Intreccio e struttura
È piuttosto difficile esporre con un certo ordine
l'intreccio di questo romanzo e ciò è dovuto alla
sua particolare struttura, che poggia sulla
contaminazione di tempi differenti, di presente e
di passato, di accadimenti dei quali il
protagonista è ora spettatore e di memorie e
rievocazioni del passato. Protagonista è Anguilla,
un trovatello che è cresciuto nelle Langhe
lavorando in campagna presso varie famiglie ed è
poi emigrato in America. Qui ha pur fatto fortuna
e tuttavia ritorna alle sue Langhe per un oscuro
bisogno di ritrovare la propria identità. Su
questo impianto che ha alle spalle una millenaria
tradizione - è il nostos, il ritorno utilizzato
già dall'epica - si dipana la vicenda di Anguilla
ed è forse possibile distinguere ma prendendo
l'indicazione con elasticità - tre grandi blocchi
nella narrazione. Nella prima parte emerge
attraverso la rivisitazione dei luoghi - bricchi,
colline, cascine - fatta o da solo o in compagnia
di Nuto, l'amico d'infanzia ritrovato. il più
lontano passato di Anguilla che egli ha trascorso
nel casotto di Gaminella "a servizio" di una
misera coppia di contadini; ora, ai suoi vecchi
padroni è subentrato il Valino ma Anguilla ritrova
gli stessi aspetti delle cose («la stessa corda
col nodo pendeva dal foro dell'uscio... la stessa
pianta di rosmarino sull'angolo della casa») e la
stessa miseria di una volta e in un povero ragazzo
denutrito, Cinto, figlio del Valino, Anguilla
rivede se stesso. Ed intanto col recupero del
passato si intreccia il presente: le beghe di
paese, il clima di restaurazione politica del
finire degli anni Quaranta. Il secondo blocco
narrativo (capp. xv-xxv) è soprattutto centrato
sul tempo - che riemerge attraverso dialoghi con
Nuto o casuali sollecitazioni - trascorso da
Anguilla presso un altro podere, La Mora, e nella
memoria del protagonista ritornano i ricordi
collegati alle tre figlie del sor Matteo - un
benestante con «la palazzina... rosa in mezzo ai
suoi platani secchi» -, le "signorine" idoleggiate
da lontano, sentite come incarnazioni di una
femminilità conturbante ma, per il trovatello "a
servizio", inattingibile. Segue poi l'ultima
parte, che per così dire oppone all'elegiaco
recupero del passato un tragico presente: si apre
col capitolo mi che dà notizia del gesto disperato
del Valino che appicca fuoco alla cascina e si
impicca, e continua con la rievocazione - in forma
indiretta. attraverso il racconto che ne fa Nuto -
dal fallimentare destino delle figlie del sor
Matteo, una delle quali. Santa. diventata spia dei
fascisti. è stata fucilata dai partigiani. Sul
cadavere, racconta Nuto, «ci versammo la benzina e
demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L'altr'anno
c'era ancora il segno, come il letto di un falò».
Sono le ultime righe del romanzo.
Motivi
Un primo motivo di fondo de La luna e i falò è da
collegare alle meditazioni e agli studi sul mito
che Pavese inizia all'incirca ai primi anni
Quaranta e che lo portano alla valorizzazione
delle primigenie esperienze, che per ogni essere
umano si collocano nell'infanzia, la stagione
quindi nella quale si costituiscono le "mitiche"
componenti della propria individualità. La
ricognizione e la consapevolezza delle valenze
costitutive della propria personalità sono
possibili solo attraverso questo ritorno alle
"radici", cioè al mondo dell'infanzia (nella
biografia e nella mitologia di Pavese, la
campagna, la terra, il "paese" che saranno sempre
contrapposti alla città). Da queste radici, nel
caso specifico, Anguilla si è staccato e nella
vicenda della sua fallimentare esperienza
americana Pavese ha esemplificato le conseguenze
di questo distacco, di questo taglio; il ritorno
di Anguilla va visto alla luce di queste posizioni
ideologiche (che però non pesano sulla
rappresentazione, cioè non la appesantiscono con
intrusioni teorizzanti, ma ne costituiscono la
premessa). La "situazione" de La luna e i falò era
stata già anticipata in un racconto («La Langa»)
di Feria d'agosto (1945), e questo rapporto - non
solo sentimentale ma di sangue, quasi di osmosi
fisica - con la propria terra torna ad essere
ribadito nel romanzo: «Un paese vuol dire non
essere soli, sapere che nella gente, nelle piante.
nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando
non ci sei resta ad aspettarti».
