Negli
ultimi decenni dell'Ottocento nel contesto europeo si verifica una
serie di trasformazioni dell'assetto economico-sociale, delle quali
partecipa naturalmente anche l'Italia. Un dato fondamentale è il
passaggio dal cosiddetto capitalismo concorrenziale al capitalismo
monopolistico o oligopolistico, che comporta un processo di concentrazione
delle strutture produttive, di un determinato settore e quindi il
costituirsi di gruppi di pressione e di interessi che innescano
un'intensa competizione tra gli stati per la conquista sia di
materie prime sia di nuovi mercati. Da queste solide motivazioni
economiche nascono miti di supremazia nazionale, di conquista (e
quindi la teorizzazione dello "Stato forte"), di
"missione dell'uomo, branco", di violenza e di avventura.
Dall'idea di nazione, che nella prima metà dell'Ottocento era stata
intesa come legittima affermazione della propria identità
nazionale, si passa ora al nazional-imperialismo e al colonialismo,
al disprezzo dell'egualitarismo democratico, all'esaltazione della
grande personalità al vagheggiamento dello Stato forte. In questa
complessa trasformazione della società europea si intrecciano
condizionamenti economici e ideologie, si influenzano
vîcendevolmente miti letterari e comportamenti degli individui e
dei gruppi.
In Italia negli ultimi decenni dell'Ottocento la costruzione di uno
Stato unitario pone problemi complessi: la repressione dei
malcontento meridionale sfociato nel banditismo; il pareggio del
bilancio raggiunto con una tassazione spesso esosa; l'organizzazione
scolastica e l'unificazione linguistica; l'avanzare del "quarto
stato" che si esprime ora in jacqueries e disperate proteste
ora nelle prime organizzazioni mutualistiche e socialiste;
l'inserimento del nuovo Stato nel gioco della politica europea. A
confronto con le speranze e le idealità risorgimentali la realtà
nazionale di fine Ottocento appare di una grigia mediocrità, la
vita parlamentare immiserita nei giochi trasformistici. Da ciò
sorgono molteplici atteggiamenti variamente legati però fra di
loro: la cosiddetta delusione risorgimentale (già presente in
Carducci e in Verga); il disprezzo per i principi e la pratica
democratico-parlamentare; il vagheggiamento di uno Stato forte (Fogazzaro
e D'Annunzio se ne
faranno banditori); l'esaltazione delle grandi personalità e il
conseguente disprezzo per la "plebe". Siamo di fronte a
una revisione di fondo della cultura precedente, dei princìpi - in
sintesi, il positivismo - che nel corso del secolo avevano ispirato
l'ascesa della borghesia. Questa revisione o meglio questa crisi è
d'altra parte riscontrabile in tutta la cultura europea. Le certezze
positivistiche, la fiducia nella scienza liberatrice dall'ignoranza,
dalla malattia, dalla miseria, l'assoluta validità dei metodo
scientifico, fa convinzione che il progresso sia inarrestabile ora
vengono contestate; e il pensiero filosofico e scientifico
sottolinea la relatività della conoscenza scicltifíca (Einstein),
rivela l'incidenza, nei cemportamenti dei singoli e delle
collettività, di componenti oscure e di pulsioni che sfuggono alla
consapevolezza (Freud), e tende alla
demistificazione dei valori fondati sul progresso scientista e
sull'etica borghese che ora vengono considerati falsi valori
(Nietzsche). Questo orientamento fondamentalmente razionalistico
percorrerà a lungo l'Europa generando inquietudini e ricerche,
inciderà profondamente nelle manifestazioni artistiche sia, per le
tematiche sia per le tecniche, e costituisce per così dire una
"cifra" dell'arte novecentesca.
