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Il Santuario
di S. Antonio Abate

 

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L'incendio di Sant'Antonio
Valfurva (Lombardia)

 

Nel racconto dello spaventoso incendio che distrusse il 10 aprile 1899 il piccolo centro abitato di Sant’Antonio Valfurva non si può non cogliere la grande devozione della popolazione del tempo che, confidando nella   protezione  del Santo, cercò di salvare i propri beni ammassandoli nella chiesa a lui dedicata.

 

“… Uno spettacolo dantescamente infernale: il terrore della popolazione, gli ululi di spavento, il crepitar delle fiamme, il fragor delle ruine, il muggir del bestiame impaurito, le urla, le imprecazioni… e nel mezzo della diabolica fornace, dall’alto del campanile circondato dalle fiamme, la campana che da sola suonava a distesa, quasi ad implorare dal cielo quell’aiuto che ormai dagli uomini era vano sperare: 80 case che bruciavano insieme!
Né cessò di suonare se non quando, sentinella vittima della consegna, le fiamme aspirate lungo la tromba del campanile dalla violenta colonna d’ora (che la faceva follemente ondulare) invasero da ultimo anche la cella campanaria: cadde semifusa con uno schianto lamentoso che parve l’ultimo gemito d’agonia del paese che moriva…”
Così descriveva lo spaventoso incendio di Sant’Antonio Valfurva del 10 aprile 1899 il dotto. Italo Pedrazzini, per decenni medico condotto della Valfurva.
Verso le ore 16 di lunedì 10 aprile 1899 nella frazione di Sant’Antonio scoppiò l’incendio che la distrusse completamente in 3 o 4 ore. Delle circa 80 case che componevano il paese, quasi tutte di legno addossate le une alle altre, solo 5 poterono salvarsi. Le fiamme si svilupparono nella casa degli eredi Manciana fu Giuseppe, posta al centro della frazione, e si propagarono con rapidità a tutto il borgo, favorite da un forte vento.
Non appena si ebbe indizio dell’incendio, le poche donne che si trovavano ad accudire alle faccende domestiche, si diedero a chiamare gli uomini e le altre donne che erano nei ampi e nei pascoli, che cominciavano a verdeggiare fra le nevi fondenti. Le fiamme passavano da un fienile all’altro, come disse il curato, “come grosse ondate di un torrente furioso”.
La povera gente attonita cominciò a raccogliere le cose più care e a portarle nella Chiesa sperando che là, sotto la protezione di S. Antonio, si potessero salvare. Ma le fiamme divoratrici in poco più di un’ora investirono il tetto di legno della chiesa, arsero tutte le povere masserizie accumulate nell’interno e carbonizzarono persino la statua del Santo. Il campanile si tramutò in un camino che aspirava le fiamme dell’immenso braciere: il vortice prodottosi faceva suonare le campane che alla fine caddero con grande fragore. Si riuscirono a salvare solamente alcuni paramenti ed arredi sacri; l’attiguo ossario fu in parte risparmiato insieme al crocifisso.
Le bestie, cacciate in gran fretta dalle stalle già in preda alle fiamme, volevano farvi ritorno e solo a viva forza si riuscì a tenerle lontane. Alcune pecore, suini e galline, perirono tra le fiamme.
Come tentativo di limitare l’incendio al primo nucleo di case in cui scoppiò, si usò dapprima una piccola pompa di proprietà comunale. Poi, avvertiti dai rintocchi delle campane, accorsero in molti dalla frazioni vicine e da Bormio. Pompieri , guardie forestali, carabinieri, guardie di finanza cercarono con ardimento e coraggio di domare l’incendio, ma sventuratamente senza risultato. Le pompe, se non a spegnere il fuoco, valsero a ritardare il rapido propagarsi delle fiamme, proteggendo così le persone che si affannavano ad asportare gli oggetti di maggior valore. Il Frodolfo, poverissimo d’acqua per la stagione, non bastava ad alimentare i mezzi dei pompieri di Bormio e Valfurva; persino il ponte che lo attraversava rimase bruciato.