La particolare fisionomia - all'interno della
produzione di Pavese - de La luna e i falò è
costituita però dal fatto che ora viene
rappresentata la non realizzabilità, il fallimento
di questo processo di ricongiungimento e di
reintegrazione della propria personalità nel clima
"mitico" del passato infantile. Ora tutto è uguale
e tutto è cambiato, e i falò non sono quelli che
nella ritualità contadina servivano a «svegliare
la terra» ma quelli che riducono Santina «tutta
cenere». È un motivo, questo, che, a partire
all'incirca dalla metà del romanzo, ricorre con
insistenza e assurge a lamento - ora elegiaco ora
disperato - della condizione umana: «male facce,
le voci le mani che dovevano toccarmi e
riconoscermi, non c'erano più. Da un pezzo non
c'erano più. Quel che restava era come una piazza
l'indomani della fiera, una vigna dopo la
vendemmia, il tornar solo in trattoria quando
qualcuno ti ha piantato».
Assieme a questo motivo (necessità di un ritorno
alle "radici" e impossibilità di realizzarlo), ne
appare sia pure tangenzialmente - un altro più
circoscritto, più contingente: il fallimento della
Resistenza, accennato attraverso la
rappresentazione delle beghe paesane e del
comportamento dei "notabili"; in parecchie pagine
il clima dell'Italia della seconda metà degli anni
Quaranta, cioè della restaurazione centrista, è
colto con rapida efficacia.
Si tratta certamente di un motivo secondario
nell'economia del romanzo, ma non per questo va
ignorato o ritenuto, come è parso ad alcuni
critici, estraneo e giustapposto.
Nuto
E d'altra parte il personaggio Nuto nella sua
solidità di «vecchio compagno», nei suoi giudizi
sui notabili o nella sua volontà di rinnovamento
sociale non riuscirebbe interamente comprensibile
prescindendo da questo (sia pure minoritario)
motivo politico. fiuto nel sistema dei personaggi
assolve rispetto ad Anguilla una funzione che è di
opposizione e di completamento: egli è rimasto nei
luoghi dove è nato e cresciuto, ne ha assimilato
l'atavica esperienza, sa che nella luna «bisogna
crederci per forza», che se provi «a tagliare a
luna piena un pino, te lo mangiano i vermi». Come
ha notato Lorenzo Mondo, Nuto ha molteplici
ascendenze: «è il clarinettista de I fumatori di
carta [in Lavorare stanca] e il Candido del
racconto il mare, fors'anche il Pablo de Il
compagno, liberato dalla chitarra e dalla
soggezione a Hemingway, e inserito in una
tradizione tutta italiana, quella dei Vittorini
("gli eroici furori") e dei Pratolini (il Metello
sindacalista "Se ti stacchi ti perdi"). A lui che
"di tutto vuol darsi ragione" e sostiene che "il
mondo è mal fatto e bisogna rifarlo" Pavese affida
il suo pungente moralismo, la sua ansia, più
religiosa che politica, di redenzione umana».
Tecniche narrative e stile
La struttura del romanzo alla quale abbiamo
accennato all'inizio comporta per il
protagonista-narratore la tecnica della
disarticolazione del tempo cronologicamente
inteso, cioè la continua interferenza di due piani
del tempo: il presente e il passato. Si potrebbe
forse anche sostenere che ad ognuno di questi
piani corrispondano modalità stilistiche
specifiche: una precisione di notazioni e di
dettagli, una vocazione "realistica" per la
rappresentazione del presente; una vocazione
"lirica", un abbandono a tonalità di «una
straziata e straziante melanconia» (A. Guiducci)
nella rievocazione del passato, ora che i1
protagonista-narratore sa che «crescere vuol dire
andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la
Mora com'era adesso». In questo secondo caso la
prosa di Pavese si distingue per spiccate valenze
ritmiche e melodiche; per un andamento poetico sui
quali la critica - da Beccaria a Finzi - ha
richiamato l'attenzione. È, a questo proposito,
opportuno ricordare le suggestioni di «Solaria»
alle quali la formazione letteraria di Pavese non
fu estranea. |