La natura dell'oppressione nazista e fascista contro i testimoni di Geova in Italia e in Germania e la loro deportazione.
Considerazioni di metodo e di contenuto. Estensione dell'intervento di Claudio Vercelli
Università degli Studi di Milano 05 febbraio 2002
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1. I termini della questione
Si parta da un dato che non
è per nulla scontato nella cognizione collettiva del fenomeno delle
persecuzioni naziste e fasciste delle minoranze: l’avversione dei regimi
tedesco e italiano contro i testimoni di Geova (1), ancorché fatto sistematico,
tradottosi in una serie di atti di deliberata violenza e repressione di tale
Congregazione religiosa, è a tutt’oggi una pagina scarsamente conosciuta dai
più e ancor meno visitata dagli studiosi. Sul perché di questa autentica rimozione
si possono avanzare solo ipotesi, ed anche sufficientemente arbitrarie – poiché
non supportate da riscontri precisi – ma informate, almeno nella loro
formulazione, a obiettivi criteri di indagine e ad un intendimento sinceramente
non partigiano. In quanto, ed è questa una premessa in sé purtroppo oggettiva,
si è in presenza di una deliberata mancanza di riguardo ed attenzione verso una
vicenda che coinvolse migliaia di persone e non di una disattenzione
occasionale. Cerchiamo allora di identificare i motivi o comunque le presunte
ragioni per poi procedere ad una prima, sommaria definizione del fenomeno
persecutorio:
a) senz’altro sussiste una
scarsa vocazione di questa denominazione cristiana a farsi oggetto di biografia
di gruppo, di identificarsi come soggetto storico e quindi di storicizzare la
propria esperienza. Sulla natura e sulle ragioni di questo atteggiamento le
ipotesi possono essere le più diverse ma, a parere dello scrivente, si
raccordano alla giovane età della Congregazione stessa e all’impianto
teologico che ne informa l’operato. Con la dovuta cautela del caso va rilevato
che la proiezione verso l’attività di proselitismo, l’attenzione verso la
costruzione di un mondo ispirato ai dettami della parola divina - così come
desunta dalla lettura che di essa è fatta attraverso la Bibbia e i documenti
prodotti all’interno dell’organizzazione - rinviano i suoi aderenti verso
mete orientate al futuro. Scarsa attenzione è stata dedicata alla dimensione
identitaria intesa come prodotto di un percorso storico, portato di una
riflessione sulle proprie radici. Peraltro, come già si è detto, giovani sono
queste ultime poiché risalenti alla seconda metà dell’ottocento. Ma una
ricognizione, anche critica, sul proprio passato, pur con tutte le implicazione
ch’essa si porterebbe con sé, potrebbe contribuire a far luce sul fenomeno
delle persecuzioni e della deportazione dei testimoni di Geova permettendo alla
società di farsene carico come una pagina senz’altro nera ma la cui memoria
non può essere omessa. Peraltro c’è chi, soprattutto da fonte cattolica, ha
ripetutamente accusato la Congregazione di adottare un atteggiamento esattamente
opposto a quello che andiamo indagando, ovverosia di usare e aver usato il vittimismo
come strumento di autopromozione e come chiave strategica del suo operato. Nei
confronti di Joseph Rutheford, presidente e guida carismatica
dell’organizzazione dei Testimoni di Geova fino agli anni del secondo
conflitto mondiale, l’accento è particolarmente polemico. D’egli si dice
che abbia incentivato, irresponsabilmente, una “vocazione
al martirio” dei suoi confratelli e discepoli. Un esempio a tal riguardo,
tra i tanti, è quello offertoci da Bernard Blandre, uno dei pochi autori per
parte cattolica di una storia della denominazione, che afferma che “le
pubblicazioni geoviste sono piene di informazioni sulle persecuzioni sofferte [da
parte dei testimoni] e che costituiscono
certamente una realtà storica. Ma
esse dimostrano anche chiaramente […] che
esse furono il risultato di una politica di deliberata provocazione contro le
Chiese e gli Stati per creare dei martiri. L’obiettivo pubblicitario era
raggiunto: ogni nuovo caso provocava articoli sulla stampa, dava credibilità ai
Testimoni di Geova per ogni successo giuridico riportato, provocava proteste
contro la persecuzione di cui erano vittime e attirava la simpatia sulla causa
da loro difesa; faceva anche passare i loro avversari da ‘persecutori’,
disponendo così l’opinione pubblica a criticare lo Stato e le Chiese. Era
l’applicazione consapevole della strategia ‘provocazione-repressione-solidarietà’”(2).
