Lo anticiparono le centocinquanta pagine, ispirate al Milione, prima, embrionale
stesura del film proposto a Calvino da Franco Cristaldi nel 1960: il testo è
diviso in tredici paragrafi, a loro volta articolati in sottoparagrafi che
ricostruiscono il viaggio di Marco Polo per immagini. Qui il viaggiatore
veneziano è molto diverso da quello tratteggiato nelle Città invisibili (mentre
appare molto più vicino agli eroi dei Nostri antenati); notevoli affinità,
invece, si ravvisano tra il Kublai Kan del testo del 1960 e quello del romanzo
del 1972. Più indirettamente si collega a quest'ultimo (in particolare al
capitolo sesto) anche La "loro" Venezia.
Il libro ha una struttura rigorosa, con articolazioni studiatamente simboliche:
i nove capitoli, infatti, sono divisi in rubriche, sotto le quali si svolgono le
descrizioni delle città visitate da Marco Polo durante i suoi viaggi. Il primo e
il nono ne comprendono dieci, mentre gli altri (dal secondo all'ottavo) si
distribuiscono in cinque rubriche. La prima descrizione di ogni capitolo
completa una rubrica, a eccezione di quella dell'ultimo capitolo che ne inaugura
una nuova. Le undici rubriche («Le città e la memoria», «Le città e il
desiderio», «Le città e i segni», «Le città sottili», « Le città e gli scambi»,
« Le città e gli occhi», «Le città e il nome», «Le città e i morti», « Le città
e il cielo», «Le città continue», « Le città nascoste») nascono, quasi per
filiazione, le une dalle altre a partire dalle due fondamentali: «Le città e la
memoria», «Le città e il desiderio» (la lettera a Claudio Varese su Le città
invisibili, in «Studi novecenteschi».
Ogni capitolo è poi preceduto e seguito da due brani in corsivo che incorniciano
le descrizioni nella conversazione tra Marco Polo e il Kublai Kan (cui si
aggiunge la voce dell'autore, che si esprime in terza persona): a lui il
viaggiatore veneziano espone i propri racconti. Nelle descrizioni chi racconta è
Marco, a volte in prima persona, a volte sostituito da una terza persona
generica o da un tu generico, a parte il caso della città di Zemrude, dove
compare la prima persona plurale. Sommando le cornici (nove) alle
cinquantacinque città descritte (ciascuna individuata da un nome di donna), si
ottiene il numero sessantaquattro che allude, probabilmente, alle caselle di una
scacchiera. Infatti, a un certo punto della loro conversazione, l'imperatore e
il viaggiatore si trovano proprio davanti a una scacchiera, nell'intento di
formalizzare e ridurre a uno schema semplice - e, quindi, dominabile - le
infinite forme di città che Marco presenta al Kublai Kan (i capitoli ottavo e
nono).
Il romanzo pone due uomini a confronto: l'imperatore dei Tartari, intento a
riflettere sul proprio regno, la cui sconfinata immensità gli fa dubitare se si
tratti di una fastosa e trionfante distesa di terre possedute oppure di «uno
sfacelo senza fine né forma»; Marco Polo, il viaggiatore instancabile, che
descrive al Kublai Kan le città del suo stesso impero, nel tentativo di leggerci
dentro una trama, un disegno sottile. Poiché non conosce la lingua del sovrano,
Marco racconta le città utilizzando gesti e pantomime, che sostituisce con le
parole solo in un secondo momento, quando si è impossessato della lingua. Ma è a
quei gesti, "emblemi" originari, che il Kublai torna con la memoria per
rievocare le città del suo impero. La lingua, però, non basta a descrivere la
vita dei loro abitanti; così il viaggiatore, per rappresentarla, ricorre a degli
oggetti. Eppure, fatalmente, agli oggetti si sostituiscono i gesti e i gesti
finiscono per codificarsi e ripetersi sempre uguali: Marco e il Kublai si
rendono conto che narrare l'infinita ricchezza e varietà della vita innesca,
fatalmente, un processo di semplificazione e schematizzazíone a cui è
impossibile sfuggire. Per questo fallisce anche il tentativo di ridurre le forme
delle città alle geometrie che i due giocatori disegnano su una scacchiera.
Così, infatti, commenta Calvino: «Le città sono un insieme di tante cose: di
memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di
scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell'economia, ma questi scambi
non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di
ricordi. Il mio libro si apre e si chiude su immagini di città felici che
continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici» (Italo
Calvino on Invisible Cities). In queste parole e nelle descrizioni delle città
invisibili, Calvino adombra uno dei temi-cardine della sua produzione letteraria
degli anni Sessanta, cioè quello della crisi della città moderna, odiata e, a un
tempo, amata, soprattutto dopo il soggiorno a New York.
Il romanzo - afferma ancora lo scrittore - è cresciuto a poco a poco nel tempo
e, quindi, secondo l'ordine sparso delle riflessioni che si distendono nell'arco
degli anni. Per il loro carattere "istantaneo", le descrizioni delle città si
riallacciano alle prose delle Cosmicomiche e di Ti con zero. D'altra parte,
diversamente da queste due opere, Le città invisibili presentano una struttura
conclusa che Calvino così giustifica : «un libro (io credo) è qualcosa con un
principio e una fine, è uno spazio in cui il lettore deve entrare, girare,
magari perdersi, ma a un certo punto trovare un'uscita, o magari parecchie
uscite, la possibilità d'aprirsi una strada per venirne fuori». E questa strada
è tutta nelle ultime parole di Marco. Se, infatti, l'infinito temporale e
spaziale che ogni città ha racchiuso in sé è un inferno, solo due sono i modi
per non soffrirne: il primo è diventarne parte, fino al punto di non vederlo
più; il secondo è «saper riconoscere chi e cosa in mezzo all'inferno, non è
inferno, e farlo durare, e dargli spazio». L'atteggiamento riflessivo (insieme
con la distanza da cui esso si esercita) diventa così salvifico, anche se
consapevole di introdurre una semplificazione nel fluire tumultuoso della vita
dell'uomo.
La traccia preparata da Calvino per il film Marco Polo, che doveva essere
diretto da Mario Monicelli, è stata pubblicata nel vol. III dei Romanzi e
racconti. Racconti sparsi e altri scritti d'invenzione, edizione diretta da
Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto. Per questa
"traccia" sono da segnalare: la testimonianza di Monicelli sulla nascita del
progetto (in L'arte della commedia); una lettera di Calvino alla Cecchi d'Amico
(2 settembre 1960), nella quale l'autore presenta e commenta il lavoro. II film
non fu mai realizzato e il testo rimase inedito, a eccezione del brano della
principessa Agaruk.
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