CRITICA LETTERARIA: TRECENTO

 

Luigi De Bellis

 
 
  HOME PAGE

Dino Compagni e Giovanni Villani

La poesia minore del Trecento

La cupa arte di Jacopo Passavanti

Aspetti del linguaggio di Santa Caterina da Siena

La prosa dei "Fioretti"

Motivi e sintassi del "Trecentonovelle"

Un narratore popolare: Andrea da Barberino






 


La prosa dei "Fioretti"
di A. MOMIGLIANO



In queste pagine il Momigliano svolge un'analisi dei Fioretti che abbraccia sia l'aspetto religioso sia quello letterario dell'opera: e chiarisce gli stretti rapporti che intercorrono tra l'ispirazione religiosa francescana, fondata sull'umiltà e sull'atteggiamento di lode di fronte alla Creazione, e i caratteri di semplicità, vivacità e limpidezza in cui questa spiritualità si traduce.

Quella dei Fioretti è proprio la prosa del rapimento, della mansuetudine e dell'affetto. Ha una semplicità che non è dei poveri di mente, ma di coloro che sono abituati a sfrondare le cose del mondo. È quasi scarna, e sembra alleggerita dalla meditazione costante sui pochi sentimenti che reggono davvero la vita, fatta trasparente dalla dimestichezza con la povertà che insegna quanto poche siano le cose necessarie a vivere.

E perché chi scrive ha una lunga abitudine alla riflessione, ha lo sguardo sicuro, penetra facilmente i caratteri, delinea con poche parole una scena, riflette in un dialogo brevissimo i personaggi e le consuetudini del loro spirito. Anche qui le impressioni che si staccano dal fondo del libro, sono rare, perché quasi dovunque si tratta di uomini umili e pii. Ma dove la materia cambia, si rivela una vivacità drammatica insospettata, la quale - tuttavia - ha sempre la stessa fonte spirituale. Un giorno, mentre San Francesco è in orazione nella selva, un giovane picchia « in fretta e forte e per grande spazio » alla porta del convento. Frate Masseo apre: «Onde vieni tu, figliuolo, che non pare che tu ci fossi mai più; sì hai picchiato disusatamente?». «E come si dee picchiare?». «Picchia tre volte, l'una dopo l'altra, di rado: poi aspetta tanto che 'l frate abbia detto il pater nostro e venga a te; e se in questo intervallo e' non viene, picchia un'altra volta». Il giovane ha fretta: vorrebbe parlare con San Francesco, ma poiché questi è in contemplazione, fa chiamare frate Elia. Frate Masseo tarda a tornare: il giovane picchia un'altra volta come prima. Poco dopo frate Masseo viene alla porta e dice: - Tu non hai osservata la mia dottrina nel picchiare. - Il giovane sa che frate Elia non vuol moversi, e gli fa comandare da San Francesco di ubbidire. «Udendo frate Elia l'ubbidienza di Santo Francesco, andò alla porta molto turbato, e con grande impeto e romore l'aperse, e disse . al giovane: - Che vuoi tu?». Il pellegrino gli pone la sua questione; Elia gli risponde superbamente: «Io so bene questo, ma io non ti voglio rispondere; va' per gli fatti tuoi». Il giovane replica: «Io saprei meglio rispondere a questa quistione, che tu». «Allora frate Elia, turbato, con furia chiuse l'uscio e partissi. Poi cominciò a pensare della detta quistíone». E non sapendola risolvere, torna alla - porta per domandarne al giovane: «ma egli s'era già partito; imperocché la superbia di frate Elia non era degna di parlare coll'Agnolo ». Che il pellegrino sia un angelo si presente dal modo com'è delineata la sua figura, dal modo com'egli arriva alla porta, dalle cose che egli mostra miracolosamente di sapere, dal misterioso significato che ci sembra d'intravvedere nel fatto che proprio durante questa visita San Francesco «orava nella selva colla faccia levata verso al cielo»: ma più si sente la sua natura sovrumana in questa scena dove è accennato con un tocco cosí leggero e reale il profilo flemmatico del frate portiere, e colla stessa sicurezza e con un atteggiamento più riflessivo l'impetuosità di frate Elia.