La
sostanza, sia pur implicita, di tale argomentazione è che i cosiddetti
“geovisti” – termine già di per sé dispregiativo – sarebbero una sorta
di formidabile macchina di pubbliche relazione il cui obiettivo dichiarato (la
crescita del culto) sottintenderebbe ben altri intendimenti, assai poco etici ma
senz’altro molto “mondani”. E’ la classica accusa che viene mossa alle
cosiddette “sette”, perlopiù giudicate come entità contrapposte alle
“chiese”, intimamente vocate le prime al sotterfugio e alla manipolazione
dei seguaci di contro all’onestà delle seconde, certificata dall’ufficialità
che sarebbe loro riconosciuta dalle autorità civili. Una dicotomia ideologica,
questa, tipica del dibattito europeo ma non necessariamente di quello americano (3).Ora, non è nelle competenze dell’estensore di queste righe il formulare
un giudizio di valore, prendendo partito per l’uno o per l’altro. Non sfugge
allo studioso di questi fenomeni l’implicita fascinazione che il sentirsi
destinatari di pratiche oppressive può avere nella costruzione di una identità
collettiva, declinata anche sul piano della cognizione del dolore sofferto e
proposta all’altrui attenzione come elemento per la contrattazione del proprio
ruolo sociale (4). Tuttavia, ad onore del vero, va rilevato che la posta in
gioco in un tal genere di polemica è il controllo in chiave egemonica del
capitale simbolico che è costituito dal discorso religioso. E,
conseguentemente, il potere che da esso ne deriva. Fin troppo ovvio che le
prelature e le ierocrazie dei culti cristiani maggioritari vedano l’affermarsi
di una denominazione diversa dalla propria come una minaccia e che la
fronteggino anche attraverso atteggiamenti delegittimanti. Più che di
concorrenzialità teologica si deve qui parlare di lotta per la riaffermazione
della propria centralità istituzionale, percepita come a rischio in ragione
dell’altrui presenza. I testimoni di Geova non sfuggono a questa stringente
dialettica fungendo da competitori nei confronti delle chiese dominanti. Ad
essi, quindi, è fatto divieto dai detrattori di manifestarsi con la loro
propria storia.
Si rilegga con attenzione il passo di Blandre: viene riconosciuta la realtà
delle persecuzioni ma, secondo un vecchio cliché in uso in tante circostanze, se ne imputa la responsabilità
alle vittime, e neanche troppo indirettamente. Una sorta di cortocircuito
interpretativo che si innesca ogni qualvolta, non potendo negare l’evidenza
dei fatti, si ascrive la loro origine alla condotta di chi ha subito le
vessazioni delle circostanze. Nel caso della deportazione dei Bibelforscher, vi
sarebbe quindi una implicita colpa da parte di questi ultimi nella misura in cui
non accettarono le imposizioni del regime nazista, prima fra tutte quella di
sciogliersi come Congregazione. In sostanza si attribuisce ad essi la
“provocazione” di aver continuato ad esistere, capovolgendo il rapporto
causa-effetto: è così la vittima a portare
il fardello morale della persecuzione poiché, continuando a manifestare la sua
soggettività, dà “ragione” al suo oppressore nelle scelte liberticide che
quest’ultimo pratica.
b) La storia delle
persecuzioni è vissuta e narrata, nelle sue innumerevoli trasposizioni, come storia
collettiva. L’approccio che la storiografia, così come lo stesso senso
comune, offrono alla questione privilegia ciò che accomuna gli appartenenti ad
un gruppo, fatto oggetto di pratiche vessatorie, rispetto a quegli approcci che
vertono sulla soggettività. Questo genere di storia risulta più intelligibile
se costruita su macrocategorie. Solo nel corso degli ultimi vent’anni si è
preso in considerazione l’aspetto individuale di quelle vicende. Poiché, a
ben vedere, a subire gli effetti delle deportazioni non erano tanto i membri di
più collettività ostili al nuovo ordine hitleriano – e come tali spesso
esistenti solo nell’immaginario dei nazisti - quanto singoli individui, di
volta in volta qualificati come ebrei, politici, slavi, omosessuali e così via.
E se l’ascrizione ad ognuna di queste categorie non era secondaria rispetto al
destino di coloro che venivano internati, in quanto per ognuno d’essi le
probabilità di sopravvivere e, correlativamente, di morire, mutavano ed in
proporzione rilevante in base al gruppo d’appartenenza, rimane il fatto che i
destinatari delle misure oppressive erano donne e uomini nella loro singolarità,
al di là della categoria nella quale erano inquadrati al momento
dell’ingresso nel lager. Nel caso della repressione del culto dei testimoni di
Geova manca ancora del tutto non solo la
storia comune ma anche la raccolta delle
memorie individuali dell’esperienza concentrazionaria (5). A pesare in tal
senso è il giudizio nettamente ideologico che viene formulato sul gruppo in
quanto tale, fonte di contrastati sentimenti alla luce dei quali orientare le
valutazioni anche su quel passato che lo stesso ha condiviso insieme ad altre
categorie di perseguitati e, con esso, sulle storie dei suoi aderenti fatti
oggetto delle violenze dei regimi nazista e fascista. La vicenda della
deportazione dei triangoli viola non è incorporata nella storia comune (6)
poiché il passato di dolore è letto alla luce del presente, inficiato ed
offuscato dalle persistenti polemiche dei giorni nostri. In questo modo, alla
scarsa propensione propria al gruppo stesso di raccontarsi si somma il biasimo o
comunque la diffidenza di quei non pochi che ad esso sono esterni, generando una
strategia dell’oblio che è
funzionale alla negazione di un diritto
alla memoria che invece dovrebbe essere parte costitutiva della identità
della Congregazione, come dei suoi membri, ma anche della comunità umana in
quanto tale.
