Differenti ambiti tematici
Comincia con il 1940, all'incirca, il decennio più
ricco dell'attività creativa di Pavese, che
produce opere assai diverse tra loro sia per
scelta tematica che per modalità stilistica (si
pensi, come casi limite, a IL compagno e ai
Dialoghi con Leucò, scritti entrambi nel 1945-46:
Il compagno è la storia dell'educazione
sentimentale e della presa di coscienza politica
di Pablo, il protagonista, e in certo qual modo
risente degli entusiasmi neorealistici e indugia
nell'attenzione all'ambiente e ai tipi umani; i
Dialoghi invece si distinguono per l'elaborazione
intellettualistica, per il costante distanziamento
della realtà alla quale viene sostituita una
simbologia densa di riferimenti culturali). C'è
ovviamente una logica interna in questo suo
cimentarsi su temi e registri stilistici diversi,
in questo sperimentalismo, una logica che però non
è agevole rendere esplicita. Come semplice ipotesi
- e quindi con tutte le conseguenti riserve - si
potrebbe sostenere che la riflessione sul mito,
con la variegata gamma di implicazioni, anche sul
piano della poetica, che essa comporta, orienta
Pavese in due direzioni in apparenza diverse e
lontane, ma sostanzialmente interdipendenti e
confluenti verso un obiettivo unitario. Per un
verso cioè egli sente il bisogno di dare parola e
forma a questo recupero del fondo costitutivo
della propria personalità radicato nell'infanzia,
nella campagna, negli accadimenti e nelle
impressioni che si sono aureolati di una
dimensione mitica, ed ecco su questo versante i
racconti e le prose di Feria d'agosto, che
comincia a scrivere nel 1940, ecco i Dialoghi con
Leucò, iniziati nel 1945, ecco la "summa" - e il
doloroso approdo - di questa ricognizione, La luna
e i falò del 1949. Per un altro verso alterna e
oppone a questa ricerca la rappresentazione del
non autentico, della dissipazione cittadina (è il
topos campagna/città), del cicaleccio mondano,
dell'eros senza amore, fallimentare tentativo
nella ricerca dell'autenticità: ed ecco - entrambi
del 1940, quando cioè lavora sull'altro versante
con Feria d'agosto - il racconto La bella estate
(che mette in evidenza quanto di inevitabilmente
degradato c'è nella dimensione cittadina,
rappresentando un ambiente "libero" di giovani
pittori nel quale la giovane Ginia, introdotta da
un'amica dagli ambigui comportamenti, vive le sue
esperienze) e La spiaggia, nel quale «la
rappresentazione del mondo borghese, futile e
sfaccendato, prende quasi tutto lo spazio del
racconto» (Tondo). La stessa coesistenza di
interessi diversi si riscontra ancora negli ultimi
anni: il '49 è l'anno de La luna e i falò, ma
anche di Tra donne sole, dove tema predominante,
anche se non unico, è l'indagine su un ambiente
borghese fatuo e cinico nel quale uomini e donne
cercano di riempire il vuoto delle loro giornate
con un disimpegnato gioco amoroso. Non sarà forse
inutile aggiungere che questi due ipotizzati
ambiti tematici sono per così dire speculari e nel
corpus della narrativa di Pavese si integrano
reciprocamente: la messa a fuoco dell'uomo
depauperato e alienato nel contesto cittadino
legittima e sollecita la ricerca della sua
totalità umana e delle sue radici.