Questi quadretti rapidi e sottili sono rari, e per la loro brevità si dimenticano. Ma anch'essi guidano a comprendere la fisonomia e i modi dominanti del libro. Come poco basta allo scrittore per cogliere un movimento o un'abitudine dello spirito, cosí poco gli basta per dar l'impressione della santità e della campagna romita. Egli ha una rara esperienza della vita morale: e una sfumatura e certe pause naturali e significative valgono per lui più di molte parole. Ha la sobrietà che nasce dalla lucidità interiore, dall'avere per guida costante un sentimento risoluto: qualità necessaria cosí al santo come al poeta.

I Fioretti sono il poema dell'umiltà, dell'aspettazione fiduciosa: tutto il resto, tutto ciò che non giova a questo sentimento, non è veduto, è come se non esistesse. La realtà è orientata in un certo modo, e ridotta, come avviene sempre nell'opera di un poeta: nulla vi è di estraneo a quell'orizzonte. E perciò il libro è pieno di armonia, ed è tutto consapevole del suo fine; e questo fine, purissimo, spira nella sua prosa come il soffio che dà forma ad una fiala di cristallo.

Bisogna aggiungere, per dire tutta la verità, che il volume è più uguale che ricco, che la sua arte è inconsapevole, che perciò la materia è spesso ripetuta, non molto ordinata né collegata, e a lungo andare anche gli atteggiamenti stilistici rivelano i limiti di quella poesia. I Fioretti nascono da un solo motivo generatore: ma questo motivo è poco fecondo. Perciò la lettura continua stanca, e i capitoli famosi non sono molti: quello di frate Leone, a periodi lirici e calmi, come di un inno alla perfetta letizia; quello del lupo che, mansuefatto da San Francesco, «entrava dimesticamente per le case, a uscio a uscio, senza fare male a persona, e senza esserne fatto a lui», e «giammai nessuno cane gli abbaiava dietro»; quello della predica agli uccelli, che alle parole del santo aprono i becchi e distendono i colli e aprono le ali e reverentemente inchinano i capi infino a terra, e poi si levano in aria con maravigliosi canti e volano per i quattro punti dell'orizzonte, presagio dolce e solenne della fortuna dei poverelli di Cristo. Ma qualche altro meriterebbe la stessa fama: quello di Sant'Antonio che predica ai pesci, stesi dinanzi alla riva in un cerchio ordinato e grandioso, descritti con lo stesso nitore degli uccelli, e come accarezzati dallo stesso affetto; e quello di San Francesco che loda a frate Masseo la povertà, ciò che non è procurato dall'industria umana ma apparecchiato dalla provvidenza divina, il «pane accattato», «la mensa della pietra cosí bella», «la fonte cosí chiara».

Tutto il libro è una lode, ora sommessa, ora alta, della creazione. Ma quando lo scrittore è dinanzi alle creature semplici - gli animali -, e alle cose che Dio ha fatto per i bisogni immediati dell'uomo, la sua parola si fa più commossa, acquista una tenerezza piena di gratitudine e d'innocenza.

Cosí la sua ammirazione è per i tuguri coperti di graticci, per .i letti fatti di poca paglia distesa sulla nuda terra, per le anime che ignorano il desiderio e l'orgoglio.

In questa solitudine a cui bastano un sorso e un pane, l'anima si fa più fine e più penetrante, si sgombra delle passioni, e la sua parola diviene persuasiva e amorevole. Chi scrisse questo libro, dovette partecipare delle stesse esperienze spirituali di San Francesco: altrimenti non si spiegherebbe la naturalezza e la brevità convincente, con cui egli ritrae la facile chiaroveggenza psicologica del protagonista e la sua spontaneità nell'indovinare e soggiogare le anime.

2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it