Quando nell'aprile del 1963 appare per la prima volta in volume, nella collana
«Supercoralli» (ma è di poco precedente, a marzo, un'edizione parziale in sole
cento copie, approntata per i giurati del Prix International de Littérature e
per il lancio stampa), quello che allo stesso autore finirà per apparire il suo
lavoro «forse più importante» (così nell'estrema intervista rilasciata nel '72 a
Gian Carlo Roscioni e Ludovica Ripa di Meana) ha alle sue spalle - come quasi
sempre in Gadda - una storia assai travagliata; ma anche in seguito - e questo è
per Gadda meno comune - il travaglio continuerà.
Questa storia, per quanto attiene alla stesura, rimonta al 1937 (Gadda è a Roma,
ingegnere presso il Vaticano), all'indomani cioè dell'evento che di nuovo - come
era avvenuto quasi vent'anni prima con la morte in guerra del fratello Enrico -
spezza in due la vita dell'autore: la morte della madre, Adele Lehr, nell'aprile
del '36. Anche le conseguenze pratiche di questo avvenimento interessano la
genesi del romanzo: viene venduto l'appartamento milanese di via San Símpliciano
e per qualche tempo Gadda risiede nella villa di campagna di Longone al Segrino
(che pure tenta continuamente di vendere), a suo tempo edificata dal padre
Francesco. La residenza in campagna scuote in profondità i nervi già provati
dello scrittore: a Contini scrive di «fisime casalinghe, brianzuole e villerecce
di un mondo che è tramontato per sempre lasciandoci solo stucchevoli tasse da
pagare. - Mi vendicherò». Nel marzo del '37 la villa subisce anche un'incursione
dei ladri (a Lucia Rodocanachi scrive Gadda: «nelle ore del giorno, sicché non
posso prendermela con la Vigilanza Notturna»). Il nucleo nevrotico madre-villa
era al centro dell'immaginario gaddiano già almeno dal 1929, anno a cui risale
il primo, nitido avantesto della Cognizione, il breve apologo Villa in Brianza
(inedito: ne è annunciata la pubblicazione nel primo numero della rivista
gaddiana diretta da Dante Isella, per le cure di Emilio Manzotti; del cóté
satirico della prima parte del romanzo si trovano invece consistenti anticipi
nel divagante brano I Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus, risalente al 1933 e
pubblicato poi nel Cognizione del dolore (questo il titolo fin dal principio
individuato, e che rinvia - lo ha dimostrato Manzotti - a due passi del Mondo
come volontà e rappresentazione di Schopenhauer) come a un racconto che concluda
il libro di "viaggi" Le meraviglie d'Italia (poi edito nel '39). Ma il testo,
come spesso gli capita, cresce a dismisura nelle mani di Gadda.
Quanto verrà divulgato nel '63 appare dunque, in cinque «tratti», sulla rivista
fiorentina di Alessandro Bonsanti, «Letteratura» (una delle due costole della
gloriosa «Solaria»), tra il luglio-settembre del 1938 e il gennaio-marzo del
1941. Non è chiaro perché la pubblicazione, se non la scrittura, si interrompa;
proprio nel '41 Gadda firma un contratto con Sansoni per la pubblicazione in
volume entro dieci anni. Nel '44 (anzi, dicembre'43) due episodi del romanzo ne
vengono estratti e - previa la tracimante annotazione che caratterizza quel
diverso macrotesto - inseriti nell'Adalgisa; stessa sorte per il frammento La
mamma, che nel '53 viene compreso nelle Novelle dal Ducato in fiamme. Già da
qualche tempo, intanto, Gadda è stato contattato da Giulio Einaudi che, su
suggerimento di Vittorini, vorrebbe aprire con la Cognizione in volume una
campagna di pubblicazione delle opere dello scrittore milanese. Gadda esprime
entusiasmo, ma al solito dilaziona all'infinito la consegna dei suoi testi - di
questo, poi, in misura particolare. L'impasse si risolve all'improvviso quando a
fianco dello scrittore, nel '62, viene posto un redattore della casa editrice:
Gian Carlo Roscioni. Per il finale (per il quale Gadda ha sempre avuto tra le
mani due «tratti» ulteriori, mai completati) viene aggiunta una poesia, Autunno
(pubblicata su «Solaria» nel '31), come «chiave lirica della situazione»
(Contini), provvista di ampi Chiarimenti indispensabili. Per l'occasione, Gadda
redige una sua introduzione, strutturandola all'ultimo momento come un dialogo:
è il celebre L'Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l'Autore
(«il gridoparola d'ordine "barocco è il G.!" potrebbe commutarsi nel più
ragionevole e pacato asserto "barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e
ritratto la baroccaggine"»). Il volume è infine coronato dalla celebre
Introduzione di Gianfranco Contini.