c) Per i testimoni di Geova
si pone tuttavia un problema di fondo, non facilmente risolvibile: quale deve
essere il rapporto con la storia in quanto tale, non solo la propria. Una
costruzione teologica che privilegia l’escatologia finalistica e avventista,
consegnando il rapporto con la sfera del politico ad una benigna neutralità, li
condanna inevitabilmente a doversi misurare, senza opportuni strumenti di
difesa, con le ostilità che quest’ultimo può manifestare in determinati
frangenti storici. Il caso del comportamento degli “studenti biblici”
tedeschi negli anni trenta è emblematico: dopo un tentativo di ribadire che le
proprie ragioni non erano necessariamente in contrasto con gli interessi del
regime furono costretti dall’operato di quest’ultimo ad assumere una
posizione ufficiale – la Convenzione di
Lucerna del 1936 - che di fatto comportava una precisa presa di posizione
dagli immediati riflessi politici. E se il successivo comportamento dei
Bibelforscher non può essere letto ed interpretato come episodio a sé nel più
generale fenomeno delle Resistenze politiche all’oppressione nazifascista
operante in Europa, tuttavia di una forma di opposizione pur si trattò, sia
pure dai connotati civili, in quanto
fondata sull’avversione, religiosamente motivata, ad un sistema che veniva
considerato come empio e satanico. In questo modo la propensione ad astenersi
dall’esercizio del giudizio sull’altrui operato mondano veniva temperato
dalla necessità di confrontarsi con l’incalzare degli eventi. Ci si può
sottrarre ad alcune prescrizioni del potere, non alla storia in quanto prodotto
dell’agire umano. Quel che rileva ai fini del discorso che si va facendo non
è una presunta contraddizione teologica – si è già detto che non è materia
di queste riflessioni – quanto l’analisi dell’evoluzione dei fatti che,
nella loro inesorabilità, chiamano le persone a delle scelte e ad atti di
responsabilità le cui ricadute si misurarono non solo tra i membri della
comunità religiosa ma anche sulla società circostante. Ciò, tuttavia, rende
ancor più dolorosa l’indifferenza con la quale questa ripagò quanti
sacrificarono la propria vita per l’affermazione di una identità morale e
spirituale.
d) Come si parla di uomini e
donne deportati così si deve parlare di deportazioni al plurale, tante quante sono le persone che subirono
questo triste destino. All’interno del circuito dei campi di concentramento
furono raccolti milioni di individui delle più diverse origini e per i più
disparati motivi. Il dramma che coinvolse ognuno d’essi, ancorché connotato
da una radice unica, quella delle politiche d’oppressione e sterminio naziste
e fasciste, va identificato ed indagato con assoluto rispetto, evitando la
costruzione di gerarchie tra sofferenze e dolori, poiché moralmente sono alla
pari quelle vissute dagli uni così come quelle degli altri. Sempre e comunque
si ha a che fare con corpi offesi, donne, uomini, anziani, giovanissimi
sottratti al loro focolare domestico, ai loro affetti, alla loro quotidianità.
Non può essere usata in maniera strumentale, per legittimare primazie di certi
deportati su altri, la consapevolezza che i trattamenti riservati dai carnefici
alle loro vittime potevano variare sulla scorta del gruppo di appartenenza di
queste ultime. E se è senz’altro vero, come peraltro già si è detto, che la
probabilità di sopravvivere all’interno di un lager per un deportato razziale
si approssimavano allo zero mentre erano decisamente più alte per un testimone
di Geova o un “asociale”, ciò non può costituire ragione per un giudizio
di valore aprioristico che reputi come degna di considerazione morale solo la
prima esperienza e non la seconda. Il concetto che deve diventare predominante
rispetto a qualsiasi altra considerazione è che furono degli europei
ad essere fatti oggetto di violazioni inaudite e inconcepibili. E ad
esercitare tale violenza, totale, su nude vite, indifese, fu un potere terreno,
mondano. Insomma, non di un progetto luciferino di trattò ma dell’operato,
osceno, di un gruppo di individui che, con il consenso passivo di certuni e
l’indifferenza di altri, si adoperò per sconvolgere non solo politicamente ma
anche e soprattutto eticamente e demograficamente l’Europa.
