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Il Santuario
di S. Antonio Abate

 

I Costumi lucani

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Nel passato ogni piccolo e sperduto paese aveva un costume tradizionale, nel quale la comunità si riconosceva e con il quale sanciva le differenze sociali al suo interno.

Era attraverso l'abbigliamento «che il galantuomo si distingueva dal cafone, non solo; ma era proprio il tipo di abbigliamento che dava al singolo individuo, cafone o galantuomo che fosse, l'immediata percezione, a lui come agli altri, di non essere un isolato ma di appartenere a un gruppo più vasto e ben determinato della scala sociale: l'abbigliamento quindi era un vero e proprio linguaggio». Cosa che valeva sopratutto per il gli uomini, «viceversa, l'abbigliamento femminile non s'identificava così direttamente con simboli socio-economici o politici: ovvia conseguenza, in questo caso, della totale esclusione della donna lucana, quale che fosse il suo livello sociale, da ogni forma di attività pubblica e. da ogni tipo d'interesse politico. Non a caso la differenza tra cafone e galantuomo si rifletteva nel campo muliebre con una distinzione meno drastica tra pacchiana, ossia la donna appartenente alla media borghesia e al ceto artigianale, e contadina, cioè la donna di campagna e la bracciante. A questa minore "compromissione" dell'abbigliamento muliebre con le rigide distinzioni di classe vigenti nella società lucana faceva però riscontro una estrema varietà del costume, cioè del tipico vestito femminile, diverso da luogo a luogo e quindi meno riconducibile ad una foggia-tipo. Sicchè il costume, preziosa testimonianza per l'indagine folclorica in quanto espressione del ricco e articolato patrimonio demologico della Basilicata, ha minor rilievo per la storia sociale della regione nel secolo XIX se è vero quanto afferma un osservatore attento come il Riviello che il costume delle pacchiane e delle contadine era più o meno simile "variando solo nella finezza e nella qualità della robba, nel gusto di adornarsi meglio, e nell'incipiente voglia di novità"».
Ma se le donne del ceto medio, dell’aristocrazia rurale e le mogli degli artigiani, condividevano una foggia del vestire detta da "pacchiana", l'abito della contadina, era chiamato "bracciala". Anche tra i contadini era diffusa ovunque l’abitudine di arricchire il semplice abito quotidiano con capi o accessori più raffinati, ma poiché essi vivevano in condizioni di grave miseria gli abiti venivano indossati fino a quando non cadevano a brandelli.
Un particolare curioso è che, fino al Settecento, non venivano indossati indumenti intimi, che erano accessori usati solo da donne ed uomini di alto bordo. In compenso le gonne e le sottane erano assai numerose al fine di ricoprire le zone intime. Era in uso indossare, a seconda delle possibilità, più gonne sovrapposte che davano in tal modo volume ai fianchi, secondo un canone estetico che privilegiava l'opulenza e le forme procaci. 
Anche il seno veniva generosamente mostrato dalla scollatura ed era sostenuto da un cartone triangolare (la cosiddetta "bittigghi") leggermente incurvato e fissato, nella parte anteriore, dai lacci incrociati del corpetto. Un altro elemento costante del costume femminile era il ricamo. I corpetti, resi preziosi da sofisticati ricami, secondo l'influenza della moda francese che valorizzava il seno, erano scollati e coprivano quasi solamente il dorso ed erano allacciati da stringhe. In un'epoca che non conosceva l'uso dei bottoni, i lacci erano indispensabili per tenere insieme certe parti dell'abito.

