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Il Santuario
di S. Antonio Abate

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Ritratti di Famiglia

A cura di Giuseppe Daraio, articoli già pubblicati su giornale parrocchiale Castello 7 dal 18 novembre 2001 al 23 dicembre 2001

Il Santo non è né un mestiere di pochi, né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. Qui troverete tratteggiate varie figure di santi che dimostrano invece come la santità non consista nel fatto che l'uomo dà tutto, ma nel fatto che il signore prende tutto.

 

PERPETUA, «Tutto posso in colui che mi dà forza»

Donna africana di personalità forte, vissuta nel II sec. d.C., conosciamo la storia della sua conversione e del suo martirio grazie a un prezioso documento, la Passio Perpetuae et Felicitatis, costituita dal suo diario di prigionia, che la tradizione vuole autografo, completato dal racconto della morte da attribuire forse all’Apologista Tertulliano.
Fu cittadina di Tuburbo, a quaranta chilometri ad occidente di Cartagine, e il padre, uno dei notabili della sua città, volle che ricevesse un’ottima educazione culturale. Sposò un uomo della nobiltà cittadina dal quale ebbe un bambino. Chiese di essere ammessa al Battesimo ma accadde che il gruppo dei catecumeni della Chiesa locale, l’intera "classe di catechismo" della quale Perpetua faceva parte, venisse arrestato e imprigionato insieme al proprio catechista, Saturo, che si autodenunciò per seguire la sorte dei catecumeni che gli erano stati affidati. In prigione i giovani aspiranti aggravarono la loro posizione accettando il Battesimo e furono trasferiti a Cartagine per essere giudicati dal Proconsole.
Era decisa a confessare la sua fede sino in fondo, accettando il martirio per amore ed imitazione di Cristo ma non era, ed il suo diario lo dimostra, una fondamentalista, fenomeno allora diffuso anche fra i Cristiani, basti pensare ai montanisti e agli encratiti: i primi si trasferirono in massa nel deserto, rifiutando il mondo e la realtà, convinti della imminente fine del mondo, i secondi, invece, si sottoponevano a un rigido ascetismo alimentare e sessuale. Perpetua amava profondamente la vita, aveva un carattere allegro che comunicava facilmente gioia ma la fedeltà a Dio era un valore profondamente radicato ed indiscutibile: i Cristiani professano la loro fede ed accettano il Battesimo di sangue perché sanno di appartenere solo a Cristo che li ha acquistati a prezzo del suo sangue.
Incarcerata, la sua umanità soffrì gli stenti della nuova condizione lontana dal lusso in cui era vissuta; viveva soprattutto il dolore dei suoi cari che soffrivano per lei, del bambino che avrebbe lasciato orfano e che allattò fino all’ultimo giorno ma la fede, l’abbandono a Dio le infondeva il coraggio di chi riconosce il mistero del progetto di Dio che solo ai sapienti secondo lo Spirito è dato di comprendere (cf. I Cor 2, 14-16). E un primo frutto già si vedeva: suo fratello chiedeva di essere ammesso fra i catecumeni. Il dolore del suo cuore è lontano da ogni forma di sentimentalismo di stampo romantico ma rivela l’unione di una profonda umanità e di una fede robusta. Rimase ferma davanti ai tentativi disperati del padre che l’amava profondamente, al quale una volta rispose: "...non posso chiamarmi con un nome che non sia il mio nome: io sono cristiana". Morì nell’arena, colpita dai gladiatori, sotto l’impero di Settimio Severo.

 

BASILIO MAGNO, maestro di Comunine fraterna. «Ho combattuto la buona battaglia»