Intollerabile, per questi signori, padroni assoluti dall’esistenza altrui, la
permanenza di qualsiasi forma di presenza umana non conforme ai dettami
dell’ideologia totalitaria dalla quale traevano ispirazione. I testimoni di
Geova erano considerati un’eresia morale e politica, a partire dal loro
professato pacifismo, dal rifiuto di riconoscere in Hitler qualità che non
fossero quelle proprie ad un leader politico, dalla costanza del loro credo
anche in condizioni avverse. Chi si comportò con rettitudine e in coerenza con
i propri principi morali - quando questi sono ispirati da quello che dovrebbe
essere un comune anelito all’umanitarismo e alla reciprocità – merita il
rispetto della collettività. Non si tratta di esprimere un assenso o un
dissenso religioso alla Congregazione in quanto tale – questione che perviene
ad un altro ordine di considerazioni, del tutto soggettive – bensì di capire
che le vicende dei suoi membri, tanto più nei momenti del dolore e della
sofferenza, appartiene ad ognuno di noi, storia di uomini e donne tra altri
uomini e donne.
Siamo ancora lontani
dall’avere fatta nostra tale consapevolezza. Ed è anche per questo che la
storia dell’internamento dei “triangoli viola” ci pare oscura e non
indagata. E’ora di muoversi altrimenti, verso un orizzonte prospettico che
includa questi fattori, senza condizionarne la loro assunzione a valutazioni
estranee ai dati di fatto.
2. La natura dell’oppressione
Quali erano i caratteri
dell’oppressione fascista in Italia e nazista in Germania
contro i testimoni di Geova? In questa seconda parte dell’articolo se
ne richiameranno, in forma del tutto sommaria, gli aspetti più significativi,
rimandando ad altri momenti e ad ulteriori occasioni opportune riflessioni, più
argomentate. Vanno distinte le esperienze che i membri di tale Congregazione
fecero dei due regimi, senz’altro entrambi dispotici e vocati
all’oppressione delle minoranze, religiose o non che fossero, ma secondo
criteri ed intensità differenti. Inoltre non può essere dimenticata la diversa
consistenza dei due insediamenti: nel caso tedesco si parla di non meno di
ventimila aderenti al culto; in Italia la cifra non superò mai la soglia dei
duecento. Anticipando le conclusioni si può fin da ora affermare che se nel
Terzo Reich il destino inesorabilmente assegnato a quanti non si conformavano ai
dettami del potere comportò, nel volgere di poco tempo, la reclusione a tempo
indeterminato in un campo di concentramento e la eventuale soppressione fisica (7), nell’Italia mussoliniana le misure adottate furono in un primo tempo
dissuasive – cioè volte a far desistere con l’intimidazione i membri della
Congregazione dal proseguire nell’esercizio delle loro pratiche - e solo
successivamente detentive (8). Sia nell’uno come nell’altro caso, tuttavia,
le prassi discriminatorie prima, vessatorie e persecutorie poi, seguirono un
percorso di radicalizzazione al quale
non erano estranei fattori come l’approssimarsi della guerra e il parallelo
inasprirsi delle politiche sociali interne ai due regimi. Da questo punto di
vista il destino dei testimoni di Geova segue la tendenza dominante adottata nei
confronti di quelle categorie considerate come composte da outsider sociali e
razziali o costituite da avversari politici (9). L’avversione dei due regimi
verso la Congregazione cristiana segue cioè l’andamento più generale, di
passo in passo sempre più rigido, adottato anche per altre figure invise al
potere. Pur non uniformandosi in tutto e per tutto ad esse, la storia delle
persecuzioni subita da questa non può quindi essere disgiunta dall’analisi
del capitolo più ampio della repressione poliziesca come strumento di governo
all’interno di società la cui matrice politica è autoritaria o addirittura
totalitaria.
Detto ciò non va dimenticato che i testimoni di Geova furono
l’unico gruppo religioso che si oppose attivamente e sistematicamente al
nazismo. Come tali furono fatti oggetto di costanti vessazioni e deportati
in virtù della loro appartenenza – peraltro mai negata dai singoli aderenti
– alla denominazione. Nei campi di concentramento furono il solo gruppo
religioso ad essere identificato con un apposito segno di riconoscimento, il triangolo
viola, e sottoposti al durissimo regime d’internamento che costò la vita
ad almeno duemila di essi. Peraltro, gli sforzi compiuti dalle autorità per
eliminare tale culto fallirono. Nella Germania di Hitler i testimoni di Geova,
malgrado i rischi che tale atteggiamento comportava, proseguirono nell’opera
di proselitismo. La diffusione delle opere e dei documenti della Congregazione,
nel corso del tempo sempre più caratterizzati per la palese avversione al
nazismo, proseguì per vie clandestine anche negli anni più bui della storia
tedesca (9). Più
analiticamente, per cogliere la natura dell’oppressione della quale andiamo
occupandoci, esercitata in Italia come in Germania, vanno considerati due
fenomeni specifici:
a)
la presenza nel nostro paese di un culto ufficiale, quello della chiesa
romana, riconosciuto dal regime come legittimo interlocutore istituzionale e
cofirmatario, nel 1929, di un concordato in virtù del quale gli veniva
attribuito un monopolio di fatto per tutto quanto concerneva le questioni
relative alle pratiche religiose e all’identità spirituale degli italiani.