Modalità stilistiche
Ovviamente una catalogazione come quella proposta
lascia aperto il problema delle specifiche
modalità di ogni singola opera, degli specifici
problemi che di fronte ad ognuna di esse Pavese si
poneva (e che sono ampiamente testimoniati nel
Mestiere di vivere). E procedendo anche su questo
argomento - di necessità - con indicazioni di
massima, ci sembra legittimo affermare che è lo
stesso intento da cui Pavese muove - questa
ricerca dell'"autentico", questa ricognizione di
sé a favorire nella scrittura modalità in senso
lato liriche, suggestioni musicali, simmetrie e
corrispondenze non casuali. È evidente a questo
proposito che le suggestioni della prosa d'arte e
dell'«aura poetica» perseguita dai solariani, per
lui (come, d'altra parte, per Vittorini) non sono
passate invano. Era d'altra parte lo stesso Pavese
ad annotare: « La parola che descrive (echeggia)
un rito (azione magica) o un fatto dimenticato e
misterioso (evocazione) è la sola arte che
m'interessa». E così in Feria d'agosto - un libro
fondamentale nell'itinerario di Pavese, quello nel
quale si può dire egli avvia consapevolmente la
ricerca di queste modalità - ci troviamo di fronte
a pagine di alta concentrazione lirica e
simbolica; nei Dialoghi con Leucò «le pagine più
alte sono quelle che non vogliono essere capite ma
soltanto richiedono un abbandono al loro lirico e
tranquillo fluire. Quelle cioè in cui il travaglio
critico si placa e l'artificio si dissolve in puro
ritmo, cui concorrono la scelta e la collocazione
delle parole» (L. Mondo); ne La luna e l 'falò non
possono sfuggire all'attenzione del lettore certi
abbandoni lirico-elegiaci («Di tutto quanto, della
Mora, di quella vita di noialtri che cosa resta?
Per tanti anni mi era bastata una ventata di
tiglio la sera, e mi sentivo un altro, mi sentivo
davvero io; non sapevo bene perché...») o certe
calcolate simmetrie e scansioni musicali. («La
stessa corda col nodo / pendeva dal foro
dell'uscio. / La stessa macchia di verderame /
intorno alla spalliera del muro»). Solo un'attenta
auscultazione del testo può rivelare ovviamente la
varietà delle tecniche a cui Pavese ricorre per
ottenere i suoi effetti, ma da quanto detto
prendiamo spunto per sottolineare un aspetto
specifico della sua narrativa: la quale non si
distingue certo per complessità di trama o
ampiezza di architettura, ma trova bensì la sua
struttura più propria in una sorta di
spezzettamento in brevi capitoli potenzialmente
sottesi quasi sempre da una vocazione
lirico-evocativa, e «si affida al romanzo breve o
racconto lungo, cioè alla misura ideale per
consentire che la tensione stilistica provocata
dall' "evento" non si deteriori» (Pautasso).
Due testi esemplari
Ma queste distinzioni fra opere o ambiti tematici
differenti e pur, come si è detto, in ultima
analisi confluenti ad esprimere una personalità
umana, un modo di stare al mondo, vanno prese - lo
ripetiamo - con elasticità, mirano a fornire solo
un primo orientamento. Nella produzione di un
autore rappresentativo c'è sempre un testo (o dei
testi) in cui più che negli altri - per l'incisiva
presenza dei suoi temi specifici, per la qualità
degli esiti formali, ecc. - egli si è espresso, si
è rivelato in maniera più piena e felice. Nel caso
di Pavese - per un giudizio che ormai si può
ritenere acquisito questi testi sono La casa in
collina e La luna e i falò.
La casa in collina, scritto fra il settembre 1947
e il febbraio 1948, fu pubblicato quello stesso
anno assieme a Il carcere, scritto invece nel
'38-'39, in un unico volume dal significativo
titolo Prima che il gallo canti: il richiamo del
famoso versetto evangelico, che riferisce le
parole di Cristo agli apostoli («Prima che il
gallo canti uno di voi mi tradirà»), chiarisce già
le ragioni dell'accostamento dei due romanzi e il
giudizio di Pavese sulle vicende e sulla
personalità dei due protagonisti: Stefano del
Carcere, «troppo schiavo della sua solitudine per
non amarla» (Tondo), e il Corrado de La casa in
collina, che in un tempo di scelte e di impegno,
mentre i suoi amici rischiano e pagano nella lotta
partigiana, coltiva la sua sia pur problematica
solitudine e resta estraneo alla realtà che lo
circonda. C'era, nella vicenda di Corrado, un
evidente riscontro col comportamento dello