Dopo il '63, come si diceva, la storia continua. Del gennaio 1970 è l'importante
edizione con qualche ulteriore variante ma soprattutto con l'inserzione dei due
«tratti» fino ad allora inediti (peraltro già frammentariamente anticipati in un
saggio del '63 di Pietro Citati e in uno del '69 di Roscioni; e integralmente
aggiunti alla traduzione inglese di William Weaver, uscita sempre nel '69). Del
giugno 1971, l'edizione negli «Struzzi» che finirà per imporsi come vulgata (e
sul quale si fonderà l'edizione critica curata da Manzotti nel 1987, che
presenterà inoltre, in appendice, una scelta dai materiali costruttivi del
romanzo, ivi compresa la «traccia» della sua conclusione): con Autunno e
L'Editore... relegati in un'Appendice, insieme con il saggio di Contini.
Nell'agosto successivo, di nuovo nei «Supercoralli», un'edizione a ben vedere
assai diversa, con Autunno in coda ma all'interno del testo, e L'Editore di
nuovo in posizione incipitaria. Per l'editore critico, tutti questi sono «modi
alternativi, nessuno dei quali soppianta l'altro, di intendere la struttura
dell'opera».
«Formalmente, la compagine della Cognizione è divisa in due parti (con netta
cesura narrativa) scandite in nove capitoli (quattro + cinque), chiamati, come
si è detto, tratti dall'Autore» (Manzotti): i quali mettono in scena «episodi e
frammenti» della vita del nevrotico gentiluomo Gonzalo Pirobutirro d'Eltino
(«vorace, e avido di cibo e di vino: crudele: e avarissimo»), che vive solo con
la madre in una villa nella campagna di «Lukones», nella repubblica immaginaria
del Maradagàl (molto somigliante alla Lombardia), da poco uscita da un'«aspra
guerra» con il finitimo Parapagàl e nella quale spadroneggiano minacciosi e
violenti i «Nistitúos provinciales de vigilancia para la noche»: l'allegoria dei
fascisti - sebbene Gadda all'altezza del 1938-41 sia ancora lontano dall'aver
preso completamente le distanze dal regime -, fu esplicitata dall'autore in
un'intervista del '68 rilasciata a Dacia Maraini.
Le «scene» principali (così Gadda medesimo) del narratum possono riassumersi
come segue. Apre uno scatenato prologo comico, che abbraccia gran parte del I
«tratto», satira degli arbìtri amministrativi, urbanistici, e in generale dei
costumi maradagalesi, con celebrati passaggi virtuosistici, come quello sul
falso sordo di guerra Gaetano Palumbo, alias Pedro Mahagones o Manganones;
quello sul Vate nazionale Carlos Coconcellos la scomparsa del quale lascia il
suo Vittoriale, Villa Maria Giuseppina, abitato da fantasmi e bersagliato dai
fulmini. proprio il motivo del fulmine impagina il passaggio in assoluto più
scatenato dei romanzo, quello sul delirante sincretismo architettonico che
affligge il Maradagàl e, in particolare, i dintorni di Pastrufazio, cioè Milano:
«Di ville, di ville!; di villette otto locali doppi servissi. Poiché tutto,
tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani, salvo forse i
connotati del Buon Gusto». Segue una prima parte, che abbraccia la conclusione
del I «tratto» e gli interi II, III e IV: vi è narrata la visita medica del
dottor Higueroa a Gonzalo, del quale correva voce che «iracondo, in accessi
bestiali di rabbia usasse maltrattamenti alla vecchia madre». La visita presta
il fianco a un serrato dialogo filosofico sull'«io monade», sul «narcisismo», e
soprattutto sul male: «il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe
discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e
lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita, più
greve ogni giorno, immedicato».