Con la fine degli anni trenta e con l’adozione delle leggi razziali
l’accostamento tra la cosiddetta variante latina della “razza” ariana e il
cattolicesimo divenne prassi condivisa. Da queste premesse derivarono nel corso
del tempo due effetti: un’accentuazione delle persecuzioni antiprotestanti e
la definizione dei culti minoritari come espressioni dell’ “imbastardimento
e del meticciato razziale”. Nella Germania di Hitler, invece, il cattolicesimo
coesisteva con il protestantesimo in una condizione di precaria sospensione (10). Il regime, fortemente pagano, avrebbe probabilmente regolato i conti con
le due chiese a guerra finita. Sta di fatto che nessun altro culto era ammesso.
b)
l’azione del fascismo e del nazismo contro tutti i gruppi non
omologati. Quando l’opera di cooptazione ed omologazione all’interno delle
strutture dei due regimi risultava impossibile, questi ultimi procedevano alla
distruzione delle entità indipendenti. In Italia sopravvisse a tale azzeramento
solo l’Azione Cattolica, salvaguardata nelle sue prerogative dal concordato.
In Germania tutte le organizzazioni vennero nazificate, nessuna esclusa. Il che
comportava l’annullamento di ogni autonomia organizzativa, decisionale e
morale, la distruzione delle leadership indipendenti, l’assoggettamento alla
volontà dei nuovi signori o, in alternativa, l’eliminazione del gruppo
identificato come nemico o alieno.
Questi
elementi di cornice vanno poi interpolati con sei
elementi che concorsero nella definizione dei testimoni di Geova come
avversari dei nuovi poteri:
a)
la propensione della Congregazione al proselitismo diffuso,
all’espansione delle sue strutture, alla diffusione del suo credo,
all’evangelizzazione in pubblico e alla predicazione di massa, di contro al
comportamento più “trattenuto” degli altri culti (le cosiddette
“conversioni domestiche”);
b)
l’uso abituale come strumento di informazione, collegamento e
proselitismo della carta stampata (libri, opuscoli, volantini), in parte
prodotta all’estero: il ricorso a questi mezzi rompeva l’egemonia
comunicativa e creava una breccia nel sistema di propaganda dei poteri
totalitari;
c)
l’immediata esplicitazione della propria neutralità politica che in
Germania si estrinsecò nella Dichiarazione
dei fatti del 1933. Lungi dal costituire una garanzia per il regime, semmai
inquietò ancor di più i suoi esponenti, decisi a non concedere requie a coloro
che in questo modo riaffermavano la volontà di continuare ad esistere come
entità indipendente. Inoltre l’apoliticità era intesa non come attenuante ma
semmai come aggravante: il fondamento morale e spirituale della propria
posizione segnalava l’inconciliabilità con il totalitarismo
razziale e antropologico, prima ancora che politico, al quale si informava
il nazionalsocialismo come ideologia. La successiva Convenzione di Lucerna del 1936 segnò il passaggio
all’opposizione dichiarata e, con essa, il destino dei membri della minoranza
religiosa;
d)
l’esistenza di un network organizzativo internazionale, con sede negli
Stati Uniti (prima a Pittsburgh poi a Brooklyn) che rendeva sospetti agli occhi
dei due regimi la presenza di quello che avvertivano come un “corpo
estraneo”, potenziale strumento di penetrazione per parte straniera;
e)
il pacifismo e l’antibellicismo programmatici, inconciliabili con lo
spirito militaresco e la vocazione guerrafondaia del nazismo e del fascismo;
f)
la natura intrinsecamente ideologica del conflitto che immediatamente si
avviò con il regime nazista: il fatto che fosse totalitario, ovverosia che non
tollerasse forma alcuna di opposizione cercando di sovrapporre la sua volontà a
quella non solo della società politica ma anche civile, comportò per parte di
Hitler il tentativo di fare del nazionalsocialismo una “religione politica”. Il conflitto con la cristianità era quindi
nell’ordine delle cose. “I nazisti non
avevano intenzione in definitiva di tollerare nessun sistema rivale, politico o
religioso…Le opinioni religiose che erano inaccettabili per i nazisti erano
identificate costantemente come politicamente sovversive. Come quei preti
cattolici che avevano protestato dai loro pulpiti per il programma di eutanasia
erano perseguitati per ‘cattolicesimo politico’, così i membri delle sette,
negli insegnamenti sulla fine del mondo potevano essere visti come ‘anarchici
e bolscevichi’. All’interno dello stato nazionalsocialista ogni questione
diventava politica, per cui ogni gruppo di persone che rigettava le differenze
razziali e credeva che il sistema di cose politico fosse condannato in senso
escatologico diventavano nemici politici” (11).