Tutta la notte continuò la rischiosa opera di spegnimento, si lavorò in condizioni di grande pericolo, basti pensare che anche le macchine spegnincendio furono intaccate dalle fiamme. Purtroppo all’alba si presentava un quadro ben triste: solo 5 case si erano salvate.
Fortunatamente si ebbero solo due vittime: un giovane handicappato (Cola Lodovico, nato l’11 maggio 1877), che fu ritrovato in  casa carbonizzato ed una povera donna (Rezzola Virginia di Giuseppe fu Antonioli Maddalena, nato il 4 marzo 1839) che morì d’asfissia in una stalla dove si era spinta per salvare il maiale, unico suo patrimonio.
L’epilogo dell’immane disastro fu il seguente: 85 case, tutte non assicurate, totalmente distrutte; 87 famiglie, cioè 460 persone, senza tetto, senza derrate alimentari per sé e per il bestiame.
L’11 aprile di recarono sul luogo del disastro il Prefetto, il Capitano dei Carabinieri, il Giudice Istruttore del Tribunale, l’Ingegnere del Genio Civile provenienti da Sondrio e l’Arciprete, il Sindaco e la Giunta provenienti da Bormio. In questa occasione il Genio Civile stimò il danno in Lire 400.000. La sventura dei poveri danneggiati si aggravò con il persistere del maltempo (pioggia, neve e freddo) che contribuì ad aumentare il numero delle vittime: nei giorni successivi all’incendio morirono Rezzoli Prudenza di anni 27 ed Alessi Caterina di anni 64.
In data 8 maggio 1899 il Pretore, dopo aver svolto indagini sulla causa che diede luogo all’incendio del borgo, scrisse al Sindaco di Valfurva per avere ulteriori informazioni e per verificare la consistenza dell’accusa avanzata contro Manciana Marianna fu Giuseppe.
Il Sindaco così gli rispose: “da quanto si venne a cognizione e che si intese dalla voce pubblica, l’incendio si sarebbe sviluppato nella casa della Manciana Marianna fu Giuseppe. Dilatandosi nel suo fienili il fuoco ebbe poi a propagarsi nel fienile di Manciana Niccolò fu Giuseppe. Si racconta che la Manciana Marianna abbia fatto cuocere grasso o burro e poi per incuria siasi appiccato il fuoco, ma a questo riguardo non si poterono avere concrete notizie provate da testimonianze. Da alcuni è detto che la causa sia stata qualche scintilla caduta inavvertitamente nel fienile in mezzo al fieno e covone da qualche mezz’ora; d’altri che la Manciana avesse portato il recipiente del burro bollente nel fienile sull’astrico e vi avesse versato dell’acqua per spegnere il bollore onde si fosse avvampata la fiamma in atto, appiccando il fuoco alla paglia. Ma né dalla Manciana né dai vicini o primi accorsi, non si poterono per ora avere chiarimenti veri d’origine. Sta solo il fatto che la pubblica voce riversa a carico della Marianna l’origine della catastrofe avvenuta escludendo però il dolo”.
Secondo una credenza popolare la causa dell’incendio che devastò il paese furono le parole magiche pronunciate in un momento di disattenzione dalla “Kavala”, una contadina, durante la bollitura del latte per farlo cagliare. Con quelle essa fece accorrere i “Maghét”, ma “siccome la vecchietta, presa così alla sprovvista, non si ricordò più la parola necessaria per farli tornare indietro ai loro alloggiamenti metafisici, i folletti scatenati si buttarono alacremente sul paese, trasportando fiammelle dappertutto ed il paese bruciò in un solo colpo” (i Maghét sono spiritelli piccoli, rossi, dispettosi e crudeli che abitano sui monti e di lassù con una bacchettina magica muovono frane e temporali improvvisi, creano valanghe, distruggono ponti…).  

 

 

 

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