Composta nel giro di poche settimane, fu messa in scena per la prima volta il 15
marzo 1945, al San Carlo di Napoli, dalla Compagnia «Il Teatro di Eduardo con
Titina De Filippo». Il testo fu pubblicato l'anno successivo, 1946, come
appendice del quotidiano napoletano «La Voce», a cura di Mario Alicata e Paolo
Ricci.
La vicenda si svolge a Napoli nell'arco di tempo che comprende il secondo anno
della seconda guerra mondiale (primo atto) e il periodo in cui si assiste allo
sbarco degli Alleati (secondo e terzo atto). Il protagonista della storia è
Gennaro Jovine, tranviere disoccupato che conduce, con la moglie Amalia e con i
figli Amedeo, Maria Rosaria e Rituccia (una bambina di pochi anni), una vita di
stenti, come molte altre famiglie napoletane al tempo della guerra. Donn'Amalia
è una donna decisa e ancora attraente, con quel tocco di vanità che rinvigorisce
ancora di più il suo carattere. Non bada a sottigliezze e s'industria come può
per rimediare il denaro necessario: vende il caffè a tazzine (tre lire l'una) e,
rifornita da Errico Settebellizze, un giovane e piacente guappo napoletano, fa
commercio di ogni genere alimentare. Errico Settebellizze non nasconde il suo
trasporto per la donna e non le fa mancare nulla che possa servire a
incrementare la clientela. Nonostante le perplessità di don Gennaro, la famiglia
organizza la giornata proprio intorno a questo commercio clandestino. Il primo
atto si conclude, infatti, con la messa in scena di una camera ardente di fronte
al brigadiere Ciappa che, indotto dalla soffiata di una vicina invidiosa degli
affari di Amalia, era entrato in casa Jovine per fare una perquisizione.
Costretto dalle circostanze, don Gennaro si finge morto, per difendere di
persona le derrate nascoste sotto il materasso. La scena risulterà
particolarmente viva e comica per le reazioni, insieme complici e argute, del
brigadiere, il quale aveva perfettamente capito l'inganno organizzato
dall'intera famiglia.
Nel secondo atto lo scenario è completamente diverso: gli Alleati hanno liberato
Napoli. In casa Jovine, alla povertà si sostituisce la ricchezza, addirittura lo
sfarzo: le pareti sono color ciclamino, i vecchi mobili cadenti sono stati
rimpiazzati da un arredamento lussuoso e la stessa Amalia, insieme con i figli
Amedeo e Maria Rosaria, non è più la stessa («tutta in ghingheri, tutta
preziosa, con un'aria fors'anche più giovanile»). Ma a queste novità esteriori
se ne aggiunge una più consistente: don Gennaro, che durante un bombardamento
era uscito per rifornirsi di patate e di mele, non ha più fatto ritorno a casa.
Sembra, però, che proprio la sua assenza abbia favorito il manifestarsi, nella
famiglia, di modi di vita spregiudicati: Settebellizze fa arricchire Amalia con
il mercato nero; Maria Rosaria ha conosciuto un americano che le promette di
portarla in America; Amedeo intraprende un commercio di pneumatici rubati con il
pregiudicato «Peppe 'o cricco», così chiamato per la facilità con cui riesce a
sollevare un'automobile con la spalla destra. È con questo cambiamento morale e
materiale che don Gennaro, alla fine del secondo atto, si trova a fare i conti,
una volta ritornato a casa dopo quattordici mesi trascorsi in paesi di cui
ignora i nomi, fra una traversia e l'altra, alle prese con le atrocità della
guerra.
Don Gennaro torna magro, scolpito nel volto da ciò che ha visto, i panni lisi e
arrangiati con capi di diverse divise militari. Il suo ritorno è quello della
coscienza di quanto va accadendo; è un ritorno che rappresenta e impone
un'inevitabile crisi: la Napoli ricca non può reggere di fronte agli occhi di
chi ha sofferto. Lo sfarzo di Amalia è inconcepibile in una città prostrata
dalla sofferenza; l'amore di Maria Rosaria, che viene delusa per la partenza
improvvisa del soldato americano, rivela l'inconsistenza di un rapporto troppo
facile; i proventi di Amedeo mostrano il marcio della disonestà. Il ritorno di
Gennaro porta allo scoperto il tema che fin dall'inizio era sotteso alla
narrazione: l'etica e la coscienza del singolo come premessa di un progresso
etico-sociale nella collettività. Le circostanze che accompagnano la
riapparizione di don Gennaro rendono la situazione ancora più tesa: Rituccia, la
figlia piccola, è ammalata gravemente e ha bisogno di un medicinale introvabile
persino al mercato nero. Lo metterà a disposizione un vicino, Riccardo, che
proprio la «borsa nera» e la stessa Amalia avevano ridotto sul lastrico. Egli
diviene, per lo scioglimento dell'intreccio, il simbolo di una solidarietà umana
cui non si può rinunciare.
Napoli milionaria! é una commedia che attinge al genere del melodramma tra
impennate paradossali da opera buffa, ma insieme rappresenta un'accurata e
sottile indagine sulla città travolta dalla guerra e dalla decadenza dei valori.
Tuttavia, una malinconica attesa del meglio resiste ed è sintetizzata nella
battuta finale di Gennaro: «Addà passà 'a nuttata». Per questo Napoli
milionaria! resta un punto di riferimento importante del neorealismo, che
proprio in quegli anni si affermava sulla scena culturale italiana: cinema,
letteratura e teatro hanno riconosciuto in quest'opera un esemplare tra i più
originali di quella corrente artistica.
La fortuna dell'opera fu immediata. Nel 1950 diventò un film, con la regia di
Eduardo De Filippo, la sceneggíatura di Piero Tellini, Arduino Maiuri e dello
stesso autore; interpreti, con Eduardo, Leda Gloria, Delia Scala, Totò, Carlo
Ninchi, Gianni Glori. È nota, inoltre, la sua rappresentazione televisiva,
trasmessa dalla Rai il 22 gennaio 1962, con la regia dì Eduardo e di Stefano De
Stefani, la sceneggiatura di Eduardo, Emilio Voglino e Aldo Nicolaj; interpreti
Elena Tilena, Carlo Lima, Eduardo, Regina Bianchi, Antonio Casagrande.
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