Gran parte delle esperienze poetiche che si sono
descritte nel precedente capitolo dedicato alla
lirica con la grande guerra (o poco dopo) si
interrompono bruscamente; più di rado si
esauriscono progressivamente uscendo però subito
dal nucleo vitale del sistema letterario, perdendo
cioè l'esemplarità storica che avevano avuto in
precedenza. Corazzini
è morto nel 1907, Gozzano
muore nel 1916, Moretti tace a lungo, come pure
Palazzeschi
(entrambi avranno una nuova interessante stagione
negli anni Sessanta);
Govoni prosegue a scrivere mantenendosi
fedele a se stesso, ma tra le due guerre la sua
nuova poesia esce dal novero dei fatti essenziali;
la maggior parte dei futuristi tace o muta
maniera, rientrando nei ranghi (il che significa
per molti anche l'adesione e la celebrazione del
nuovo regime); Campana è in manicomio dal 1918;
Rebora dopo i
Canti anonimi del 1922 si fa frate e tace;
Boine muore nel
1917; Jahier e
Sbarbaro
tacciono, o quasi... La guerra è dunque un
poderoso spartiacque: crepuscolarismo, futurismo,
vocianesimo cedono il passo ad altre esperienze.
Dopo le trasgressioni avanguardistiche e il trauma
bellico c'è nell'aria, non solo in Italia, il
bisogno di un generale ritorno all'ordine di cui
il calligrafismo della «Ronda» e la poesia di
Cardarelli (cfr.
18.2) rappresentano la principale componente
letteraria, quella che determina il tono medio
della lirica degli anni Venti in Italia (la
componente politica, va da sé, sarà presto il
fascismo).
Trascurando qui la poesia di
Saba, che sin
dall'anteguerra ha iniziato il suo itinerario di
grande appartato e che per ora è poco o punto
influente, la guerra e l'immediato dopoguerra
distillano anche due esperienze fondamentali e tra
loro in buona misura divergenti, se non
antitetiche: quella più precoce di
Ungaretti
(Il porto sepolto, che poi diverrà L'Allegria, è
del 1916) e quella di
Montale, che pubblica, dopo sporadiche
anticipazioni, gli Ossi di seppia nel 1925. Quest'ultima
nasce originalissima nel solco di una tradizione
che parte è crepuscolare e parte è vociana e
inclina subito verso una dimensione discorsiva,
ragionativa (paesaggi, oggetti simbolici e
commenti esistenziali e psicologici) e
moderatamente prosastica (una prosasticità che si
apre talora a movenze melodiche, più spesso a
sonorità scabre e aspre), prima di aderire ad una
più rigorosa poetica degli oggetti, che ha il suo
modello in Eliot, con Le occasioni prima e con La
bufera poi. Quella di Ungaretti nasce pure
originalissima, nel solco però di una tradizione
simbolista e avanguardistica (futurista,
apollinairiana, espressionista) nel complesso più
francese che italiana, e subito inclina con esiti
di straordinaria maturità espressiva verso una
poesia d'alta concentrazione lirica, di estrema
distillazione stilistica, nutrita di immagini
isolate e improvvise fulgurazioni: lirismo puro,
insomma, del tutto alieno dalla discorsività
diffusa propria del Montale coevo; lirismo che,
caso mai, nei suoi successivi sviluppi muoverà in
direzione di un recupero del canto disteso. Nei
loro rispettivi settori di influenza sono le due
esperienze che, con il tanto minore Cardarelli,
dominano il panorama della lirica fra le due
guerre fino all'ermetismo.
Il primo fatto destinato a colpire il lettore
dell'Allegria sono i cosiddetti "versicoli", e
cioè la rarefazione delle parole sullo sfondo
della pagina bianca e la frantumazione dei versi
tradizionali, ridotti sovente a brevissimi
sintagmi, a parole singole. Ma com'è possibile che
questo fatto in apparenza puramente grafico,
tecnico, lasciasse un segno tanto profondo nella
lirica italiana, dopo che praticamente ogni
oltraggio alla metrica e alla sintassi
tradizionale era stato già perpetrato dalle
avanguardie storiche!' Il punto è che L'Allegria
realizza una nuova sintassi lirica, che va ben al
di là di ogni sperimentalismo precedente
(simbolistico e avanguardistico) e giustifica il
giudizio di Sanguineti che in essa vede «il più
radicale esempio di rinnovamento formale
sperimentato dalla lirica del nostro secolo».
