La malora uscì come numero 33 della collana «I Gettoni», diretta da Elio
Vittorini, che però vi aggiunse una perfida quarta di copertina con cui di fatto
sconfessava il romanzo accostandolo ai «provinciali del naturalismo, i Faldella,
i Remigio Zena: con gli "spaccati" e le "fette" che ci davano della vita».
Diviso in due parti (rispettivamente composte di otto e di sei paragrafi), La
malora narra in prima persona la storia di Agostino, giovane contadino delle
Langhe, e della sua sfortunata famiglia. Il punto di partenza del racconto è
costituito dalla morte del padre del protagonista, evento luttuoso che segna
l'intero romanzo. Il ritorno di Agostino al Pavaglione, dove lavora duramente
presso un mezzadro, rappresenta il pretesto per raccontare le progressive
disgrazie della famiglia e gli eventi che hanno costretto i genitori, un tempo
proprietari di un piccolo ma non disprezzabile appezzamento di terra, a mandarlo
«a servire lontano da casa».
All'origine dell'impoverimento della famiglia di Agostino c'è (proprio come nei
Malavoglia, cui La malora è stato sovente accostato), il desiderio paterno di
migliorare la propria condizione sociale, acquistando una «cesca». Ma,
all'opposto del romanzo di Verga, questa volta sono proprio la paura di
indebitarsi e il conseguente immobilismo a segnare la sorte del piccolo
proprietario, che si vede scavalcato nel sospirato acquisto. Alla cattiva
disposizione con cui il padre torna a lavorare la terra si aggiungono presto
nuovi incidenti, che costringono a vendere a poco a poco il terreno di famiglia
e a farsi prestare del denaro per poter tirare avanti. Il figlio maggiore
Stefano torna dopo ventuno mesi di servizio militare poco propenso a riprendere
la vita di contadino, mentre il secondogenito Emilio è presto costretto a
entrare in seminario, in cambio della remissione di alcuni debiti contratti dal
padre con una vecchia beghina del paese. La decisione di "affittare" Agostino,
mandandolo a servizio presso Tobia Rabino (tracciando così una sorta di
imperfetta trifunzionalità: il prete, il militare, il contadino), si rende
inevitabile quando l'appezzamento di terra si riduce al punto di poter essere
lavorato soltanto in due (secondo paragrafo).
Al Pavaglione Agostino si trova a vivere in condizioni ancora più miserabili di
quelle a cui era abituato. Al suo stesso, durissimo regime di vita sono
sottoposti anche la moglie e i figli di Tobia, che l'uomo sfrutta senza tregua
nella speranza di raggranellare quel tanto da poter acquistare un buon pezzo di
terra fertile alle pendici di Alba. Eppure nessuno sfugge alla disperata legge
del guadagno: anche Tobia, infatti, è oppresso dal proprietario del suo terreno
e, nel corso del romanzo, lo vedremo scoppiare in un sordo, indecifrabile pianto
(terzo paragrafo).
Nella immutabilità di una vita di stenti e umiliazioni, il racconto di Agostino
si sofferma sui pochissimi avvenimenti notevoli che sembrano interrompere, anche
solo per un istante, il ripetersi della vita campagnola. Dopo alcuni mesi di
permanenza al Pavaglione, si presenta l'occasione di accompagnare Tobia ad Alba,
il capoluogo delle Langhe di cui Agostino ha sempre sentito parlare in termini
leggendari e dove risiede Emilio. La scoperta della città è piena di meraviglia
ma, al contempo, dolorosa per il senso di inferiorità del contadino nei
confronti dei propri coetanei inurbati, apparentemente così spavaldi e sicuri di
sé. Ancora più duro è l'incontro con Emilio, minato nel fisico dalla scarsa
alimentazione e dalla temperatura gelata del seminario (quarto paragrafo).
Nella vita immobile di Agostino persino i preparativi del matrimonio di Ginotta,
la figlia di Tobia, costituiscono un piacevole diversivo. Eppure, anche ora, su
tutto dominano i soldi (persino il funerale del padre di Agostino era stato
segnato dal problema delle spese per la bara e il rito funebre) e un primo
fidanzamento viene rotto pochi giorni prima della cerimonia per insignificanti
questioni di dote. Lo sposo è presto sostituito da un altro pretendente e giunge
infine il tanto atteso pasto nuziale: abbondante, saporito, nutriente, così
diverso dalla polenta strofinata con un po' d'acciuga degli altri giorni (quinto
paragrafo).
Dopo più di un anno di permanenza al Pavaglione, e proprio mentre sta per
prendersi la prima licenza per visitare i genitori, Agostino viene chiamato
perché il padre è caduto nel pozzo ed è grave. Ma quando giunge a casa, egli è
già deceduto e ad Agostino non rimane che organizzare il funerale, facendo
fronte alle enormi spese per il pranzo da offrire ai parenti (sesto paragrafo).
