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Se l’arte imita la natura e se la favola è il cuore narrativo e rappresentativo della poesia, la favola non può non essere imitativa, per suo statuto proprio. Ma in che modo la favola imita la natura? Come può essere "rassomiglianza d'azzione", cioè verisimile?
Il problema è serio per ogni poeta, e diventa particolarmente drammatico per quel poeta che vorrebbe impegnarsi nella progettazione e scrittura di un nuovo poema. Questo è il genere letterario più importante e ambito, ed è qui, dunque, che si conquista fama e gloria. Questo poeta (Torquato Tasso, a esempio) conosce bene la coinvolgente felicità dei romanzi di cavalleria, il loro intrigante fascino di personaggi e vicende, tra magie e incantamenti, voli su cavalli alati, attraversamenti in un baleno del tempo e dello spazio; e soprattutto sa distinguere e apprezzare l’irripetibile bellezza dell’Orlando furioso. Irripetibile anche volendo o potendo, perché oggi (a metà Cinquecento) il suo modello di forma narrativa non è più praticabile: troppi prodigi, troppi effetti meravigliosi. Il Furioso è inverosimile.
Dove trovare una storia che sia verosimile e al tempo stesso bella, piacevole, intrigante, almeno quanto i grandi romanzi di cavalleria? Cosa hanno fatto Omero e Virgilio? Non hanno forse raccontato storie fondate sulla storia? Ma in che modo, allora, il racconto della poesia si distingue dal racconto della storia?
Ancora una volta è Aristotele a impostare il problema e a indicarne l’appropriata e conveniente soluzione (cito ancora dalla traduzione di Castelvetro: è la particella settima della terza parte principale: corrisponde alla parte iniziale del capitolo 9 della Poetica nelle moderne edizioni):
"Ora, per le cose dette, appare ancora che questo non è l’ufficio del poeta il dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire e le possibili secondo la verisimilitudine o la necessità. Percioché l’istorico e ‘l poeta non sono differenti nel parlare con verso o senza verso; e certo mettendosi le cose di Erodoto in verso, non saranno però meno certa istoria con verso che senza versi. Ma in questo modo sono differenti: che l’uno dice le cose avvenute, e l’altro quali possono avvenire. Laonde ancora la poesia è cosa più da filosofante e da assottigliato negli studi che non è l’istoria, percioché la poesia dice più le cose universali e l’istoria le particolari".
Ricapitolando:
la favola è verisimile in due modi: quando narra storie accadute e che potrebbero accadere o quando narra storie che potrebbero accadere ma che non sono ancora avvenute;
quando racconta, insomma, storie credibili, cioè simili - nella forma - a storie già accadute, e quindi storie da inventare in rapporto con la verità della storia: per somiglianza, però, non certo per copia meccanica;
il verosimile della poesia non ha nulla a che vedere con la verità della storia, sia per ragioni di statuto formale che di strategia comunicativa: la storia tratta dei particolari, la poesia degli universali;
la materia della favola poetica sarà dunque di una storia verisimile (che potrebbe accadere).
Sulla base di queste argomentazioni, il nuovo poema non potrà più avere ippogrifi in volo verso la Luna, spade incantate, maghi e fate, incantesimi e prodigi, eccetera: il fantastico, quando del tutto arbitrario, resta bandito dalla poesia del Classicismo, a meno che non si organizzi nelle dimensioni, compatibili, di un meraviglioso verisimile.
Sviluppi della questione in epoche successive
Ma la questione del verisimile non riguarda soltanto la cultura aristotelica del Classicismo italiano: l’istanza della mimesi è una sorta di grande impronta genetica della letteratura occidentale, come ha insegnato Erich Auerbach, e non si esaurisce certo con l’esaurirsi del Classicismo. Anzi, dall’Ottocento sino agli anni cinquanta del nostro secolo non ha mai cessato di tormentare gli scrittori, anche – e soprattutto – i più rivoluzionari, o presunti e sedicenti tali: Manzoni cerca la forma del romanzo storico (e della tragedia storica), Verga insegue il verismo, Pratolini aspira al neorealismo, eccetera. Insomma, i nostri arcipedanti aristotelici di metà Cinquecento non sfigurano certo di fronte ai superciliosi teorici dei verismi o realismi o neorealismi contemporanei, non foss’altro perché nulla hanno da spartire con le argomentazioni eteronome di uno Zdanov o dintorni.
