CRITICA LETTERARIA: DANTE

 

Luigi De Bellis

 
 
  HOME PAGE

Giudizi e testimonianze attraverso i secoli

La tradizione agiografica e la "Vita Nuova"

L'esperienza delle "Rime"

Il "Convivio"

La coscienza della lingua nel "De vulgari Eloquentia"

Il "Monarchia" di Dante

La "fedeltà" di Dante

Dante, poeta del Medioevo

La cultura del tempo di Dante

Introduzione alla poesia della "Commedia"

Struttura e poesia nella "Commedia"

L'interpretazione "figurale" della "Commedia"

La "complessità" della "Commedia"

Il "duplice" viaggio di Dante

Universalità ed evidenza della poesia dantesca: la lingua e l'allegoria

La realtà terrena della "Commedia"

Cronaca e storia nella "Commedia"

Il "Paradiso" come epica della grazia

L'ultima pagina della "Commedia"



 


La "fedeltà" di Dante
di E. GILSON



Per il celebre filosofo e storico francese il problema delle autorità nell'ambito religioso, politico, morale costituisce il centro della speculazione dantesca e delle appassionate convinzioni che ne derivano. Con la fedeltà e con il tradimento nei riguardi di queste autorità, siano esse il Papa o l'Imperatore, intesi come i supremi rappresentanti della maestà e della giustizia divina, Dante misura i suoi giudizi. La virtù della Giustizia, allora, appare come il grande motivo che riassume in sé tutti i valori del pensiero di Dante.

Certamente, la costruzione ideologica della Divina Commedia non spiega né la nascita né la bellezza dell'opera, ma pure essa c'è, ed è essa sola che ci permette di comprenderne il contenuto.

Se il Convivio ha restaurato nella sua pienezza l'autorità morale del Filosofo nei confronti dell'Imperatore e la Monarchia ha restaurato nella sua pienezza l'autorità politica dell'Imperatore nei confronti dei Papi, la Divina Commedia richiama nuovamente i diritti e i doveri degli uni e degli altri, ma Dante non si contenta più, come nelle opere precedenti, di fondarli in linea di diritto sulla nozione astratta della giustizia divina; attraverso la magia della sua arte, egli ci fa vedere all'opera questa stessa Giustizia, custode eterna delle leggi del mondo che conserva quali le ha create. Poiché è essa appunto che beatifica i giusti nell'amore come schiaccia gli ingiusti sotto la sua collera. Se è vero che non ci sembra sempre equa nei suoi giudizi, ciò avviene perché questa giustizia di Dio non è in fin dei conti che quella di Dante, ma si tratta per noi di comprendere quest'uomo e quest'opera piuttosto che di giudicarli.

L'atteggiamento generale di Dante nei riguardi della filosofia appare non tanto quello di un filosofo preoccupato di coltivarla in se stessa, quanto piuttosto quello di un giudice desideroso di riconoscere i suoi diritti, allo scopo di ottenerne quel contributo per l'opera grande della felicità temporale umana che la morale e La politica hanno diritto di attendere da essa. Dante assume pertanto a questo riguardo, come ogni volta che teorizza, la parte del difensore del bene pubblico. La sua funzione non è di promuovere la filosofia, né di insegnare la teologia, né di esercitare il potere politico, ma di richiamare queste fondamentali autorità al mutuo rispetto che si debbono per la loro filiazione divina. Ogni qualvolta, per cupidigia, una qualunque di esse supera i limiti imposti da Dio al suo dominio, essa entra in conflitto con una autorità non meno sacra, di cui usurpa la giurisdizione. Questo è il più comune e pericoloso crimine che si commette contro la giustizia, che è la più umana e la più amata delle virtù, come la più inumana e la più odiosa è l'ingiustizia sotto tutte le sue forme: il tradimento, l'ingratitudine, la falsità, il furto, l'inganno e la rapina. Così intesa, la virtù della giustizia appare in Dante soprattutto come fedeltà alle grandi autorità, sacre per la loro origine divina, mentre l'ingiustizia è al contrario ogni tradimento di queste autorità di cui egli stesso non ha mai trattato se non per sottomettervisi: la filosofia e il suo Filosofo, l'impero e il suo Imperatore, la Chiesa e il suo Papa.

