spenta la polemica giacobina, il Carducci perfeziona il suo stile (Rime nuove e Odi barbare) ma si involve sul piano ideologico-politico, assumendo atteggiamenti conservatori. Ora non ha più dubbi nell'appoggiare la monarchia costituzionale e il moderatismo borghese. Sul piano poetico affiorano i temi dell'evocazione del paesaggio maremmano, la virile malinconia, l'accorata nostalgia della passata grandezza.

Nella prima delle due raccolte sono svolti alcuni dei temi fondamentali della sua lirica, come il canto delle memorie autobiografiche (vedi p.es. le grandi poesie dedicate al figlio morto e ai ricordi maremmani) e il vagheggiamento delle grandi memorie storiche (in questa direzione è notevole soprattutto il ciclo dedicato all'esaltazione della civiltà italiana nell'età dei Comuni).

Nell'altra raccolta, le Odi barbare, nuovi temi si accostano a quelli ricordati, come il mito della romanità, il senso religioso di una misteriosa presenza superiore (Canto di marzo, La madre) e infine i versi in cui a una realtà precisa e solare si affianca il mistero e l'imponderabile che a questa realtà è sempre congiunto (Mors, Nevicata, Alla stazione in una mattina d'autunno). In queste raccolte, un po' decadenti, l'esigenza di perfezione formale e l'esotica nostalgia dell'Ellade sono state paragonate a identici atteggiamenti dei poeti parnassiani francesi. Già comunque nelle ultime Odi barbare e poi in Rime e ritmi (1898) si era esaurita la migliore ispirazione carducciana e prevalevano l'evocazione erudita, il paesaggio oleografico, l'eloquenza deteriore.

Nel mentre egli si ripropone di ricostituire, nella lingua italiana, i ritmi poetici della lingua latina, i temi diventano quelli della nostalgia dell'infanzia, degli affetti familiari, dell'idea secondo cui i figli pagano le colpe (politiche) dei padri, dell'amore come sensualità anche se dominato dalla ragione, della morte accettata con tristezza virile, della esaltazione della natura e della storia (quest'ultima rivissuta trasferendo gli ideali del presente nel passato, cioè in quelle epoche in cui forte era stato l'eroismo umano, il coraggio di cambiare le cose, la creatività: Roma, il Comune, la Rivoluzione francese e il Risorgimento).

Educato alla scuola di Sainte-Beuve, Carducci ha lasciato scritti critici e contributi eruditi importanti (specie di filologia) su Petrarca, Poliziano, Parini, Leopardi, ma anche su scrittori minori. Egli era profondamente ostile a De Sanctis e allo storicismo napoletano. Si deve infine ricordare che, accanto alla sua attività di poeta e di studioso, egli fu insegnante di valore, tanto che alla sua scuola si sono formati uomini come G. Pascoli, S. Ferrari e, più tardi, A. Panzini e M. Valgimigli. 

 


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