In
Italia, nell’avviare e nel realizzare le persecuzioni, peraltro minuziosissime
e decisamente sproporzionate rispetto alla dimensione dell’insediamento dei
testimoni di Geova autoctoni, la cui presenza sociale era marginale se non
prossima alla più assoluta residualità, concorsero due soggetti istituzionali:
il regime mussoliniano, da un lato, e la chiesa cattolica dall’altro. Si può
affermare che lo sforzo in tal senso venne, se non concertato, di certo prodotto
dall’incontro di due volontà ostili, preesistenti alla loro fusione in un
unico intendimento che divenne politica ufficiale. E a tal riguardo entrambi
dovettero confrontarsi con un problema di fondo, ovvero l’identificazione e
la definizione della natura del “geovismo”, erroneamente
attribuito al campo dei culti protestanti. Di volta in volta i membri della
Congregazione erano considerati evangelici, pentecostali o avventisti. In altri
casi si propendeva, soprattutto per parte politica, all’attribuzione agli
stessi di intendimenti ideologici – di radice marxistica – che sarebbero
stati abilmente contraffatti sotto la copertura del discorso religioso. Le
predicazione dell’egualitarismo e dell’antimilitarismo, l’opzione di
diffondere le proprie parole tra persone umili e semplici, lo sforzo di
garantire la costanza e la capillarità nell’impegno di evangelizzazione erano
visti con profondo sospetto dalla autorità che ritenevano che dietro queste
parole potesse celarsi il progetto, per parte socialcomunista, di tornare in
auge dopo la sconfitta subita tra il 1922 e il 1926. In più queste osservavano
con profonda preoccupazione i legami internazionali e l’origine statunitense
della denominazione.
In
verità, al di là delle ipotesi avanzate dagli apparati repressivi (non a caso
fu l’Ovra, l’Opera Volontaria per la Repressione dell’Antifascismo, la
polizia politica per eccellenza del regime, ad essere incaricata di curarsi
dell’ “estirpazione della mala pianta
del geovismo”) che propendevano per un’interpretazione estremamente
radicale e allarmista del ruolo di questa minoranza religiosa, il piccolissimo
ed instabile nucleo di adepti, a causa dello stesso dominio clerico-fascista,
era impossibilitato a ricevere sistematiche direttive spirituali da un organismo
centrale che, a livello nazionale, neanche esisteva e che a livello
internazionale, se si fa l’eccezione della Svizzera, era impedito in
qualsivoglia comunicazione che non fosse occasionale con i confratelli
peninsulari. In Italia, contrariamente alla Germania, si era in presenza di
piccole aggregazioni del tutto prive di stabilità organizzativa e, talvolta,
anche di una chiara comprensione in campo dottrinale (13). L’azione repressiva
costringeva i praticanti ad operare in un ambiente ostile, avversati dal clero
cattolico e fatti oggetto di delazioni e denunce. I siti dove avvenivano le
occasionali riunioni erano quasi sempre luoghi di fortuna, perlopiù in
campagna. Le attività svolte aderivano, inevitabilmente, ai cliché propri alla
clandestinità.
L’esercizio
repressivo per espletarsi seguì, almeno in un primo periodo, i percorsi
tortuosi della diffusione delle pubblicazioni della Congregazione. In questo
modo la polizia fascista riuscì a ricostruire luoghi, figure e recapiti del
piccolo nucleo di fedeli. Se i Carabinieri Reali e le autorità di Pubblica
Sicurezza per un certo lasso di tempo si impegnarono a sospendere gli incontri,
laddove questi si verificano, e a diffidare i partecipanti dal continuare a
parteciparvi, successivamente l’Ovra, su richiesta delle massime autorità del
regime, adottò criteri più rigidi, addivenendo ad una repressione sistematica
e spietata. Quest’ultima, come già si è detto, seguì nel corso degli anni
il processo di radicalizzazione che Mussolini e il suo entourage politico
impressero alla politica italiana, all’esterno come all’interno del paese.
Nel marzo del 1932 Il Popolo d’Italia,
organo del Partito Nazionale Fascista, pubblicò un articolo su “Il regno di Geova” dove si conferiva all’organizzazione mondiale
dei testimoni di Geova e alla sua colonia italiana una connotazione “giudaica”,
un fine “bolscevico” e una “stretta
alleanza” con “l’alta banca
giudaica germanica-americana”. La funzione di queste attribuzioni negative
era quella di screditare il gruppo religioso, preparando il terreno per futuri
atti di forza. Parimenti il cardinale Ildefonso Schuster si pronunciò contro
quella che definiva la “libera
propaganda dei protestanti”, rinnovando così l’equivoco che era a monte
del giudizio sulla collocazione della Congregazione ma rivelando anche
l’intendimento di concorrere, insieme al regime, alla sua repressione totale e
definitiva.
Intendimento
che trova nel 1934 la sua coerente attuazione quando il fascismo dichiara
insostenibile e controproducente l’esistenza di una religione altra che non
sia la cattolica romana apostolica. Il principio sotteso era quello di
proclamare l’unitarietà di quanto presto sarebbe stato definito come la
variante latina della razza ariana: un capo, un popolo, una nazione ed una
sola religione. A partire dalla metà degli anni trenta il proselitismo
praticato dai testimoni di Geova da problema affidato al controllo e alla
repressione delle questure diventa un attentato
contro l’integrità della nazione italiana. E nel 1935 il Ministero degli
Interni ordina con una circolare di mettere al bando le “associazioni
pentecostali” tra cui sono annoverati gli stessi testimoni.