In Italia questo clima novecentesco è ben evidente nel
quindicennio giolittiano, nel corso del quale prende avvio un
processo di intensa industrializzazione che comporta una serie di
problemi: si accentua il divario fra Nord e Sud; si intensifica lo
scontro sociale per il costituirsi di organizzazioni politiche di
operai e braccianti; si diffondono i miti della competitività,
interna e internazionale, del nazional-imperialismo, della conquista
e dello Stato forte. Lucidamente consapevole del nuovo clima,
Giolitti tenta un coraggioso disegno politico: quello di integrare
nell'anemico stato liberale italiano le nascenti forze operaie, di
realizzare una conciliazione, un blocco, tra le forze socialiste e
il liberalismo avanzato. Ma questo disegno, che nei primi tempi
sembrava destinato al successo, fallisce, in quanto egli si trova a
dover combattere con un'opposizione di destra e con una di sinistra.
A destra le esaltazioni nazionalistiche, la teorizzazione dello
Stato forte, la polemica contro una politica "pacifista" e
imbelle assumono una sempre più virulenta consistenza. Si
distinguono in queste posizioni - collegate anche ai desiderio di
fare tabula rasa dei valori dei passato, a un'inquieta
disponibilità ai "nuovo" - le riviste fiorentine e i
futuristi: su «Hermes», sul «Leonardo», sul «Regno», nelle
serate futuriste, folti gruppi di intellettuali esaltano
l'avventura, il rischio, la missione africana dell'Italia,
contaminando la dannunziana lezione di una vita d'eccezione col
torbido esplodere di posizioni irrazionalistiche e con gli interessi
espansionistici della grande industria. Da sinistra Giolitti viene
attaccato come gestore dello Stato "borghese", e la
polemica trae alimento dall'affermarsi, in campo socialista, di una
corrente massimalista e di una mitologia della violenza
rivoluzionaria che trovano alimento nella ferrea logica del processo
di industrializzazione ed espressione esemplare negli scritti di
George Sorel, che proprio in quegli anni si diffondono in Italia.
Con un'abile politica pendolare Giolitti riesce a tenersi in
equilibrio tra le due opposizioni: ora combatte il potere delle
concentrazioni bancarie, ora fa concessioni agli interessi
industriali e alle mitologie nazionalistiche con l'impresa di Libia,
ora con le leggi di tutela del lavoro e con la riforma elettorale
realizza fondamentali aspirazioni socialiste. Ma le lotte per
l'intervento e il prevalere - in dispregio della volontà del
parlamento - delle forze nazionalistiche, del mito della guerra come
"sola igiene del mondo", degli interessi della grande
industria e degli intrighi della monarchia portano l'Italia nella
prima guerra mondiale e pongono fine all'egemonia di Giolitti.
Prima di passare in rassegna la fisionomia letteraria di questa
età, sarà utile soffermarsi sulle caratteristiche che ha assunto
in questo periodo il "mercato delle lettere". Molteplici
fattori economici, sociali, culturali e ideologici determinano in
questo periodo un allargamento del pubblico dei lettori, che via via
comincia ad includere anche i ceti subalterni. Si tratta di fattori
che interagiscono fra di loro: la costruzione dello Stato unitario e
l'unificazione amministrativa comportano la diffusione di una
burocrazia e l'adozione di una lingua nazionale, ma per diffonderla
bisogna lottare contro l'analfabetismo e quindi avviare un processo
di larga scolarizzazione. Sono processi lenti, specie per quanto
riguarda le classi subalterne, ma che già nell'età gîolittiana
danno frutti. Si aggiunga a questo - ma qui il discorso riguarda gli
strati borghesi - l'influenza che esercita D'Annunzio contaminando
la letteratura con la mondanità, intuendo che il giornalismo può
essere un veicolo per accostare il lettore alla letteratura e che il
romanzo è il genere più adatto all'allargamento del pubblico
potenziale. Si intreccia con questi fattori - causa ed effetto
insieme l'industria editoriale che sollecita e accontenta insieme i
bisogni di un pubblico che lentamente ma costantemente si allarga:
te case editrici Sonzogno e Treves con la loro produzione (popolare
e divulgativa quella di Sonzogno, più borghese e rivolta alla
narrativa contemporanea quella di Treves) testimoniano che in età
giolittiana si può già parlare di una produzione di consumo. di
una letteratura di massa.