Quella dell'Allegria, infatti, non è tanto una
procedura grafica efficace e originale, è
piuttosto un vero e proprio linguaggio di
straordinaria intensità ed essenzialità lirica, in
cui le rare parole si stagliano sullo spazio
bianco della pagina con intensità e forza
evocativa analoga (nelle intenzioni) a quella con
cui la parola originaria e "autentica" si
stagliava nel silenzio. L'obiettivo, ma in gran
parte anche il risultato, è dunque la riconquista
di una significazione autentica ed essenziale (più
pagina bianca che pagina scritta) dopo l'orgia di
retorica della poesia dei vari poeti-vati, ma
anche dopo la provocatoria profluvie verbale delle
avanguardie. Mala poesia di Ungaretti si nutre
anche di una varietà di toni che va dal balbettio
al grido, di un lessico ora realistico e crudo ora
intimistico e sfumato, di sonorità ora dolci ora
aspre e scabre, e di una sintesi tra potenza
evocativa (impressionistica) e perentorietà di
dizione, nitidezza di contorni (espressionistica),
che ne fanno cosa nuova.
E indubbio poi che la situazione contestuale in
cui la lirica dell'Allegria vede la luce abbia
giovato all'efficacia di questa operazione. La
guerra, tragica e orribile quant'altre mai in
passato, vanificando la precedente retorica -
anche non poetica spesa a magnificare
l'interventismo, contribuisce storicamente ad
arricchire di significato la riduzione linguistica
e stilistica operata dal primo Ungaretti: il poeta
sottolinea l'importanza soggettiva, anche
psicologica, di quell'evento e della sua personale
esperienza al fronte. La guerra mette l'uomo a
nudo, gli fa toccare con mano i bisogni materiali
e psicologici elementari, gli fa provare i
sentimenti essenziali (primitivi, perché
essenziali): corporeità e fragilità, paura e
speranza, amore e orrore, disperato attaccamento
alla vita. Lo mette di fronte ai limiti stessi
della condizione umana - la vita, la morte, il
dopo; i bisogni materiali, le tensioni spirituali;
il contingente, l'assoluto - e instaura una
dialettica tra orrore della condizione presente,
senso della fragilità, da un lato, e tensione
consolatoria e liberatoria nel ricordo,
nell'immaginario, nell'altrove metafisico,
dall'altro. Ciò porta il giovane uomo proiettato
nello sconvolgimento del mondo ad una più matura
consapevolezza di sé e dei suoi rapporti con la
natura e con la storia, della condizione umana
insomma («mi sono riconosciuto / una docile fibra
/ dell'universo»). Ungaretti di tutto ciò fa
materia poetica. E si mette in scena, fante-poeta,
anzi uomo senza aggettivi di fronte a se stesso
nella notte della guerra, nel silenzio delle
veglie, nella desolazione delle macerie, sotto la
volta infinita del cielo, alla ricerca del
significato dell'esistere, della propria
precarietà e transitorietà, che balbetta o grida
poche parole essenziali.
La poesia, le parole scarnificate di questa
raccolta devono rispondere in qualche misura a
questa ricerca: «La poesia è scoperta della
condizione umana nella sua essenza, quella
d'essere un uomo d'oggi, ma anche un uomo
favoloso, come un uomo dei tempi della cacciata
dall'Eden», scrive Ungaretti a proposito dei
Fiumi. I battiti del cuore, i moti del sentimento,
gli interrogativi fondamentali, poche parole
pensate o a mala pena pronunciate («... fratelli?
// Parola tremante / nella notte // Foglia appena
nata»): è questo, dice Ungaretti, che emerge dal
buio della propria condizione e dal silenzio della
pagina bianca. Così, all'incirca, acquista
significato storico più ampio la procedura della
rarefazione della parola (che questi temi
affronta) nella pagina e della radicale
dissoluzione delle unità metriche: i versicoli,
insomma.
Non bisogna tuttavia dimenticare che quella di
Ungaretti non è una poesia ingenua, davvero
elementare e primitiva, ma un'operazione
letteraria fortemente consapevole e colta, che ha
come retroterra tutta l'esperienza della lirica
precedente con cui vuole interagire. Lo vede bene
Montale, lirico non affine a Ungaretti né
simpaticamente attratto da lui: « I suoi versi
brevi, i cosiddetti "versicoli", si sgranavano
sulla pagina verticalmente dando l'illusione di
uno spontaneo stillicidio poetico. La pagina
bianca, l'incipit maiuscolo di ogni verso
suggerivano invece l'impressione di una nuova
recuperata classicità. Le due impressioni erano
esatte perché Ungaretti non cantava come gli
uccelli, anzi era un accanito tormentatore della
pagina scritta (famose e innumerabili le sue
varianti). Ma accanto al tormento c'era la grazia:
il momento giusto, coronamento di un'attesa
talvolta lunga». Certo è comunque che la personale
esperienza della guerra, le intenzioni
ideologiche, divenute temi della raccolta, si
fondono felicemente con le intenzioni strettamente
letterarie e le procedure formali, arricchendosi
reciprocamente di senso.