Quand'egli colpisce, e con quale durezza, uno dei rappresentanti di queste principali autorità, ciò avviene unicamente allo scopo di proteggerle contro quello che egli ritiene un errore di colui che le rappresenta. La sua franca libertà contro i grandi nasce dall'amore delle grandi realtà spirituali: egli li accusa di farle rovinare non rispettandone i confini, poiché ognuna di esse distrugge anche se stessa nell'usurpare il potere di un'altra nel momento stesso che usurpandolo distrugge questo potere. Si può certo mettere in discussione la nozione stessa che Dante si è fatta di queste autorità fondamentali e delle loro rispettive giurisdizioni, ma una volta ammessa questa nozione, non si ha più il diritto di cadere in equivoco sulla natura del sentimento che l'animava. Coloro che l'accusano di orgoglio leggono male le sue invettive, poiché la violenza di Dante è una sottomissione appassionata che esige dagli altri una eguale volontà di sottomissione. Il suo verdetto s'abbatte sull'avversario non da una superiorità personale che egli si attribuisce, ma dall'altezza stessa cui egli innalza i suoi tre grandi ideali: Non lo si colpisce senza colpire anche quelli. Il tormento di questa grande anima . fu di levarsi incessantemente contro ciò ch'ella amava di più al mondo, per la passione stessa di servirlo: papi che tradiscono la Chiesa e imperatori che tradiscono l'Impero. Ecco allora che l'invettiva dantesca scatta per fulminare i traditori, perché in questo universo dove il peggiore dei mali è l'ingiustizia, la peggiore ingiustizia è il tradimento, e il peggiore di tutti i tradimenti non è tradire un benefattore, ma tradire un capo. Ogni tradimento di questa specie scuote l'edificio del mondo nelle autorità sulle quali Dio stesso vuole che esso si fondi e che, nell'ordine, ne garantiscono l'unità e la pace. Ciò che raccoglie di più immondo il fondo ultimo dell'inferno dantesco è Lucifero, traditore del suo creatore, e i tre dannati fra i dannati di cui Lucifero garantisce l'eterno castigo sono anche i traditori fra i traditori: Giuda Iscariota, traditore di Dio, Cassio e Bruto, traditori di Cesare. Come ingannarci sulla portata di questo terribile simbolismo? È certamente crimine più grave tradire la maestà divina che tradire la maestà imperiale, ma si tratta in sostanza della stessa maestà, e questo è il crimine dei crimini: il tradimento della maestà. Stabilire, dunque, cosa Dante odi di più al mondo, significa al tempo stesso comprendere ciò che egli stima al di sopra di tutto: la lealtà verso i poteri stabiliti da Dio. Lo si è troppo dimenticato nel commento delle sue opere, soprattutto nel loro contenuto filosofico, teologico e politico. È inutile pretendere di scoprire l'unico maestro di cui egli possa essere stato il discepolo. Dante non può averne meno di tre per volta. Infatti, in un dato ordine, egli ha sempre per capo colui che a questo ordine presiede: Virgilio in poesia, Tolomeo in astronomia, Aristotele in filosofia, san Domenico nella teologia speculativa, san Francesco nella teologia affettiva, e san Bernardo nella teologia mistica. Gli si potranno riconoscere ancora altre guide. A lui poco importa l'uomo, purché in ogni caso sia sicuro di seguire il più grande. Questo è il terreno d'elezione dove sembra essersi collocato sempre il solo Dante veramente autentico. Se esiste, come si afferma, una « visione unificante » della sua opera, essa non si identifica né con una particolare filosofia, né con una causa politica, nemmeno con una teologia. Essa si troverà piuttosto nel sentimento così personale che egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che questa impone. L'opera di Dante non è un sistema, ma l'espressione dialettica e lirica di tutte le sue lealtà.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it