Con Basilio ci accostiamo al problema della difesa dell'ortodossia contro le eresie e dell'organizzazione della Chiesa in un impero che ha legalizzato il Cristianesimo.
Era nativo di Cesarea di Cappadocia dove nacque intorno al 330 d. C.. Apparteneva a una famiglia profondamente cristiana e di ampie vedute culturali che ha dato alla Chiesa una schiera di santi: i fratelli Pietro, vescovo di Sebaste, Gregorio, vescovo di Nissa e altri ancora. Fu amico di Gregorio di Nazianzo. La santità è un contagio irresistibile della mente e del cuore!
Compì gli studi a Costantinopoli e ad Atene sotto illustri professori, Libanio ed Imerio. Ritornava nel 356 a Cesarea e vi apriva la sua scuola. Nel 358 si ritirava con l’amico Gregorio per vivere in solitudine, preghiera e studio.
Pioniere in Oriente della vita cenobitica, redasse allora due importanti regole monastiche che guidano ancora oggi la vita dei monaci che da lui si chiamano basiliani.
I progetti di Dio erano, però, differenti; nel 364 il Vescovo di Cesarea volle ordinarlo prete e nel 370 Basilio gli succedeva nella guida dell’Arcidiocesi.
Il governo della Chiesa gli imponeva di impegnarsi a fondo nella difesa della fede contro l’eresia ariana. Fu l’impegno teologico di una vita e a lui dobbiamo la definizione trinitaria dell’unico Dio in tre Persone che il Concilio di Costantinopoli avrebbe accolto nel 381, due anni dopo la sua morte, e che ancora oggi professiamo nel Credo. Suo merito fu anche un’opera sullo Spirito Santo in cui si riconosce la sua prerogativa nel potere di santificazione.
La legalizzazione della fede cristiana poneva fine al periodo delle persecuzioni ma sollevava il problema spinoso, sempre vivo e covante, del rapporto con il potere politico. Basilio sarebbe intervenuto risolutamente in più occasioni per salvaguardare la libertà della Chiesa.
La sua riflessione trinitaria approdò a una riforma liturgica con la composizione di un’anafora, o preghiera eucaristica, che ha segnato la storia liturgica della Chiesa. Fu detto già in vita "Grande" soprattutto per la sua instancabile attività pastorale testimoniata dalle sue opere e per una dedizione sorprendente ai poveri e ai bisognosi che portò alla nascita di una vera e propria città della carità con ospizi, rifugi, ospedali, laboratori e scuole artigianali nella periferia di Cesarea. Visse povero e morì povero nel 379.

 

LEONE MAGNO, «La pace genera i figli di Dio»

Uomo energico e potente personalità, il suo Pontificato è fra i più importanti della storia della Chiesa. Era figlio di genitori toscani ma forse romano di nascita, divenne Papa in un momento di violenti sconvolgimenti.
L’impero romano con la sua secolare struttura politica, amministrativa e sociale si sgretolava sotto l’incalzare di popolazioni straniere che si erano stabilite all’interno dei suoi confini. Gli imperatori erano ridotti a fantocci alla mercé di potenti generali stranieri, assoldati nell’esercito imperiale. Si svolgeva una terribile lotta per il potere; l’Italia presentava sempre più l’aspetto di un cumulo di macerie che costringevano le popolazione inermi ad abbandonare le città ed a nascondersi nelle campagne. Sono sempre quest'ultime che pagano il prezzo di sangue delle scelte non disinteressate dei potenti, al di là di tutte le buone o cattive intenzioni!
Arcidiacono e collaboratore di Papa Sisto III, Leone si trovava in Gallia a tentare una mediazione fra due "signori della guerra" quando gli fu portata la notizia della morte del Papa e della sua elezione. Prese possesso della sede il 29 settembre 440.
Sostenne una battaglia coraggiosa per assicurare l’unità pastorale e dottrinale alla Chiesa nel tracollo delle istituzioni civili e negli scontri dottrinali che riguardavano Gesù Cristo e per assicurare un trapasso di civiltà, quanto più possibile pacifico, alle popolazioni.
Nel 452, gli Unni di Attila, popolazione delle steppe, varcavano le Alpi orientali e si dirigevano verso Roma. Leone raggiunse il re barbaro nei pressi di Mantova con un’ambasceria, assistito, secondo la tradizione, dagli Apostoli Pietro e Paolo e lo convinse ad abbandonare l’Italia. Nel 455, però, i Vandali di Genserico saccheggiarono la città eterna per quindici giorni; Leone ottenne che non venisse toccata la popolazione, che trovò rifugio nelle Chiese.
Nel 451 il Concilio di Calcedonia accolse la sua definizione delle due nature, umana e divina, nell’unica Persona di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo.
Il suo insegnamento sul mistero dell’Incarnazione rimane, infatti, fondamentale.
Diede un solido fondamento biblico al primato di Pietro e del Vescovo di Roma a cui spetta una "cura e un’autorità" speciale sull’intera Chiesa pur affermando l’uguaglianza di tutti i Vescovi per l’unzione dello Spirito e per la grazia di Cristo che li assiste nel loro ministero. Fu Papa per ventuno anni.

