CRITICA LETTERARIA: DANTE

 

Luigi De Bellis

 
 
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La realtà terrena della "Commedia"
di S. A. CHIMENZ



Il Chimenz, preoccupato di evitare alla Commedia interpretazioni che eccessivamente ne sottolineino l'aspetto mistico e ascetico, indica come sia costantemente presente da parte di Dante un'attenzione fervida e appassionata alla realtà terrena, cosí intensa da non venir meno neppure in mezzo alle più alte contemplazioni dell'Empireo.

Dante è la prima grande personalità dell'età moderna, che, pur conservando profondissimo il sentimento di ogni credente, che la meta finale cui l'uomo deve tendere è il Cielo, abbia reintegrato, contro il pensiero e sentimento ascetico medievale, con costante ragionata piena consapevolezza, la nobiltà-e dignità dell'uomo e della vita umana, per l'alta considerazione in cui tenne l'intelletto umano e l'opera che l'uomo è chiamato ad attuare sulla terra. Basti pensare all'esaltazione ch'egli fece della virtù umana, non solo ammettendo nel Limbo, contro l'opinione di san Tommaso e la costante tradizione della Chiesa romana, le anime degl'Infedeli virtuosi, ma creando addirittura per quelli tra essi che per l'eccellenza nel campo del sapere o dell'azione si erano resi benemeriti dell'umanità (perfino musulmani, il che è ancora più grave dal punto di vista dell'ortodossia cattolica), un nobile e luminoso castello, una sorta di Elisio pagano, che gli sarà rimproverato da sant'Antonino come contrario alla fede. Per questo sentimento della dignità ed eccellenza dell'uomo, Dante si stacca nettamente dal Medioevo, e si avvicina al mondo classico assai piú che non il Petrarca. Egli ebbe fermissima e profonda la convinzione, ch'era stata già dei filosofi antichi e sarà di Giannozzo Manetti, di Pico della Mirandola e, in generale di tutto l'Umanesimo, che l'uomo è «divino animale» perché dotato della ragione che lo fa partecipe della «divina natura», e può essere «tanto nobile e di sí alta condizione che quasi non sia altro che angelo», «quasi... un altro Iddio incarnato» (Cono. III, II, 14; III, VII, 6; IV, XXI, 10); e che perciò, «operando secondo le virtú morali e intellettuali», dietro la guida della filosofia, può conseguire la felicità terrestre, che consiste appunto nell'acquisto del sapere e nell'esercizio delle virtú. A due fini, infatti, secondo Dante, l'uomo è stato ordinato da Dio: non alla sola felicità celeste, dopo la morte, come per gli asceti, ma anche, prima, a quella terrestre (Mon. III, XVI, 6-8). Prima che Beatrice conduca Dante alla beatitudine del Paradiso, Virgilio, cioè la filosofia naturale che indirizza l'uomo all'esercizio delle virtú morali e intellettuali, lo condurrà alla « beatitudine di questa vita », al Paradiso terrestre, che appunto tale beatitudine raffigura (ibidem). Dante non poteva estraniarsi dal mondo, ripudiare la vita attiva per isolarsi nella contemplazione dell'eterno, perché egli era dotato di un temperamento ricco di passioni e pronto a reagire gagliardamente a tutte le sollecitazioni del mondo esterno, e, insieme con l'avidità di sapere di cui si è già detto, aveva una molteplicità e vastità di interessi umani quasi senza limiti; sicché in lui non meno vivo del sentimento dell'eterno era il sentimento della missione che l'uomo è chiamato a compiere sulla terrà, come individuo e come membro della società: missione che può compendiarsi nelle parole del suo Ulisse: «divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore» e «seguir virtute e canoscenza». Contro la svalutazione e la condanna e il disprezzo ascetici, egli riconobbe come naturale e giusto il misurato amore alle cose terrene; ed esaltò la magnanimità delle azioni, le fatiche e i frutti