Apre la seconda parte del romanzo, nel V «tratto», la sua «scena» di massimo,
tragico lirismo: la madre che, lasciata sola dal figlio, viene presa dal panico
al sopraggiungere di un temporale. Le torna lampeggiante alla memoria la figura
del figlio morto («Vagava, sola, nella casa»). Nei «tratti» VI e VII, «l'alta
figura» di Gonzalo riappare nella villa, tornato dalla città. A tavola, per
l'ennesima volta Gonzalo tortura la propria memoria, depreca la propria
«non-vita» livido d'invidia per la sorte fortunata degli altri. «E quella era la
Vita». Alle attenzioni dell'anziana madre l'«hidalgo» oppone scostante
freddezza: «quasi che una rancura segreta gli vietasse di conoscere la tenerezza
più vera di tutte le cose, il materno soccorso». L'apparizione della «miseria» e
del «fetore d'un peone» venuto in casa per accendere il fuoco scatena la furia
di Gonzalo.
Questa furia diviene protagonista nell'VIII «tratto», il primo dei due aggiunti
nel '70. Gonzalo figura inizialmente «tranquillo», sul terrazzo della villa; poi
assiste al racconto che in cucina fanno alla madre il peone e la domestica
Peppa: racconto di un furto subìto dal finanziere Trabatta, che aveva rifiutato
la protezione dei «Nistiuios». L'affluire nella villa di un numero crescente di
maleodoranti postulanti fa impazzire di rabbia Gonzalo per la predigalità della
madre nei loro confronti (che gli fa rammentare, per contrasto, le ristrettezze
subite durante l'infanzia). Gonzalo la aggredisce verbalmente, la minaccia di
morte: «"Se ti trovo ancora una volta nel braco dei maiali, scannerò te e
loro..."»; sogna di massacrare a colpi di mitraglia i «pretendenti» che la
assediano: «Oh! che bella romanza, che manduline, checcanzuna, che marechiare,
nella casa liberata! disinfettata!». Poi fugge di nuovo a Pastrufazio. IX e
ultimo «tratto»: quella stessa notte, le guardie private assoldate dal Trabatta
dopo il furto subìto, insospettite da alcuni rumori, scoprono nella camera da
letto della villa, esanime, la madre, offesa da una ferita alla testa: «Un
orribile coagulo di sangue si era aggrumato, ancor vivo, sui capelli grigi,
dissolti, due fili di sangue le colavano dalle narici, le scendevano sulla bocca
semiaperta». Un medico appronta i primi soccorsi, evidentemente vani. All'alba,
il canto del gallo: «nella solitudine della campagna apparita».
Nelle note costruttive di Gadda risultano previste «Tre scene finali»: dopo
quella effettivamente sviluppata all'inizio del IX «tratto», «in una scena
terribile la signora è assalita dal Manganones mentre è in letto. Ella crede il
figlio. Statura eguale. E' ferita. Sopraggiungono i due peones e la salvano - In
una terza scena si ha l'agonia e la morte della signora - che crede nel delirio
di essere stata uccisa dal figlio. Il dolore eterno».
Nella Cognizione quella che è Vera e propria autobiografia, appena dissimulata
(secondo il principio, enunciato in una lettera a Contini, di «"narrare
intorbidando le acque" per dépister il lettore»), si fonde inestricabilmente con
una serie di immaginazioni deliranti: i dati della realtà, in altri termini,
vengono costantemente deformati da quella che Gadda, in una sua nota, definisce
«isteria storica». Ci troviamo di fronte al referto (superbamente Verbalizzato)
di una lancinante autoanalisi in profondità, la cui condizione di incompiutezza
solleva infinite questioni sulla Valenza delle immagini di morte e di colpa che
quel finale non scritto avrebbe dovuto contenere.
Da un punto di vista letterario siamo invece di fronte al capolavoro di Gadda:
nel quale vengono a confliggere, e mirabilmente convivere, sia il formidabile
talento plurilinguistico e "macaronico" dell'acre fustigatore satirico e
parodistico che deflagra appieno nel prologo), sia l'altrettanto verticale
capacità di rapprendere in uno stile "alto" gli "umori" più ritrosi di una
personalità tormentata. Storia individuale e nazionale si siglano così e per
sempre in una sintesi perfetta di elegia e di grottesco: «Pur sorgendo dal buio,
dove non immora, ma se ne svincola, quello di Gadda è un mondo robustamente
esterno, nel quale l'autore crede. Il suo, considerato da quest'angolo, è un
espressionismo naturalistico» (Gianfranco Contini).
|