Il cuore profondo della teoria letteraria del Classicismo cinquecentesco – per quanto possa sembrare strano – è, infatti, nella difesa a oltranza della piena autonomia della poesia: tutto ciò che ne concerne il funzionamento (le leggi, appunto) è statutariamente fondato al suo interno. Nel Classicismo aristotelico (ma anche oraziano) la poesia si autodefinisce con la poesia, dunque, e nel suo territorio hanno giurisdizione soltanto le ragioni dell’arte e della natura. Tutte le leggi che abbiamo descritto e analizzato in queste ultime lezioni sono, infatti, tutte leggi di autoregolamentazione, secondo coerenza e congruità, secondo proprietà e convenienza: sono tutte leggi per l’ordine e la proporzione tra tutti gli elementi, anche i più minuti dettagli, e tra tutti i soggetti, che entrano in gioco nella comunicazione letteraria.
A questo proposito è da segnalare che se nella discussione della differenza tra poesia e storia già Aristotele scarta come irrilevanti le differenze materiali (verso/prosa) per affermare con risolutezza che non basta il verso a fare una poesia, Castelvetro insiste a fondo, allegando, sempre su questo tema, una ricca serie di esemplificazioni, tutte di grande rilievo, relative a scrittori antichi e moderni, di cui discute la più adeguata classificazione, se tra gli storici o tra i poeti, indipendentemente dalla forma (versi o prosa) impiegata nelle loro opere: e certo originale è la sua proposta di considerare "cari come poeti" Luciano (autore di dialoghi in prosa) e Boccaccio (in quanto autore del Decameron e del Filocolo).
Ma se verso o prosa non distinguono tra poesia e non-poesia, come orientarsi? Castelvetro propone questo criterio generale, che riassume con efficacia tutto il percorso di formalizzazione teorica sin qui compiuto: "l'arte della poesia ha per soggetto le cose possibili ad avvenire e non avvenute, le quali, palesinsi con verso o con prosa, sempre sono quelle medesime cose possibili ad avvenire: adunque la prosa o il verso, non versificando il soggetto, non sono la differenza essenziale" tra la poesia e la storia, per quanto ne siano "vestimenta loro convenienti e abiti".
Il verisimile attiva, dunque, un nuovo polo di riferimento obbligato per la misurazione della congruità della produzione estetica: dopo la natura, la storia. In alcune sue forme comunicative (esplicitamente limitate a epica e tragedia), l'arte deve assumere la storia come parametro di misura della sua validità di rappresentazione, sempre rispetto all'occhio che guarda e che legge: se la natura è forma e norma della dispositio della favola (delle sue parti rispetto al tutto), la storia è forma e norma della sua stessa inventio, quando si tratta di epica e di tragedia, cioè dei più alti (nella gerarchia classica e classicistica) generi della comunicazione letteraria. Sempre nel rispetto del patto tra autore e destinatario che fonda e garantisce la possibilità stessa di comunicare senso, cioè piacere e utile.
Una breve osservazione conclusiva: il verisimile non si esaurisce certo nella poetica dei generi letterari, non è soltanto la legge della poesia. Ut pictura poesis …: il verisimile è il patto costitutivo e primario anche (e forse soprattutto) della comunicazione figurativa delle arti, pur sempre per autonome ragioni. Quelle matematiche e geometriche della proporzione e della prospettiva.
Amedeo Quondam
( http://www.italica.rai.it/rinascimento/saggi/introduzione_rinascimento/capitoli/f_35.htm )
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