Dopo lunghe incertezze sul titolo (Fenoglio aveva proposto inizialmente I
racconti della guerra civile, rifiutato dall'editore perché «guerra civile» era
allora il termine con cui i neofascisti alludevano alla lotta partigiana; mentre
Vittorini aveva suggerito Racconti barbari), I ventitre giorni della città di
Alba furono pubblicati nel giugno del 1952.
I testi che compongono il libro possono essere classificati secondo un criterio
tematico che individua due sezioni simmetriche di sei racconti ciascuna. Se i
primi narrano tutti storie di argomento partigiano (I ventitre giorni della
città di Alba, L'andata, Il trucco, Gli inizi del partigiano Raoul, Vecchio
Blister, Un altro muro), la seconda sezione è incentrata piuttosto sulla dura
vita delle Langhe (Ettore va al lavoro, Quell'antica ragazza, L'acqua verde,
Nove lune, L'odore della morte, Pioggia e la sposa). Ideale connettivo tra le
due parti è perciò il settimo racconto, Ettore va al lavoro, in cui si narra
(come nel romanzo coevo, ma pubblicato solo nel 1969, La paga del sabato) della
difficoltà a reinserirsi nella vita normale per coloro che hanno partecipato
alla guerra partigiana (Ettore preferirà darsi al contrabbando piuttosto che
accettare il posto di impiegato che gli hanno trovato i genitori).
Cronologicamente i racconti bellici sono tutti ambientati dopo la caduta di
Alba, nel difficile novembre che precedette lo sbandamento delle formazioni
partigiane di fronte ai massicci rastrellamenti nemici. In un certo senso il
racconto eponimo della raccolta fa così da vera e propria introduzione a tutto
il volume, come se (dalla prospettiva rigidamente impersonale e "oggettiva"
scelta in questo caso da Fenoglio, che non si concentra su nessun personaggio in
particolare) dovesse in qualche modo situare in un preciso spazio e in un
preciso tempo le storie che seguiranno. In esse, al contrario (e quasi per gusto
di contrapposizione con il primo scritto), dominano invece i casi-limite,
narrati sempre da una distanza molto ravvicinata e con tono complice. Abbiamo
così un'imboscata finita male, contro ogni previsione (L'andata); la
competizione tra due partigiani per l'onore di fucilare un prigioniero fascista,
con tanto di finale a sorpresa (Il trucco); l'iniziazione alla Resistenza di uno
studente timido e impacciato (Gli inizi del partigiano Raoul); la fucilazione da
parte dei suoi stessi compagni di un partigiano "anziano" che ha commesso delle
violenze contro i civili (Vecchio Blister) e la finta esecuzione di un giovane
badogliano, scambiato in extremis con un prigioniero fascista (Un altro muro,
titolo non privo di risonanze sartriane).
Negli accostamenti Fenoglio si lascia guidare da un sicuro gusto per la
contrapposizione: dopo il giovane Raoul ecco il vecchio Blister, dopo la vera
morte di Blister (che fino all'ultimo ha creduto che i compagni gli avessero
preparato una finta esecuzione per spaventarlo) ecco, come in un dittico
speculare, la fucilazione simulata di Max (anche nelle opere successive e in
particolare in Una questione privata, le uccisioni "a freddo" torneranno
ripetutamente fino a farsi addirittura emblema della precarietà della condizione
umana).
Nella seconda parte della raccolta, con l'ambientazione contadina prevale invece
il motivo amoroso, anche qui rappresentato nella versione più cruda: come lotta
per la donna, innanzitutto (Nove lune, L'odore della morte), ma anche come
offerta sacrificale all'intera comunità (il bellissimo Quell'antica ragazza).
Con il folgorante L'acqua verde viene introdotto, invece, il tema del suicidio,
che troverà ampio sviluppo in La malora.
Il racconto migliore della raccolta rimane, però, I ventitre giorni della città
di Alba. Resoconto cronachistico della velleitaria esperienza di una delle
cosiddette "repubbliche partigiane" (alcune circoscritte zone dell'Italia
settentrionale che per pochi giorni furono liberate dai partigiani provocando
nei fascisti una reazione feroce), lo scritto di Fenoglio vuole essere
un'impietosa riflessione sulla Resistenza e, insieme, una denuncia
dell'immutabile carattere italiano, con la stessa incancellabile propensione per
la retorica e le parole gonfie che accomuna tutte e due le parti (memorabile la
conclusione: «i fascisti entrarono e andarono personalmente a suonarsi le
campane»). La morale del racconto e il giudizio del narratore sono però già
tutti nella celebre frase d'esordio, quell'Alba la presero in duemila il 10
ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell'anno 1944» in cui è
riassunta tutta la consuetudine nazionale di stare con il più forte, accodandosi
alle vittorie altrui. Fenoglio profonde sugli eventi l'ironia di chi osserva le
cose da una posizione distaccata, rivelando uno spiccato talento nel cogliere
nel grande affresco della Storia le piccole scene che spesso racchiudono il
senso dei grandi movimenti di uomini: requisizioni forzate di auto che
trasformano Alba in una generale «scuola di guida»; le file al bordello locale;
l'infangamento volontario dei partigiani durante la ritirata, «come se non
fossero già abbastanza i segni che era stata dura». Eppure, nonostante il tono
assolutamente non apologetico del suo racconto, Fenoglio non giunge mai alla
palinodia della sua esperienza di partigiano e rimarrà invece convinto che se la
Resistenza non è stata sempre una bella cosa, anzi «un pasticcio», questo
pasticcio tuttavia «andava fatto».
All'uscita nelle librerie I ventitre giorni della città di Alba scatenarono una
piccola polemica per l'immagine poco edificante che fornivano della Resistenza.
Placata la temperie ideologica di quegli anni, non si può invece non ammirare la
lucidità dello sguardo di Fenoglio e la sua capacità di racchiudere in poche
pagine una feroce disamina del carattere italiano. Altri, semmai, risultano oggi
i limiti di alcuni dei testi della raccolta. Rispetto all'originalità stilistica
e sentimentale degli scritti degli anni successivi, in questi racconti Fenoglio
appare ancora prigioniero di una certa "maniera" neorealista, soprattutto nella
rappresentazione dei partigiani e nell'iperbolica esaltazione dei tratti più
brutali dei personaggi, che sono costantemente ridotti alle più elementari
funzioni biologiche (da cui anche il titolo proposto da Vittorini).
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