scrittore al tempo della Resistenza, ma la
rappresentazione va ben al di là dell'analisi
psicologica e acquista significato perché si
sostanzia di una forte componente etica e di una
capacità conoscitiva della realtà. Vogliamo dire
cioè che per un verso il protagonista approda ad
una lucida consapevolezza delle sue carenze e, sia
pure alla fine, scopre che la sua vita è stata «
un lungo isolamento, una inutile vacanza», e
potremmo aggiungere, sulla scorta del titolo
evangelico, un "tradimento" (questa conclusione,
pur tenendo conto del complesso rapporto tra
autobiografia e rappresentazione artistica, è
assai importante per capire l'itinerario di
Pavese); dall'altro, della vicenda di Corrado,
Pavese «approfondisce con chiarezza i termini
sociali e di classe, misurandoli sui problemi
posti dall'urgere della storia. Sta qui la
differenza da IL carcere [...] : il tema è sempre
la solitudine, ma questa cessa di essere un
immobile stato d'animo per divenirne concreta
condizione individuale e storica e, nel contempo,
segno di un destino» (Luperini). Corrado è cioè
connotato nella sua fisionomia sociale, di classe
(cap. IX: «per chi ha la pagnotta e può stare in
collina, la guerra è un piacere», dice la "vecchia
di Cate" a Corrado). Per questa tensione etica che
lo anima, per l'impegno di una rappresentazione
che si risolva in conoscenza della realtà, per la
presenza - in doloroso o lirico contrappunto - dei
miti cari a Pavese (l'infanzia, la collina, le
Langhe, ecc.) La casa in collina è, a giudizio di
molti, il romanzo più notevole di Pavese. Si
tratta cioè di una sorta di romanzo-bilancio,
circoscritto però ad un preciso ambito cronologico
(il tempo della Resistenza) e ai relativi problemi
che esso pone al protagonista.
Anche La luna e i falò, scritto nel 1949-50, è un
romanzo-bilancio, ma di maggiore ampiezza
tematica, appunto perché non circoscritto ad un
evento che quei temi sollecita e giustifica.
L'impianto de La luna e í falò, al di là delle
notazioni sul post Resistenza e sulle beghe
politiche paesane (pagine che sono in molti a
ritenere non pienamente riuscite), in realtà è
sottratto alla limitante contingenza, è atemporale:
è il nostos, il ritorno; e questa situazione
narrativa fa sì che la vicenda di Anguilla - il
protagonista che dopo l'esperienza di emigrato in
America sente il bisogno di ritornare - assurga a
dimensione perenne, diventi una sorta di
situazione archetipica. All'interno di questo
"stampo", di questa "situazione" Pavese cala i
suoi temi e i suoi principi teorici lungamente
meditati: il ritorno all'infanzia, la
rivisitazione dei poderi e delle cascine delle
Langhe come occasione di una necessaria anàmnesi,
come percorso obbligato per conoscersi (o
ri-conoscersi), per acquisire consapevolezza del
proprio destino; la ricognizione dei luoghi della
propria mitologia privata. Mala novità specifica -
gravida di conseguenze - de La luna e i falò
(rispetto, ad esempio, a Feria d'agosto) è
costituita dal fatto che il pellegrinaggio ai
luoghi mitici dell'infanzia si risolve nella
constatazione di quanto ormai è perduto per
sempre: «Di tutto quanto, della Mora, di quella
vita di noialtri, che cosa resta?». Scomparse le
persone, mutati i luoghi, crudele la realtà
presente: al ricordo dei falò che Anguilla si è
portato nell'anima nella sua solitudine americana
- i falò rituali ai quali i contadini nelle Langhe
ricorrono per «svegliare la terra» - ora si
sovrappongono altri falò: quello con cui i
partigiani hanno bruciato una delle figlie del sor
Matteo, quello del Valino. Nemmeno la mitica
infanzia nei suoi luoghi e nei suoi miti può
offrire più un'ancora di salvezza. E qui allora il
ricordo, come qualcuno ha notato, non è proustiano
abbandono, vagheggiamento elegiaco, ma amarezza e
sapore di cenere. La matrice decadentistica, alla
quale tanta parte della produzione di Pavese si
ricollega, si rivela qui pienamente.
Anguilla-Pavese, oppresso dal passato e dal
presente, deve constatare che «crescere vuol dire
andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la
Mora com'era adesso». È la lucida e dolorosa
constatazione dell'irrimediabile legge di morte
che è connaturata alle cose dell'uomo; pochi mesi
dopo, Pavese suggellava col suo tragico gesto
questa desolata conclusione. |