Motivi e sintassi
del "Trecentonovelle" di
C. SEGRE
Dopo aver indicato l'intimo rapporto tra l'elemento moraleggiante e il gusto narrativo e ritrattistico nell'opera del Sacchetti, il critico illustra gli aspetti salienti del linguaggio sacchettiano e propone una definizione della « popolarità » del
Trecentonovelle, che si differenzia chiaramente sia da quella di tradizione boccaccesca, sia da quella che affiorerà nei testi della narrativa e della commedia del Cinquecento.
Poiché il Sacchetti spigliato narratore di piacevoli beffe e ritrattista della società borghese del suo tempo è una sola cosa col Sacchetti meditativo e moraleggiante che fa con sincerità e impegno le sue prove in una grande parte - forse la maggiore, quantitativamente - della sua attività letteraria, esamineremo qui in che misura e sotto quale aspetto il suo linguaggio (e in particolare la sintassi) ne risenta, e come rifletta queste differenti posizioni spirituali. Apparirà che nel linguaggio schiettamente narrativo la sintassi riproduce con estrema facilità l'animo divertito dello scrittore e la sua spensierata dedizione alla materia, mentre quando subentra la riflessione per porre le premesse e dare l'avvio al racconto o per giudicarlo e conferirgli una più ampia validità, lo sforzo di disciplinare strutturalmente gli elementi del discorso fallisce, e il contorno della formulazione sintattica non coincide più con quello del contenuto spirituale.
Il veloce e vivace delineamento di una figura o di un carattere, l'argentina fluidità del dialogo, la prontezza ad afferrare i piccoli particolari significativi, la perfetta adeguazione del linguaggio alla vicenda narrata, che inviterebbe a parlare, come vedremo, di una mimesi sintattica, son tutte caratteristiche dipendenti dall'arguzia, dalla curiosità, dalla nativa vivacità di espressione, dalla lunga e in fondo benevola esperienza degli uomini; caratteristiche operanti solo in connessione con l'ambiente in cui l'autore si muove, perché da questo son ispirati e su questo operano descrivendolo. È la realtà che ispira il Sacchetti, ed egli la dipinge con tratti nervosi e sicuri e, diciamolo pure, superficiali, perché è tanto pronto a coglierne ogni tratto, che il ritmo delle apparenze lo afferra e lo trascina senza lasciargli il tempo di andar più a fondo col pensiero. La meditazione subentra in seguito, quando l'impressione dei fatti è già raffreddata: descrizione e giudizio restano così scissi, e la comprensione, solo approssimativa. L'interesse spontaneo del Sacchetti è
messo a fuoco sulla realtà, si che il contorno raziocinativo ne riesce progressivamente sfocato.
Certo, chi si dichiarava con una certa dose di civetteria «uomo discolo e grosso» aveva l'ambizione di superare, per dono di intelligenza (vedi la nov. CLI) e per forza di volontà, il livello culturale del suo ambiente, tanto da ritenersi in grado di giudicarlo e di ammonirlo. Ma se il buon Franco si fa, in un certo senso, storico, egli deve accontentarsi di fissare lo sguardo sulle piccole vicende, o su aspetti minuti delle grandi; e se si fa moralista, muove per, lo più il suo giudizio da fatti minimi, di cronaca, e senza troppo- premunirsi dal pericolo delle contraddizioni. E alla fine la direzione del nostro giudizio, che ci fa sorvolare su questi timidi tentativi di sistemazione storico-morale e ci trasporta con prontezza e quasi impazienza là dove l'arte del Sacchetti - libera - si può manifestare con tutta la sua naturale festività, è bensí opposta a quella della volontà dell'autore, ma non a quella della sua naturale vocazione; onde ci rallegra il constatare poi sulla pagina che quasi tutte le parti migliori fioriscono sulla, limpidità di un cielo non offuscato da nebbie meditative. Comunque, col tentare una dislocazione dai valori puramente narrativi a quelli di maggior peso morale, l'autore istituisce nel suo stile un'instabilità di equilibrio che a volte si fissa in una definitiva frattura, a volte ha esiti in cui una delle tendenze prevale sull'altra.
Riteniamo insomma che, mentre la meditazione morale dimensiona lo spazio entro il quale si situano le novelle, tuttavia la moralità, quando non si presenti più in incognito, ma in posizione distinta é coi propri attributi, non giunga sempre a una piena soluzione in seno al liquido poetico, e lasci anzi tracce residue che palesano la sua incompiuta elaborazione anche al saggio dell'analisi linguistica.