Passando ora agli aspetti specificamente letterari, la profonda
crisi epocale di cui abbiamo parlato all'inizio dà luogo a quella
fase dell'arte e della cultura europea che viene definita
unitariamente decadentismo. ma che presenta una gamma assai
variegata di soluzioni in rapporto alle singole aree nazionali e ai
singoli autori. Sono certamente comuni a tanti artisti decadenti un
cupo senso di stanchezza, una lucida consapevolezza di estraneità
alla vita normale, di "inettitudine", un'insuperabile
sfiducia nell'agire umano, quasi un'ebbrezza di rovina, dovuta alla
coscienza di essere degli epigoni, la voce di un'età che vive il
suo tramonto (era stato Verlaine il primo a paragonarsi, in un verso
che ora diventa un emblema, all'impero romano sul finire della sua
decadenza). Questa coscienza di epigoni e questa predilezione per le
epoche in disfacimento costituiscono un terreno comune a tanti
artisti del decadentismo, dal quale deriva tutta una serie di temi
ricorrenti: gusto delle esperienze "estreme" e ricerca
della lussuria; stanchezza ed estenuazione dei sensi; femminilità
ambigua e perversa (da Salomè - rappresentata dal pittore Moreau,
da Huysmans e da Wilde - a tutte le
donne che popolano la prosa e la poesia dannunziana); contemplazione
della morte delle cose e della società. Nato da una frattura fra
l'artista e la società, che col progressivo affermarsi della
civiltà di massa era destinata ad accentuarsi, il decadentismo si
esprimeva anzitutto nell'enfatizzazione della diversità (da
Huvsmans a D'Annunzio), nell'angoscia
della solitudine o dell'inconoscibilità del reale (Pascoli,
Pirandello), nel
privilegiamento della "malattia" rispetto alla
"salute" (Mann, Svevo),
nel compiacimento vittimistico.
Ma c'è un'altra espressione, sia pure minoritaria, del
decadentismo: la coscienza della diversità, l'assenza di legami con
la comunità poteva costituire la premessa per lo scatenarsi di uria
volontà di affermazione individualistica, per la celebrazione delle
valenze vitalistiche e irrazionali, per la supremazia dell'uomo
d'eccezione, (lei superuomo (che Nietzsche teorizzava in quegli
anni) sulla "plebe".
Nella letteratura italiana il decadentismo trova parecchie - e
ovviamente differenziate - espressioni. Pascoli,
deluso nelle iniziali speranze laiche di estrazione positivistica
fil progresso scientifico e il socialismo), smarrito di fronte al
mistero del mondo e al dolore dell'uomo, tenta di carpire alle cose
di ogni giorno il loro senso riposto, ne esprime il mistero
ricorrendo al simbolo, scruta e si scruta con voluttà di pianto. La
posizione di D'Annunzio è
più vistosa ma meno profonda: il suo decadentismo saturo di
compiacimenti estetizzanti è soprattutto - ma non sempre - giocato
sul versante attivistico e diventa celebrazione di vitalistica
ferinità, mito del superuomo, culto del bel gesto. In Pirandello la
sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà, il relativismo
gnoseologico approdano alta coscienza della solitudine e
dell'incomunicabilità dell'io, al frantumarsi della personalità:
nella rappresentazione che nella narrativa e nel teatro egli dà
della vicenda umana c'è posto per l'assurdo e il grottesco, ma
anche per una dolente pietà della condizione-umana, per la «pena
di vivere cosi». Sul fallimento, sullo scacco, sulla "senilità"
come inettitudine alla vita normale, sulla malattia è centrata la
narrativa di Svevo, che nella
Coscienza di Zeno stempera il suo pessimismo in una distaccata e
superiore ironia.