Tra il testo, frantumi di un discorso non
pronunciato e non pronunciabile, unità logicamente
indipendenti ma interrelate fra loro
analogicamente, e la pagina bianca su cui esso si
proietta si istituisce dunque una relazione
essenziale. Parola e bianco tipografico, parola e
silenzio intergiscono fra loro arricchendosi
reciprocamente di significato. Le parole
acquistano una sonorità, un'eco, una pregnanza di
senso che la collocazione all'interno di un
discorso logicamente formulato e articolato
potrebbe far loro perdere (è questo in termini
concreti la ricerca di un'autenticità di
significazione, la "poetica della parola" che
muove Ungaretti). Ma anche gli spazi bianchi e
cioè i silenzi, che scandiscono parole isolate, si
caricano di tensione e quindi di significato;
anch'essi vanno "letti" e interpretati, perché
stimolano più che mai in passato la cooperazione
del lettore, chiamato a proiettarvi sensazioni,
intuizioni, emozioni inespresse e pur necessarie
perché il testo agisca come deve agire (nelle sue
pubbliche letture Ungaretti medesimo era
abilissimo nel caricare di senso la singola
parola, il singolo fonema, i silenzi stessi). In
questa interazione, consapevolmente ricercata e
messa in atto, fra parola isolata e spazio bianco,
fra parola pronunciata e silenzio sta il
potenziale evocativo elevatissimo della lirica del
primo Ungaretti.
Alla scarnificazione del discorso logico,
sostituito da più labili ed essenziali legami
analogici (anche questa essenzialità va messa in
conto per distinguere l'analogismo di questo
Ungaretti da quello tanto più ricco, ridondante e
intricato dei precedenti simbolisti e poi del
secondo Ungaretti, dei surrealisti e degli
ermetici), corrisponde dunque una concentrazione e
un'intensificazione del senso, che è in assoluto
l'ideale supremo della lirica, tanto più quant'essa
si propone allo stato puro, priva cioè di
complicazioni descrittive, narrative o
argomentative. Ungaretti porta a compimento questo
processo come nessun altro nel Novecento: di qui
l'esemplarità e l'enorme influsso dell'Allegria,
testimonianza nei momenti di maggior grazia delle
potenzialità assolute della poesia. Tanto più se
si pensa all'apparente semplicità con cui si
realizza questo ideale, accarezzato da tanti poeti
prima e dopo Ungaretti (da Mallarmé e Valéry sino
agli ermetici) ma sovente caricato nei fatti di
eccessive complicazioni intellettualistiche.
La fortuna critica dell'Ungaretti
successivo all'Allegria, a partire dalla raccolta
Sentimento del tempo (1933), è progressivamente
diminuita in questi ultimi anni e c'è chi, forse
non del tutto a torto, ha formulato giudizi
abbastanza severi. Tuttavia va ricordato, per
quest'ultima raccolta, a parte ogni altra
considerazione, il grande influsso che essa
esercitò sugli ermetici propriamente detti, in
virtù del più elaborato e prezioso simbolismo,
dell'analogismo più criptico e del linguaggio più
incline a recuperare le movenze del canto. Del
mutamento di rotta, innanzi tutto formale,
Ungaretti stesso fornisce l'occasione e la
giustificazione: «Le mie preoccupazioni in quei
primi anni del dopoguerra - e non mancavano
circostanze a farmi premura erano tutte tese a
ritrovare un ordine, un ordine anche, essendo il
mio mestiere quello della poesia, nel campo dove
per vocazione mi trovo più direttamente
compromesso. In quegli anni, non c'era chi non
negasse che fosse ancora possibile, nel nostro
mondo moderno, una poesia in versi. Non esisteva
un periodico, nemmeno il meglio intenzionato, che
non temesse, ospitandola, di disonorarsi. Si
voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me
pareva, invece, una àncora di salvezza: io
rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano
cercavo in loro il canto». La svolta si inquadra
dunque nel complessivo bisogno di un ritorno
all'ordine e, sul piano personale, del recupero di
un'armonia espressiva che Ungaretti ora trova
realizzata nella poesia della tradizione. E con
quel canto rientrano nella lirica ungarettiana un
lessico letterario, una «sintassi legata e fluida»
(Mengaldo), partiture più complesse e preziose, un
linguaggio più intensamente e oscuramente
analogico, la mitologia, un gusto tra
classicistico e barocco e via dicendo. Il trait
d'union tra le due esperienze è costituito forse
dalla propensione per un lirismo intenso e
concentrato e per una poesia pura, assoluta, non
contaminata dalle inclinazioni alla discorsività e
alla prosaicità; propensione che non vien meno
neppure in questa e nelle successive raccolte, pur
se trova diverse vie per manifestarsi. (Mentre
Montale - sia detto tra parentesi - può scrivere:
«un verso che sia anche prosa è il sogno di tutti
i poeti moderni da Browning in poi»). È questo
anche il titolo di merito che l'Ungaretti anche di
questa seconda stagione mantiene, se non
addirittura accresce, agli occhi dei poeti
ermetici che in lui (assai più che nel Montale
delle Occasioni) vedranno a ragione un maestro.
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