 

BEDA IL VENERABILE, «Siamo servi inutili! Abbiamo fatto il nostro dovere»

Con San Beda entriamo nel Medioevo, un periodo importantissimo della storia della Chiesa e della nostra civiltà. Trovando un termine di paragone il Medioevo è nella storia della Chiesa quello che il Tempo Ordinario è nella Liturgia: è soprattutto il grande tempo della lenta penetrazione della Lieta Notizia (Vangelo) nella realtà semplice, ordinaria, quotidiana della vita di ogni uomo, dal dotto che vive nel monastero al contadino schiavizzato delle campagne.
Una certa cultura laicista ha strumentalizzato il Medioevo per farci vergognare della nostra storia cristiana. Grazie a Dio gli studi recenti l’hanno sconfessata anche se le scuole fanno fatica a stare al passo degli studiosi e per molti il Medioevo è ancora il tempo dell’oscurantismo e della superstizione. Dico ciò senza trionfalismi perché nessuno vuole nascondere colpe ed errori che non sono mancati, compiuti al grido "Dio lo vuole": il Nuovo Israele si scopre sempre peccatore e bisognoso della misericordia di Dio non diversamente dal popolo dell’Antica Alleanza.
Beda è figura chiave, uno dei grandi fondatori della civiltà medievale. Nato probabilmente fra il 672-673, fu monaco dell’Abbazia di san Paolo di Jarrow nella contea inglese di Durham, discepolo di san Benedetto Biscop e di san Ceolfrido.
La sua vita non fu segnata da nessun avvenimento degno di rilievo; non fu né Abate, né Vescovo ma rimase sottomesso alla Regola che aveva professato ricevendo solamente l’Ordine intorno ai trent’anni. Fu uno studioso e uno scrittore prolifico, instancabile lavoratore i cui unici momenti di "ricreazione" erano la preghiera e il canto corale.
La sua vita può essere ben sintetizzata dalle parole del Responsorio nell’Ufficio delle letture del 25 maggio, giorno in cui la Chiesa ne fa memoria: "Nel monastero ho trascorso tutta la mia vita, intento giorno e notte a meditare la Scrittura; insieme con l’osservanza fedele della regola e la cura quotidiana del canto nell’assemblea. Sempre fu la mia gioia apprendere o insegnare o scrivere. Chi osserva e insegna la parola, sarà grande nel regno dei cieli...".
Tralascio i suoi meriti culturali e teologici che sono veramente grandi. Il Medioevo lo chiamò il Venerabile e semplicemente tale è rimasto per dodici lunghi secoli, fino al 1899 anno in cui Papa Leone XIII lo volle santo e dottore della Chiesa. "O profondità...della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e impenetrabili le sue vie!" (Rom 11, 33).

 

ERMANNO LO STORPIO, «il dolore non è infelicità»

