Libro estremamente composito, l'opera seconda di Gadda, più ancora del
precedente La Madonna dei Filosofi (1931), è pienamente nello spirito dello
sperimentalismo di «Solaria»: sebbene in verità la maggior parte dei "pezzi"
confluiti nel Castello non avesse fatto la sua prima apparizione sulla rivista
fiorentina (bensì, per lo più, sul quotidiano milanese «L'Ambrosiano»). Fa
significativa eccezione, però, l'ouverture programmatica Tendo al mio fine, in
origine risposta alquanto anomala a un sondaggio bandito dalla rivista di
Carocci e Bonsanti sulle nuove tendenze letterarie. Per il resto, il volume
raccoglie praticamente tutta la produzione gaddiana degli anni 1931-33,
lasciando fuori pochi materiali eterogenei (recensioni e articoli tecnici),
nonché due importanti exploits narrativi, il racconto lungo San Giorgio in casa
Brocchi e i frammenti dal romanzo incompiuto La meccanica (usciti su «Solaria»
nel '32).
Mentre prendeva corpo l'idea di fare «un libretto coi suoi articoli di guerra»
(lettera a Carocci del 26 marzo del '32), Gadda procedeva all'estensione di
quella che è la più grande novità del Castello di Udine in volume, rispetto al
materiale originario ma, più in generale, rispetto alla propria pratica di
scrittura: cioè la redazione di un fitto autocommento di carattere
stilistico-erudito, dalla finzione attribuito alla penna di Feo Averrois,
studioso legato da «antica dimestichezza» al «convoluto Eraclito di Via S.
Simpliciano» (allora recapito milanese dell'Ingegnere). Una soluzione destinata
a grande fortuna, nell'opera successiva di Gadda.
Dopo la prima, Il castello di Udine conosce una seconda edizione controllata
dall'autore, all'interno del volume I sogni e la folgore, pubblicato nel luglio
del 1955: il testo è raccolto insieme con La Madonna dei Filosofi e L'Adalgisa.
In questa veste ulteriore, oltre a una serie di restauri puntuali, compare in
testa al Castello la dedica a Riccardo Bacchelli. Le successive edizioni
autonome, a partire da quella del 1961, si attengono al testo fissato nel '55.
Il libro preludia con Tendo al mio fine, la «prefazione malvagia, fatta apposta
per far irritare l'Areopago» (come Gadda scrisse a Carocci) che dà al libro,
oltre che il suo punctum di massimo espressivismo "spastico", un'attendibile
dichiarazione di poetica: la prima vera e propria che Gadda abbia dato (se non
altro in pubblico): «tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino
s'è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti».
Il resto del libro si può considerare articolato fondamentalmente in due
sezioni: quella che gli dà il titolo complessivo, costituita dai "ricordi di
guerra", e quella (suddivisa in due parti distinte) dedicata invece alle
"polemiche di pace". La parte eponima, «Il castello di Udine» (che mutua il
titolo da un canto popolare, «O ce biel, o ce biel sischièl in Udin!»: come
annota «Feo Averrois», «la momentanea imagine-sintesi di tutta la patria, quasi
un amuleto dello spirito»), si articola in cinque frammenti autobiografici,
ciascuno dedicato alla rivisitazione di singoli momenti del coinvolgimento del
sottotenente Gadda nella Grande Guerra (gli ultimi due, Compagni di prigionia e
Imagine di Calvi, sono in verità dedicati alla stremante prigionia subita, dopo
la disfatta di Caporetto, nel campo tedesco di Cellelager, nei pressi di
Hannover). I primi tre "pezzi" provvedono a riscrivere interi passi dell'allora
segreto e «impossibile» (cioè impubblicabile) diario, il Giornale di guerra e di
prigionia (che vedrà infatti la luce, e in forma ancora incompleta, solo nel
1955), o delle ancora più rimosse Poesie (pubblicate integralmente solo postume,
nel 1993) oppure, ancora, si affannano - come nel caso dell'inserto sulla
«corvée» in alta montagna, sull'Adamello nell'aprile del '16, contenuto nel
secondo "pezzo", Impossibilità di un diario di guerra - a dare testimonianza di
episodi non registrati nel diario, per incuria propria o per la sfortunata
circostanza dello smarrimento di uno dei quaderni, durante la ritirata di
Caporetto.
