CRITICA LETTERARIA: DANTE

 

Luigi De Bellis

 
 
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La coscienza della lingua nel "De vulgari Eloquentia"
di A. PAGLIARO



La formazione di una lingua comune, al di sopra del frazionamento dialettale, avviene secondo Dante attraverso l'elaborazione da parte di una minoranza fornita di prestigio sociale, di capacità letterarie e di potere politico, operando una scelta cosciente sui materiali linguistici locali e richiamandosi, nella ricerca dell'ordine e dell'eleganza, al grande modello del latino. Dante, come dice il critico, fonda nel suo trattato la retorica, la lingua letteraria volgare, ma è lo stesso procedimento proprio di ogni lingua che cerca un'unità, non essendo la lingua letteraria altro che un grado, «il primo e il più eletto», della lingua comune.

Non è qui nostro assunto di esaminare questa nozione dantesca della lingua, considerata sotto l'aspetto dell'eloquentia, cioè del «ben parlare». Vogliamo, tuttavia, rilevare come nel definire il carattere di quel volgare, che potesse assurgere ad espressione dell'italianità, libero dalle scorie del particolare e del municipale, Dante abbia veduto in azione gli stessi fattori che effettivamente contribuiscono all'unificazione linguistica. L'attributo di «illustre» che egli dà a tale volgare è spiegato con il fatto che esso risplende del magistero dell'arte, illumina ed eleva gli spiriti ai quali si volge, arreca gloria all'artefice. L'altro epiteto di «cardinale» ha la sua ragione nel fatto che il volgare illustre è come il fulcro, intorno a cui si muovono le parlate municipali e la sua azione importa un regredire degli atteggiamenti linguistici più rozzi ed un progresso di quelli elevati e culti. Gli epiteti di «aulico» e di «curiale» stanno a indicare gli ambienti, dove maggiormente s'aduna la forza coesiva della comunità e nei quali, in virtù di tale funzione accentratrice, più si tende all'unificazione linguistica e, cioè, la corte come centro del potere politico, e la curia come esercizio, per dir cosí, periferico di tale potere.

Da tutto questo appare chiaro come Dante veda nell'unificazione linguistica un'opera di cosciente ricerca e di creazione, presente sempre a se stessa, da parte di una minoranza eletta, che, attraverso il magistero dell'arte e il prestigio di forme più raffinate di vita spirituale e con l'appoggio del potere politico accentratore delle forze più vive, dia maggiore uniformità ed ampiezza all'uso linguistico, mantenendolo, tuttavia, fedele ai suoi fondamentali contrassegni genetici.

L'italianità linguistica non era ai tempi di Dante già così concretata come lo erano l'ellenismo ai tempi di Aristotele e la latinítas ai tempi, di Varrone e di Cicerone. Ma il processo di definizione era incominciato con la lingua della scuola-poetica siciliana e si era affermato attraverso l'opera dei toscani e dei bolognesi. Una tradizione di lingua colta era venuta a delinearsi, avendo a motrice ideale, innegabile e spesso misconosciuta, la lingua latina. L'opera in volgare dei doctores, se portava nella lingua poetica i riflessi della lingua dei modelli che seguiva, ancor più fortemente doveva seguire l'influsso di quella mentalità, di quel gusto linguistico, che la viva e costante presenza del latino nella loro coscienza doveva pur promuovere.

Ora Dante non poté certo prevedere la prevalenza integrale del toscano nella determinazione della lingua nazionale italiana, che si ebbe anche, e soprattutto, per merito suo; tuttavia, bene individuò i fattori, che contribuiscono in genere alla formazione di una lingua comune e che, in particolare, hanno contribuito alla formazione della lingua italiana.

La lingua comune ha sempre la sua culla in un ambiente di maggior prestigio. Dante ha messo innanzi i maggiori fattori che qualificano in una comunità un prevalere linguistico, richiamandosi al magistero dell'arte, all'opera dei doctores, e all'azione unificatrice del potere politico ed amministrativo, la corte e la curia. Ma ha soprattutto il merito di aver messo in rilievo come a questi fattori sia comune una tendenza al raffinamento e all'elevamento dell'espressione linguistica, in funzione di un ideale, per dir cosí, aristocratico.

Il contributo dell'arte nella formazione di una lingua comune è palese proprio nell'affermazione del toscano come lingua nazionale; quello del potere politico e del prestigio complessivo della civiltà è palese nell'affermazione del latino; fattore aulico e fattore religioso si associano a determinare la vittoria del neoaltotedesco come lingua comune della Germania, fattori culturali e fattori di ordine largamente politico si associano nella determinazione dell'attico come lingua comune della grecità, e del dialetto dell'Ile de France come francese comune.

Per ciò che riguarda l'italiano, Dante, come si è visto, mostra d'intendere anche quanto doveva influire sulla sua costituzione la vitalità del latino come lingua di cultura, quando afferma il prevalere della lingua del si, in base al privilegio di essere essa la più vicina alla lingua grammaticale 1. Già sin d'allora, il confronto si doveva porre per lui fra la pronunzia e la struttura del toscano e quelle della tradizione colta del latino, così che nel toscano, nonostante il suo ripudio dei volgarismi, egli veniva quasi inavvertitamente a riconoscere quel «primissimum signum» dell'italiano comune. L'altro privilegio, quello dell'eccellenza dei poeti che della lingua del si si erano serviti, riporta esso pure al toscano, perché non vi può essere dubbio che le rime dei siciliani erano a lui note in forma ormai toscanizzata.

Ma, soprattutto, è da attribuire a merito di Dante il riconoscimento di quell'azione di scelta, di raffinamento, che presiede alla costituzione e allo sviluppo di una lingua comune, giacché questa è frutto di una coscienza linguistica più desta, la quale vuole dotarsi di mezzi espressivi sempre più perfetti, senza scostarsi da quella data «forma interiore». Essa opera come criterio istintivo di scelta, come gusto. F innegabile che questo gusto agisce in funzione del contenuto di coscienza che si vuole esprimere e che, perciò, nella lingua comune opera un più vivo e sorvegliato sforzo stilistico. Quel gusto che a Dante fa ripudiare, i vocaboli yrsuta, come già a Cicerone gli abiecta atque obsoleta, non è di ordine diverso da quello del comune parlante, che evita le espressioni e le inflessioni dialettali, da lui sentite come volgari, per cercare un livello espressivo che lo ponga in una sfera superiore.

Che Dante abbia pensato al «volgare illustre» in funzione delle più alte forme poetiche, nulla toglie alle sue mirabili intuizioni. È certo che egli si riprometteva di trattare nei libri successivi anche della prosa d'arte. Comunque, ha visto la lingua d'arte come un grado, il primo e il più eletto della lingua comune, tanto che di essa ha ricercato il fondamento, l'unum, nell'italianità linguistica. I fattori che portano alla creazione e allo sviluppo di una lingua comune, sono, per quanto su un piano storicamente più largo, dello stesso ordine di quelli che operano nella formazione di una lingua letteraria, appunto perché questa è un grado di quella. È fatto facilmente constatabile che l'unificazione linguistica non si attua in blocco, ma è bensì processo perenne, e che il primo grado è appunto quello, cui una più desta e alta vita culturale cerca un'espressione unitaria consona a questo suo primato.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it