La morte inattesa suggerisce ad Agostino il racconto della conoscenza e del
matrimonio dei genitori (settimo paragrafo). Eppure, per lui, la fine del padre
non porta nessun cambiamento: venduta altra terra, non c'è bisogno di lui a
casa, mentre i soldi pagati da Tobia per il suo "affitto" fanno molto comodo.
Con il ritorno di Agostino al Pavaglione si conclude la prima parte del romanzo
(ottavo paragrafo).
Il sentimento di un destino irreparabile che si accanisce contro Agostino (la
«malora» del titolo) è inscritto nella struttura stessa della narrazione.
Cominciando il racconto dalla morte del padre, il lettore è portato
spontaneamente a identificare con essa la rovina del protagonista, e tutte le
successive offese della sorte, che fanno ulteriormente peggiorare la sua
situazione nella seconda parte del romanzo, appaiono come un "di più" inatteso,
e sono per questo tanto più impressionanti. La povertà e la sofferenza appaiono
ora sempre più dei fenomeni generalizzati, a cui nessuno può sottrarsi, neppure
coloro che nella prima parte erano sembrati (seppure relativamente) dei
privilegiati: né Emilio, né la moglie malata, né i figli di Tobia, e neanche il
giovane prete della parrocchia vicina, che gira di casa in casa proponendo di
fare delle piccole riparazioni nella speranza di raggranellare qualche soldo con
cui far fronte alla fame cui lo condanna l'avarizia del curato (decimo
paragrafo).
È in questo quadro di accresciuta disperazione che si inserisce l'incontro di
Agostino con Mario Bernasca, un giovane, a servizio come lui, che frequenta la
casa di Tobia per interminabili e sfortunate partite a carte (nono paragrafo).
Agostino si sente inspiegabilmente attratto dalla sicurezza e dal carisma di
Mario, ma quando questi gli propone di abbandonare la vita delle Langhe per
cercare fortuna come lavoratori stagionali, Agostino comincia a evitarlo
(undicesimo paragrafo).
Alla cupa rassegnazione e alla fuga proposta da Mario (e poi da lui realmente
realizzata) vi sono poche alternative. Vi è, naturalmente, la morte: il tema del
suicidio dei contadini come unica liberazione concessa da una vita di dolori e
sofferenze, percorre l'intero romanzo per esplodere poi nell'episodio del
ritrovamento del cadavere di Costantino, un contadino impiccatosi a un albero
per sottrarsi alla sua «malora» (dodicesimo paragrafo).
Anche quando una disgrazia sembra nascondere una fortuna, in realtà la sorte sta
soltanto preparando un colpo più duro. Così, quando l'aggravarsi della salute
della moglie di Tobia (tredicesimo paragrafo) lo costringe a chiamarsi in casa
una «servente» e la scelta ricade sulla dolce Fede, per Agostino sono
all'orizzonte soltanto nuove delusioni. A nulla valgono l'idillio segreto e le
promesse che i due ragazzi si sono scambiati quando i genitori di Fede (il nome
qui diventa addirittura ironico) decidono di darla in moglie a un piccolo
proprietario terriero delle loro parti. Il colpo è durissimo, ma Agostino (in
una improvvisa concitazione narrativa) non è destinato a rimanere al Pavaglione:
assunto come garzone il fratello Stefano da alcuni parenti ricchi, ora può
finalmente tornare a casa. Qui attenderà la venuta di Emilio dal seminario, da
cui è stato dimesso affinché possa «morire in mezzo ai suoi», dopo che gli è
stata diagnosticata una forma incurabile di tisi (quattordicesimo paragrafo).
La malora è stato a lungo letto come una sorta di attardato romanzo neoverista,
ripetendo in qualche modo il giudizio ingeneroso di Vittorini. In realtà,
soltanto a livello tematico è possibile parlare di una somiglianza con il
naturalismo ottocentesco: già la scelta della prima persona è quanto di più
distante si possa immaginare dall'impersonalità "oggettiva" dell'epopea
verghiana dei vinti. Sull'onnipotente legge non scritta della comunità, prevale
adesso la disperazione dell'individuo, isolato anche all'interno della sua
famiglia (e il pianto ermetico del "vincente" Tobia è testimonianza di un
disagio molto più profondo di quello economico). Ma soprattutto, come ha notato
Cesare Segre, Fenoglio si diverte a vanificare costantemente le attese dei
lettori: nella Malora non troveremo né «un'azione liberatrice da parte di
Agostino o del fratello Stefano, che però è un lavativo più che un
rivoluzionario», né «un contrasto tra Agostino e Stefano», né «un esito
larmoyant: morte della moglie di Tobia o del fratello prete di Agostino, Emilio,
la seconda delle quali previsioni alla fine si fa veramente probabile, ma non è
narrata».
Nel 1963, dopo la morte di Fenoglio, il romanzo venne ristampato assieme a I
ventitre giorni della città di Alba e poi, da solo e con altri testi, numerose
altre volte, anche in tascabile e in edizione scolastica.
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