Uno dei principi sacrosanti per le nostre società opulente è l’equazione fra benessere fisico e felicità. Nessuno vuole mettere in dubbio l’importanza che la cura e il rispetto del nostro corpo ha anche nella vita cristiana ma, diciamocelo francamente, molti, anche cristiani, pensano che l’aborto non sia un male anzi sia perfino un bene quando ci si trova di fronte a un feto che porta già i segni dell’handicap.
La religione dei vari idromassaggi, fitness, jogging e pratiche ginniche ormai di moda può allora nascondere una cultura che ha terrore del dolore e che accomuna la malattia a ciò che è diverso e "anormale".
La testimonianza di Ermanno fa luce sul valore che la vita ha per i cristiani come vocazione e dono di Dio da non valutare con i nostri miseri parametri.
Fratello di altri quindici figli, nasceva il 18 luglio dell’anno 1013 da Eltrude, moglie di Goffredo conte di Altshauen di Svevia. Le famiglie dei genitori potevano vantare avi illustri, crociati, alti prelati, cavalieri dei quali, per "ironia" della Provvidenza, si è spento ogni ricordo tranne quello di questo essere orribilmente deforme. Il suo soprannome era "il Rattrappito" e il quadro clinico è presto fatto: non riusciva a star eretto neppure da seduto, volto e bocca deformi, tali che le parole risultavano stentate e incomprensibili; giudicato, infine, deficiente. L’unica via possibile era allora la vita religiosa e ragazzo approdò al monastero di Reichenau che tuttora sorge su un’isoletta del lago di Costanza, in Germania, fondato da Carlo Magno e ricco di storia e di cultura.
Sorprendente fu la sua vita. Tenace, non si perse mai nell’ozio e nell’inerzia; costretto a stare su una sedia che fu realizzata apposta per lui, divenne uno studioso di matematica, greco, latino, arabo, astronomia e musica. Scrisse trattati scientifici e di storia, realizzò astrolabi, orologi e strumenti musicali. Musicò il Salve Regina che tuttora viene cantato nella sua melodia in canto fermo e la celebre antifona Alma Redemptoris. La sua umiltà lo spinge ad aprire il suo trattato sugli astrolabi, dicendo: "Ermanno, l’infimo dei poveretti di Cristo e dei filosofi dilettanti, il seguace più lento di un ciuco, anzi, di una lumaca..."
Quello che colpisce è, però, l’amore che portò ai suoi confratelli e gli aggettivi usati dal biografo Bertoldo ne sono una prova evidente: "piacevole, amichevole, conversevole; sempre ridente; tollerante; gaio; sforzandosi in ogni occasione di essere galantuomo con tutti ". La fede lo spingeva ad avere sempre gli occhi rivolti verso il fine ultimo della vita, l’incontro con Dio, approdo del nostro pellegrinaggio terreno.
Si spense il 24 settembre 1054, compianto da tutti. Davvero la vita appartiene a Dio.

 

ROBERTO DI MOLESME, «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra»

A 15 anni è un promettente futuro cavaliere quando nel novembre del 1033 Roberto rivela al padre Teodorico, nobile signore di Troyes, in Champagne, che sarà sì cavaliere ma di una cavalleria più nobile: servirà Dio professando la Regola di san Benedetto.
Partiva con la raccomandazione paterna: "C’è un solo errore nella vita: quello di non essere un santo"; gli anni di noviziato sarebbero stati segnati dalle dolenti parole del profeta Ezechiele (22, 30): "Cercai...un uomo...che stesse sulla breccia, davanti a me, in difesa della città, affinché io non la distruggessi; e non trovai nessuno". Roberto voleva essere un cavaliere fedele, "l’uomo di mani e di bocca del suo Signore", capace di stornare col proprio amore e con una dedizione totale l’ira divina. Per fare questo voleva vivere la Regola alla lettera: non bastava il pur prezioso lavoro di copiatura e miniatura dei manoscritti ma occorreva tornare al lavoro manuale nei campi affidato allora ai servi; desiderava per sé e per l’Ordine un nuovo ardore nella preghiera corale, un’autentica povertà nelle vesti e nel vitto. Nell’XI sec. la sua era la pretesa di un ribelle.
Il Signore lo avrebbe premiato. San Roberto è, infatti, riconosciuto padre dei "monaci bianchi", Cistercensi e Trappisti, ma la sua vita non fu trionfale; fu la vita di un fallito, ragionando in termini umani. Il monaco superbo capì a sue spese la logica dura della croce che è la porta stretta dell’obbedienza, dell’umiltà, della conversione a Dio. Divenuto Abate tentò più volte la riforma; si trovò nella condizione di poterla attuare d’autorità ma si astenne dal farlo perché non importava che si realizzassero le sue ambizioni ma che i cuori si convertissero. Ciò sarebbe accaduto solo se lui, Roberto, avesse imparato ad offrire i propri fallimenti con Gesù per la salvezza degli uomini, imitando la mansuetudine del Servo sofferente (Is 52, 1 segg.).
Un caso per tutti, l’ultimo. Ottantenne, finalmente vedeva realizzati i suoi sogni a Citeaux di cui era fondatore; i fallimenti sembravano riscattati da quel tardivo successo quando i monaci di Molesme, Abbazia dove aveva sperimentato una violenta ostilità contro la sua persona fino alla rivolta, ottennero il suo ritorno grazie all’inghippo di un decreto papale. Facevano questo non perché volessero accettare la riforma ma perché le dispense erano vuote a causa dello sdegno popolare provocato dal loro comportamento! Roberto obbedì anche se con la morte nel cuore.

 

 

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