Sono, questi autori, espressioni esemplari di un'età di crisi e
di profondo malessere, che sarebbe durata ben oltre il quindicennio
giolittiano e che però trova una sua ulteriore espressione - non
intimistica e riflessiva ma aggressiva, urlata, nichilistica - nelle
avanguardie: l'espressionismo, che si sviluppa nell'area germanica
già in questo periodo e troverà significative espressioni
nell'immediato dopoguerra, è una violenta reazione al buonsenso e
all'ottimismo borghese, è «la poetica della vita tramontata;
violentata, della disperazione, della morte e dell'assurdo che ne
hanno preso il posto» (Bonesio) e predilige forme espressive
"urlate", grottescamente deformanti, violente, dissonanti;
il futurismo, l'unica avanguardia italiana, intende fare piazza
pulita delle tematiche e delle modalità dell'arte del passato,
ripudia le complicazioni intimistiche e i "chiari di
luna", esalta l'aggressività, le valenze istintuali e
vitalistiche, la velocità, e propugna un radicale scardinamento
delle modalità espressive tradizionali (è difficile comprenderlo
senza collegarlo al clima di aggressiva competitività conseguente
allo sviluppo capitalistico della società italiana); il dadaismo;
sorto a Zurigo nel 1916, si fonda sull'alogicità, sul nonsense,
sulla provocazione fine a se stessa: ma questa vocazione
distruttiva, nichilistica, finisce col diventare un vicolo cieco che
non dà adito ad alcuna realizzazione.
Se ora rivolgiamo l'attenzione ai singoli generi letterari, non
sarà difficile cogliere i segni di quel processo di superamento
della tradizione, di inquieta ricerca di novità che caratterizza
quest'epoca. Nell'ambito della produzione poetica Pascoli
e D'Annunzio, di contro
alla poesia tradizionale che aveva avuto in Carducci il suo ultimo
aulico esponente, danno inizio al rinnovamento ma con vistose
differenze: Pascoli crea il
nuovo nel rispetto delle strutture metriche tradizionali,
dissolvendole dall'interno, spezzando i ritmi tradizionali in una
musica nuova, ricca di pause e di silenzi, e col ricorso, da un
lato, agli effetti fonosimbolici e, dall'altro, al simbolo, cerca di
dar voce al mistero che ci circonda; D'Annunzio
supera le strutture metriche tradizionali, adotta con varietà
il verso libero, dà voce con una lingua ricercata e fastosa
all'inesauribile trama di rapporti tra l'uomo e il mondo della
natura. Al rinnovamento, alla destrutturazione delle forme
tradizionali contribuiscono in vario modo i futuristi più con
enunciazioni di poetica che con durevoli realizzazioni di poesia (ma
L'Allegria di Ungaretti si
spiega solo tenendo conto dell'esperienza futurista) e i
crepuscolari con l'adozione di un linguaggio antiletterario o con
un'abile contaminazione di letterario e di parlato e con l'ironico
trattamento a cui sottopongono strutture metriche e rime. Intanto,
esiti di grande interesse e suggestione raggiungono Clemente
Rebora con le sue asprezze espressionistiche e Dino
Campana con la sua dimensione favolosa e onirica. Saba
realizza già risultati notevoli, ma la sua fisionomia si
chiarirà meglio in seguito.
Meno ricco il panorama della narrativa, dove per l'ampliamento del
pubblico al quale si è accennato prevale una produzione di
intrattenimento, di consumo (Guido Da Verona
volgarizza in accattivante erotismo le tematiche dannunziane):
ma due opere fondamentali sconvolgono le modalità narrative
tradizionali: le novelle e soprattutto Il fu Mattia Pascal di Pirandello
e l'antiromanzo il codice di Perelà di Palazzeschi.
Nella produzione teatrale, accanto alla persistenza di modalità
veristiche o naturalistiche, sono presenti indicazioni e
realizzazioni orientate verso il nuovo. Il superamento del teatro
naturalistico avviene o attraverso una particolare attenzione
dedicata ai valori poetici del testo (è il cosiddetto "teatro
di parola" o "teatro di poesia", di cui D'Annunzio
è in Italia il maggior esponente) o attraverso l'utilizzazione
di suggestioni che derivano dalle avanguardie (è in parte il caso
del cosiddetto "teatro del grottesco").
L'autore di rivoluzionaria originalità è Pirandello,
la cui definitiva affermazione si avrà negli anni Venti, ma che
già negli anni 1916-18 ha dato, fra l'altro, due testi fondamentali
della sua produzione: Il berretto a sonagli e Così è (se vi pare). |