La seconda parte, «Crociera mediterranea», raccoglie cinque corrispondenze «da
bordo del "Conte Rosso", luglio 1931». Il viaggio in nave si snoda lungo le
coste del Tirreno fino alla Sicilia, alla Libia, per approdare alle isole del
Dodecaneso nel mar Egeo e tornare passando per l'Adriatico; la scrittura che ne
riferisce è un primo esempio di quella tipologia del reportage di
lusso, che Gadda in seguito porterà alla massima perfezione con i "pezzi"
raccolti nelle Meraviglie d'Italia (1939).
Ancora più divagante e occasionale la materia della terza parte del libro,
intitolata «Polemiche e pace». Vi si raccolgono un "quadro" dal titolo Della
musica milanese e una novella d'ambiente borghese, La fidanzata di Elio, pallido
anticipo della verve che caratterizzerà i «disegni» dell'Adalgisa (vi figura la
rievocazione di un pranzo fra reduci di guerra). Singolare pure l'inserzione di
un "pezzo" di tipo folclorico, La festa dell'uva a Marino, quasi un remoto
"cartone" del Pasticciaccio. Più sostenuto e suggestivo l'ultimo "pezzo"
tripartito, Polemiche e pace nel direttissimo, che può apparire un'allusiva mise
en abìme della struttura apparentemente divagante del libro nel suo complesso -
con l'affiancare due brani di pregevole descrizione paesaggistica (La chiesa
antica e Il fontanone a Montorio) a un brano più articolato (Sibili dentro le
valli), in cui il fatuo e mondano chiacchiericcio (pure letterario, con la
vexata polemica fra "calligrafi" e "contenutisti") nello scompartimento
ferroviario viene bruscamente interrotto dal traumatico riapparire della "sacra"
memoria di guerra.
Fatta salva la composita compagine che della seconda parte del Castello di Udine
è la caratteristica più evidente, e dato il giusto rilievo al virulento
espressivismo di Tendo al mio fine, la dominante espressiva del libro del '34 è
senza dubbio data dalla prima, eponima sezione. Il tono è, dunque, quello di
un'alta, sofferta meditazione (che non esclude neppure il disappunto, sia pur
con cautelativa sordina, del reduce amareggiato) sull'esperienza che di Gadda ha
segnato per sempre la sorte: la guerra. Il tentativo è quello di avvolgere
quella memoria lacerante di ampi, pesanti panneggi curiali (di qui il massiccio,
volontaristico ricordo alla memoria della grande letteratura latina, Commentari
cesariani in testa); ma insopprimibile permane la stravolta carica espressiva
che fece immediatamente opinare il giovane Gianfranco Contini su «quanto di
risentimento, di passione e di nevrastenia covi dietro al fatto del pastiche»
(la recensione-saggio del grande critico, che inaugurò così la propria lunga
fedeltà nei confronti del Gran Lombardo, apparve con la massima tempestività nel
numero di gennaio-febbraio 1934 di «Solaria»). Il ricorso estensivo al materiale
del Giornale (e, ancor più significativamente, a quello delle Poesie), in
effetti, spiega in abbondanza genesi e funzione del «prepotente "lirismo"» (come
viene definito dall'autore nella lettera a Contini del 20 luglio 1934) di questo
libro.
Malgrado sia stato il libro con il quale Gadda iniziò a farsi notare dagli
ambienti letterari, malgrado riscuotesse attenzione ampia e qualificata da parte
della critica (oltre all' "esercizio" continiano, importante lo studio di
Giacomo Devoto, al quale Gadda replicò con le Postille a un'analisi stilistica),
e malgrado - unico fra tutti i libri d'anteguerra - abbia procurato al suo
autore un premio prestigioso (il Bagutta), non si può certo dire che Il castello
di Udine abbia avuto una fortuna paragonabile a quella di altre opere gaddiane.
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