Nel frattempo il clima in Europa andava surriscaldandosi. E’ di quegli anni l’ascesa al potere e il consolidamento in regime del nazismo che procede fin da subito all’aggressione contro quelli che considera i suoi nemici. La cronologia degli avvenimenti ci segnala il susseguirsi, in un moto sempre più accelerato, di gesti ed eventi che travolgono la Congregazione. In Germania le camicie brune nell’agosto del 1933 bruciano le pubblicazioni della Watch Tower mentre nel novembre dello stesso anno molti aderenti al culto vengono arrestati o comunque licenziati dai posti di lavoro per non aver partecipato alle elezioni (il voto, plebiscitario, era divenuto obbligatorio). Nell’aprile del 1935 i testimoni di Geova vengono radiati dalle pubbliche amministrazioni tedesche. Sono inoltre privati del diritto alla pensione e delle tutele assistenziali comunemente riconosciute ai loro concittadini. Il matrimonio con un congiunto aderente alla denominazione può essere causa sufficiente per chiederne l’annullamento mentre i figli, esclusi dalle scuole, in alcuni casi (almeno ottocento saranno certificati a guerra conclusa) vengono sottratti ai genitori ed assegnati d’ufficio a famiglie “ideologicamente sane”. La via dell’emarginazione sociale viene perseguita dal Terzo Reich come premessa al successivo giro di vite che si attua nell’agosto del 1936, quando un’ondata di arresti si abbatte massicciamente sui membri della Congregazione, perlopiù immediatamente avviati ai costituendi lager. Alcuni d’essi vi rimarranno internati fino alla fine della seconda guerra mondiale, scontando, insieme ai politici, il più lungo periodo di detenzione registrato tra quanti vi furono deportati. Nel 1937, con l’apertura del campo di Buchenwald, viene istituito il “triangolo viola”, il simbolo di riconoscimento per coloro che sono detenuti in ragione della loro appartenenza alla Congregazione cristiana dei testimoni di Geova. Su ventimila aderenti più di seimila sono già stati privati delle loro libertà personali. Il 22 di aprile dello stesso anno, con un atto amministrativo, la Gestapo ottiene l’incarico di riarrestare tutti i congregazionisti che vengano liberati dalla magistratura, inviandoli immediatamente nei campi di concentramento. Da quel momento la loro sorte è definitivamente segnata. E con essa quella della denominazione. Le porte dei lager si chiudono alle spalle di queste persone (14).
In
Italia, con lo svolgersi delle campagne coloniali e l’approssimarsi della
guerra, i pochi adepti al culto sono fatti oggetto di una intensa campagna di
repressione. Accusati di attività antifascista e di condotta
antinazionale vengono arrestati arbitrariamente e detenuti, spesso senza
condanna. Il semplice possesso di quella che era considerata “letteratura
proibita” (ad esempio un volantino della Congregazione) costituiva ragione
sufficiente per essere tradotti nelle regie galere o internati al confino in
sperduti paesini dell’Italia meridionale.
L’acme
delle persecuzioni si registra tra il settembre ed il dicembre del 1939 quando,
nel corso di quella che verrà poi definita la “grande retata”, l’Ovra,
con il concorso delle autorità di pubblica sicurezza, interroga 300 persone, ne
arresta 150 e ne deferisce 26 al Tribunale Speciale. Di fatto la denominazione
non esiste più e dovrà attendere il 1946 per riprendersi da quella che fu
un’opera di annientamento morale ma anche e soprattutto fisico.
Note
1.
Si adotta il criterio, in uso nella denominazione, di considerare la
parola “testimone” come
nome comune e non proprio, quindi con l’iniziale minuscola. Ciò permette ai
suoi aderenti di identificarsi, in quanto testimoni di Dio, con quanti essi
considerano loro predecessori, a partire dalle figure dell’Antico Testamento.
2.
Bernard Blandre, La
storia dei Testimoni di Geova, San Paolo Edizioni, Milano 1995 pag. 65.
L’autore, a sostegno di tale tesi, si richiama al volume di William J. Schell,
Trent’anni schiavo della Torre di
Guardia, Edizioni Centro Biblico, Napoli 1983. Sulla falsariga si vedano
anche di Achille Aveta e Sergio Pollina, I
testimoni di Geova e la politica. Martiri o opportunisti?, Edizioni
Dehoniane, Roma 1990, I testimoni di Geova tra mito e realtà. Vittime o artefici
dell’intolleranza religiosa?, Centro Grafico Meridionale, Foggia 1991 e,
sempre del primo, I testimoni di Geova.
Un’ideologia che logora, Edizioni Dehoniane, Roma 1990.
3.