A Grassano le donne del ceto basso, anche nel giorno del loro matrimonio, indossavano il costume da pacchiana oppure prendevano l’abito da sposa in prestito da parenti o amici benestanti. La caratteristica più notevole dell’abbigliamento   grassanese tradizionale era la cura prestata nella lavorazione e nella decorazione dell’abito femminile caratterizzato da ampie gonne.
Per quanto riguarda il costume grassanese, abbiamo una buona descrizione risalente al 1884 tratta da Descrizione delle vedute e degli stemmi con cenni storici delle città e paesi della Basilicata di Michele Lacava dove leggiamo che a Grassano l’uomo vestiva «con giacca, camiciuola e ghette di pannolana turchino scuro, calzoni corti di felpa nera» mentre la donna indossava «orecchini e collana, fazzoletto celeste al collo ed alle spalle, pettiera bleu, maniche verdastre, grembiale di seta nera, gonna bleu scura».
Ma all'inizio del '900 iniziò la rapida scomparsa del costume tradizionale in gran parte della Basilicata perchè, come scrive Annamaria Restaino in Mode & Modi dei Lucani, «tra la seconda metà del secolo scorso ed i primi decenni del nostro, vari fenomeni come la rivoluzione industriale, l'unificazione del regno, l'emigrazione interna ed esterna, contribuirono a modificare, radicalmente, il sistema di vita e le abitudini della popolazione.
L'abito certamente subì cambiamenti e modificazioni dettati dalla necessità di adeguarsi alle nuove e più complesse esigenze quotidiane.

In Basilicata, la scomparsa del costume popolare fu più rapida che altrove, non tanto per i mutamenti di tipo economico che di certo non coinvolgevano la stragrande parte della popolazione lucana, quanto piuttosto per l'assenza di una propria storia da imporre che avrebbe di sicuro favorito l'espressione e la conservazione di tradizioni e consuetudini. [...] La sorte del costume, fu segnata dal desiderio di novità che avanzava incontrastato tra gli esponenti del ceto medio, e, poiché, non si rinunciava all'usanza di farsi seppellire con l'abito delle nozze, le borghesi in questo modo, seppellirono definitivamente il costume vestendosi secondo i dettami della moda delle capitali . Rimasero solo popolani e contadini ad indossare gli abiti la cui foggia era rimasta pressoché invariata per molte generazioni, perché immutate erano le condizioni e le abitudini di vita della classe operaia. Ben presto quindi, quel che era l'abito di tutti divenne il vestito dei cafoni oggetto spesso di curiosità e dileggio.
La questione  fu definitivamente risolta dai cugini d'America che subito dopo la seconda guerra mondiale cominciarono a mandare in dono abiti e capi di biancheria usati che, acquistati da rigattieri, dopo essere stati lavati, venivano rivenduti per poche lire in tutti i mercati. La "robba" americana aveva liquidato la tradizione.
Da quel momento il nuovissimo, la modernità ebbero il sopravvento ed ai nostri giorni è rarissimo incontrare singoli che conservino gli abiti dei padri o centri di studio pubblici e privati che dimostrino sensibilità ed interesse verso la ricerca e la conservazione dei costumi lucani.
Tuttavia, se è vero come si afferma che la moda costituisce una parte della cultura ed in essa si rispecchia la vita di tutti i giorni, dovremmo ricominciare dal passato e di rivalorizzare le tracce di un percorso non del tutto cancellato utile alla ricostruzione di una identità collettiva».

 

Bibliografia consigliata sugli abiti lucani:

- Michele Lacava, Descrizione delle vedute e degli stemmi con cenni storici delle città e paesi della Basilicata, Napoli, 1884, pp.15.
- Annamaria Restaino, Mode e Modi dei Lucani, Appia 2 Editrice, Venosa, 1995.
- Calice, Lisanti, Russo, Sabia, Popolo Plebe e Giacobini: Napoli e la Basilicata nel 1799, Calice Editori, 1989.
- Il costume popolare, in Rassegna delle tradizioni popolari, n.1, 1999.
- Il costume popolare della Basilicata, in Rassegna delle tradizioni popolari, n.1, 1999.
- Costumi della Basilicata (sec. XVIII e XIX), a cura di Franco Sabia, ed. pianetalibroduemila, Possidente (PZ), 2000

 

 

 

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