dell'ingegno, in tutti i campi, gli affetti familiari, l'amicizia, insomma tutto ciò che di bello, di buono, di nobile c'è nella vita. Quel suo terribile e quasi continuo sdegno per la corruzione e la decadenza di ogni valore umano e civile ai suoi tempi è cosa ben diversa dal disprezzo del mondo da parte degli scrittori ascetici: è, anzi, la magnanima riprova del suo alto apprezzamento di quei valori, di cui propugnava ed affrettava, con la rampogna e col desiderio, la restaurazione, ch'egli credeva immancabile e vicina, perché senza quei valori la vita terrena perde il suo pregio, tradisce la missione impostale da Dio. E aspirò apertamente e con tutta l'anima alla gloria terrena, non, quella, s'intende, effimera del successo e del plauso del volgo, ma quella vera e duratura che il giudizio severo dei posteri conferisce e sancisce agli animi generosi, ai grandi intelletti: di essa si preoccuperà perfino in Paradiso, e - ciò che è ancora più significativo - non ne sarà affatto rimproverato dal beato a cui confessa questa sua preoccupazione tutta terrena, come di sentimento sconveniente là dove ogni affetto e desiderio dovrebbe essere rivolto solo a Dio. Sta di fatto che neppure l'esperienza paradisiaca riesce a far staccare l'anima di Dante dagl'interessi mondani ed a tenerla concentrata e assorbita, come dovrebbe essere, solo nella contemplazione dell'eterno e nell'amore di Dio. Già si è notato il suo tutto umano compiacimento per la nobiltà della sua famiglia, laddove ci saremmo aspettati, da parte sua, una religiosa commozione ed esaltazione, quando egli apprende che il suo trisavolo era morto combattendo per la fede. Parimenti, dal punto di vista strettamente religioso, sorprenderà che, dopo ch'egli ha ricevuto una simbolica incoronazione nientemeno da san Pietro, in segno di approvazione per la sua professione di fede, il suo cuore voli improvvisamente dal Paradiso a Firenze, pieno di nostalgia del «bello ovile», ov'egli aveva dormito agnello, e di amarezza per l'ingiustizia che lo tiene, innocente, fuori di esso, quasi abbia più cara dell'ideale incoronazione in Paradiso quella a cui egli aspira con tutta l'anima nel suo «bel san Giovanni»: moto umanissimo del cuore (e, poeticamente, un ex abrupto stupendo, forse il più solennemente appassionato di tutto il poema: «Se mai continga...» [Par. XXV, 1 segg. ] ), ma troppo terreno per un pellegrino del cielo, che già ha avuto una prima visione di Cristo e di Maria, e ora è a colloquio con gli Apostoli ed è prossimo alla visione di Dio. La verità è che Dante nel Paradiso portò immutati i suoi affetti e interessi terreni; e il sentimento di distacco dalla terra, che naturalmente non può non affiorare qua e là nella terza cantica, è soprattutto intellettualmente intuíto come condizione essenziale alla vita di Paradiso, ma non scaturisce dal più profondo del suo cuore, non rispecchia un'effettiva condizione d'essere della sua anima: è più vagheggiato che posseduto. Il suo sorriso per il «vil sembiante» che la terra mostra dall'alto dei cieli (Par. XXII, 134-138) è soprattutto una reminiscenza letterario-filosofica, sapientemente utilizzata a conclusione di un canto in cui gli accenti poetici più vivi sono quelli che esprimono i suoi persistenti interessi per la vita di questa «aiuola che ci fa tanto feroci», e che, invece, dovrebbe essere campo per l'esercizio delle virtú e dell'ingegno: sono, infatti, prima, lo sdegno contro la corruzione e l'avidità di ricchezze degli ordini monastici, poi, la franca affermazione dell'alto ingegno che natura gli aveva dato. Anche gli aspetti, diciamo, deteriori del suo carattere appaiono immutati per tutto il viaggio, tanto prepotenti e indomabili erano in lui le passioni terrene. «Odio