Si veda al riguardo
le pubblicazioni del G.R.I.S., dove ad affermazioni del tutto condivisibili si
alternano, in misura spesso assai sottile, dichiarazioni avverse a tutti i culti
e alle pratiche non cattoliche.
4.
Su questo aspetto si veda Peter Novick, The
Holocaust in American Life, Mariner
Books-Houghton Mifflin Company, 2001.
5.
Un primo segno in controtendenza è il fascicoletto editato dall’United
States Holocaust Memorial Museum dedicato alle persecuzioni naziste contro i
testimoni di Geova. La ricercatrice che più si è impegnata nello studio del
comportamento della Congregazione nella Germania di Hitler è Christine
Elisabeth King autrice di The Nazi State
and the New Religions: Five Case Studies in Non-Conformity, vol. 4 della
collana Studies in Relion and Society, Edwin
Mellen Press, New York 1984 e di Jehovah’s
Witnesses under Nazism pubblicato nell’opera collettanea curata da Michael
Berenbaum, A mosaic of Victims: Non-Jews Persecuted and Murdered by the Nazis,
New York University Press, New York 1990.
6.
Tra le tante opere sulla
deportazione uscite anche in tempi recenti ne fa invece apposita menzione, con
un capitoletto a sé, il volume a taglio didattico di Jean-Michel Lecomte, La storia dell’olocausto, Sapere 2000 edizioni, Milano 2002 che
dedica alcune pagine a Le persecuzioni dei
Testimoni di Geova.
7.
Sull’atteggiamento del nazionalsocialismo verso gli “studenti della
Bibbia” si segnalano alcuni recenti lavori. In lingua italiana si può
consultare di Sylvie Graffare e Léo Tristan, I
Bibelforscher e il nazismo (1933-1945), Editions Tiresias-Michel Reynaud,
Pagini 1994; in francese di G. Canonici, Les
Témoins de Jehovas face à Hitler, Albin Michel, Paris 1998; in tedesco di
Detlef Garbe, Zwischen Widerstand un
Martyrium. Die Zeugen Jehovas im “Dritten Reich”, Oldenbourg, Muenchen
1997; in inglese il lavoro collettivo Persecution and Resistance of
Jehovah’s Witnesses during the Nazi Regime 1933-1945, Temmen Edizioni,
Bremen 2001.
8.
Su questi ed altri aspetti delle politiche fasciste verso i “culti
ammessi” e minori si veda la ricerca di Giorgio Rochat, Regime fascista e chiese evangeliche. Direttive e articolazioni del
controllo e della detenzione, Claudiana, Torino 1990 dove un intero capitolo
è dedicato ai testimoni di Geova. Sulla Congregazione molto documentati sono i
lavori di Paolo Piccioli, I testimoni di Geova durante il regime fascista in Studi
Storici, anno 41, numero 1, gennaio-marzo 2000 e di Matteo Pierro, Fra
martirio e resistenza. La persecuzione nazista e fascista dei testimoni di Geova,
Editrice Actac, Como 2002. Più in generale, come opera collettanea, si segnala
anche il volume Minoranze, coscienza e
dovere della memoria, Jovene Editore, Napoli 2001. Da evidenziare, inoltre,
l’opera di Mimmo Franzinelli su I
tentacoli dell’Ovra, Bollati Boringhieri, Torino 1999 ed ulteriori
edizioni, interamente incentrata sullo studio della polizia politica fascista
impegnata nella repressione di quanti erano reputati avversari del regime.
9.
A tal riguardo si consiglia la lettura del volume di Robert Gellately e
Nathan Stoltzfus, Social Outsiders in Nazi
Germany, Princeton University Press, Princeton 2001.
10.
Una sintesi della vicenda della Congregazione è offerta dall’ Encyclopedia of The Holocaust, 1990 al secondo volume alla voce Jehovah’s
Witnesses.
11.
Su questo punto il classico lavoro di Guenter Lewy, I nazisti e la chiesa cattolica,
il Saggiatore, Milano 1965
12.
Christine
Elisabeth King, The Nazi State and… Cap.
7 Alcune conclusioni, traduzione
italiana in corso di realizzazione.
13.
Su questo punto ancora Paolo Piccioli, op.cit.
14.
Sull’internamento
nei lager dei testimoni di Geova, oltre alle opere già citate, si segnalano di
Erhard Klein, Jehovas
Zeugen im KZ Dachau,
Muenchen 2001e di Hans von Hesse e Juergen Harder, “…und
wenn ich lebenslang in einem KZ bleiben muesste…”,
Klartext Verlag, Essen 2001.
Claudio
Vercelli
Claudio
Vercelli, storico e pubblicista, è ricercatore presso l’Istituto di studi
storici Salvemini di Torino dove coordina il progetto di ricerca e formazione
sugli “Usi della storia, usi della memoria”. Ritorna
Vedi
anche: "Politica e pregiudizio nazista nei confronti delle minoranze. Alcuni spunti di riflessione"
di Claudio Vercelli
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