Il gusto per la voce popolare non è del solo Sacchetti; il molto che è del solo Sacchetti deriva dalla particolare posizione che questo linguaggio popolare occupa nell'avvio stesso del suo narrare. Si veda, a contrasto, il Boccaccio, anch'egli gran buongustaio di parole ed espressioni popolari. Nel Decameron il linguaggio popolare si adatta e sottostà a quello aulico: il Boccaccio introduce nel tessuto del suo stile,. senza deformarlo, l'espressione popolare, con particolari scopi umoristici o di colore ambientale, simile all'aristocratico che a tratti si diverte a fare il verso al volgo. Nelle parti più vive del Trecentonovelle invece il Sacchetti raggiunge un'espressione linguistica sinceramente e compiutamente popolare: la lingua del popolo tanto s'interiorizza in lui, che ad essa si conforma, su essa s'atteggia il suo linguaggio (e ad eliminare ogni pericolo di malintesi, come parlare di « spontaneità » e simili, ci soccorrono i Sermoni, dove il linguaggio, anche nelle numerose novelle, è tanto meno vivace e scorrevole. La naturalezza delle novelle è una lenta conquista, a cui è tutt'altro che estranea l'esperienza delle Rime).
Cosí nelle novelle non abbiamo più, del linguaggio popolare, sparsi anche se numerosi elementi, ma moduli narrativi, formule sintattiche, tutto quanto insomma contribuisce a che lo stile del racconto popolare divenga, nelle mani del Sacchetti, uno strumento meraviglioso di comicità.
Nelle novelle del Sacchetti affiora dunque, limpida e ormai sicura del suo corso - rotti i frequenti ostacoli di una tradizione stilistica tanto differente - la vena del linguaggio popolare. Vena che, com'è facile sincerarsi, si presenta nei narratori contemporanei solo con deboli tracce, timide apparizioni (a parte certi isolati, quale l'autore della Vita di Cola), e solo nel Cinquecento si fa vistosa e irruente, alimentandola fonti generose. Cosí la prosa del Trecentonovelle ci appare estremamente singolare tra quella dei novellieri contemporanei, ora caudataria di quella boccaccesca, ora incapace di darsi un assetto qualsivoglia (lo scrittore non più paludato non sapeva assumere l'andatura disinvolta del popolano); e differisce nel contempo, nonostante le numerose analogie, da quella dei molti scrittori del Cinquecento che adottarono forme linguistiche proprie della lingua parlata. Perciò, mentre i nostri raffronti con prosatori, e specialmente commediografi, del Cinquecento, e con testi moderni popolari o popolareggianti vogliono indicare la vitalità di questi procedimenti della lingua parlata, ci preme precisare la particolare posizione del nostro autore: posizione, confronto ai cinquecentisti, di maggior « rispetto » per la sua fonte, e questo non perché la sua adesione sia meno cosciente, ma perché essa rappresenta, a conclusione di una singola ricerca di stile, la raggiunta consapevolezza del mondo interiore dell'artista, e non la partecipazione a un programma o a una moda.
Il gusto, popolaresco dell'onomatopea e della caricatura, già in precedenza raffinato e stilizzato nella tecnica impressionistico-musicale delle Rime, celebra qui con le forme del linguaggio parlato la gioia della sua maturazione. Cosí, liberatasi dai rigori della tradizione, la sintassi sacchettiana ci si presenta animata da quello spirito immaginoso, osservato nell'italiano dallo Spitzer e indicato recentemente dal Terracini in funzione di una vera e propria caratterizzazione della nostra lingua, che spregiudicatamente utilizza, con finalità ora allusiva ora imitativa, elementi ancora vibranti dell'intonazione di un discorso reale. Va da sé che questi elementi escano, nel Trecentonovelle, dalla potenzialità con cui vagano tra le maree del linguaggio, per assumere la definitezza dell'atto stilistico.
È stata più volte notata nel nostro novelliere l'abilità nel rendere scene di confusione: l'asino inferocito dalle beccate del corvo, il vecchio dottore in preda ai capricci del ronzino, il parapiglia causato dall'orsa legata alle campane, la corsa pazza del lupo e della botte e dello sbigottito fanciullo, e cosí via. Fatto si è che la fantasia del nostro Franco, che si disperde o s'indebolisce quando, ancor lontani i personaggi, deve evocarli e indurli sulla scena, si fa sempre più attenta e accesa quando questi incominciano a intrecciare la loro pantomima, e riuniti i fili del racconto, e concentrato questo nel breve spazio di un'azione che per lo più si risolve speditamente, essa s'abbandona ormai senza preoccupazioni al gioco lieve e indiavolato delle sue creature d'un
momento. |