e amor» - potremmo dire col poeta maremmano - mai non s'addormirono nel petto di Dante credente, allo stesso modo che nel petto del non credente Carducci. La sua fermissima fede cattolica gli risolse, sul piano trascendentale, le inquietudini dell'intelletto, ma non valse a pacificargli il cuore: le virtú specificamente cristiane, che avrebbero potuto pacificarlo - il perdono delle offese ricevute, l'accettazione del dolore come pegno di premio celeste, la rassegnazione, l'umiltà di spirito, gli furono sconosciute. I suoi nemici personali o semplicemente gli avversari delle sue ideologie non tralasciò occasione per colpirli. Nel Convivio (IV, XIV, 11), contro i sostenitori di un'opinione erronea intorno alla nobiltà scrisse addirittura che «rispondere si vorrebbe non con le parole, ma col coltello, a tanta bestialitade». Troppe volte la Commedia riflette atteggiamenti così violenti e vendicativi da doversi convenire che il verbo evangelico poco o nulla influì sul temperamento passionale dell'uomo Dante. Si pensi alle sue terribili imprecazioni: contro Pisa, che vorrebbe sommersa nell'Arno con tutti gli abitanti (Inf. XXXIII, 79-84), contro i Genovesi, che vorrebbe cancellati dalla faccia della terra (Inf. XXXIII, 151-153); si pensi al desiderio e alla gioia crudele di veder fare strazio di Filippo Argenti (Inf. VIII, 52-60), alla ferocia con cui strappa i capelli a Bocca degli Abati (Inf. XXXII, 97-105). Vero è - diciamo subito - che la violenza vendicativa di Dante non appare mai come sfogo, che sarebbe ripugnante, di astio e vendetta personale, ma come reazione del sentimento di giustizia offeso, anche se talvolta l'eccesso della reazione (come nel caso di Filippo Argenti) non risulta bene giustificato e suscita nel lettore qualche perplessità; ma certo egli dimostrò di possedere più la violenza dell'odio biblico che non la misericordia evangelica. Del verbo evangelico solo l'esaltazione della povertà trovò un'eco viva in lui, ma soprattutto in funzione polemica contro l'avidità degli ecclesiastici. Anche la sua incrollabile fiducia nella giustizia e provvidenza divina non valse a placarlo: gli sembrava troppo lenta a punire o a portare rimedio, tanta era l'urgenza della sua passione terrena; e giunge a gridare a Dio, nel Purgatorio: «Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?», e nel Paradiso, per bocca di san Pietro: «O difesa di Dio, perché pur giaci?». Gli mancò quel confidente abbandono nella volontà di Dio, in cui il comune credente trova la quotidiana pace del cuore, la rassegnazione e il conforto nelle traversie della vita. Ma il «paradosso», come è stato felicemente detto, del Paradiso dantesco è che atteggiamenti terreni sussistono non solo nell'animo del poeta, ma negli stessi beati; i quali, malgrado la loro tante volte proclamata immutabile felicità celeste e l'ininterrotta fruizione della visione beatifica di Dio, di fatto non distolgono gli occhi dalle triste vicende della terra, e ciascuno, nella sfera degl'interessi che ebbe da vivo, rampogna, si addolora, minaccia, si sdegna: per santo zelo, s'intende, ma non diverso da quello di Dante, perfino nell'asprezza dei termini in cui è espresso: san Pietro dice «cloaca» e «puzza», e Beatrice «porci», come Dante «puttaneggiare». Le ultime parole che Beatrice pronunzia e addirittura nell'Empireo! - sono una lode accorata di Arrigo VII e una condanna sprezzante di Clemente V e Bonifazio VIII. Nulla più chiaramente di questa paradossale sopravvivenza dell'umano e del transeunte nel Cielo e nell'eternità potrebbe dimostrare quanto alieni dall'anima di Dante fossero misticismo e ascetismo, e quale veramente sia lo spirito che anima la Commedia.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it