Come tutte le altre opere di rilievo di Gadda, L'Adalgisa ha avuto una storia
testuale assai travagliata. Che i «Disegni milanesi» (questo il sottotitolo)
pubblicati con dedica «a Giuseppe De Robertis», nel gennaio del 1944 (ma il
finito di stampare indica la data del 22 dicembre '43) fossero le punte
affioranti di un compatto quanto invisibile iceberg sommerso, si poteva indurre
da indizi esterni e interni. Fra i primi, il sottotitolo apposto al «disegno»
eponimo, L'Adalgisa, all'atto della prima, parziale pubblicazione: «Disegno su
tre fogli espunto dal romanzo inedito "Un fulmine sul 220"». Fra i secondi
andranno annoverati «incastri tematici e di parentela tra i vari personaggi
analogie percepibili dall'uno all'altro foglio; e soprattutto numerosi
particolari esorbitanti» (Isella).
Nel luglio del '45, per penuria cartacea, esce decurtata la seconda edizione
dell'Adalgisa, con i «disegni» che scendono da dieci a sette (perdendo Notte di
luna e i due frammenti dalla Cognizione). L'ulteriore edizione del volume
einaudiano del '55, I sogni e la folgore, restaura l'indice del '43. Su di essa
si basano tutte le successive edizioni: dodici autonome sempre presso Einaudi,
dal 1960 al 1985 (a partire da quella del febbraio 1963, nella «Nuova Universale
Einaudi», con una «Nota» di Gianfranco Contini).
Proprio Dante Isella ha di recente dato alla luce quaderni gaddiani che, fra
vari altri materiali, danno conto di un romanzo che reca appunto il titolo Un
fulmine sul 220. Il primo spunto risale alla fine del '31, mentre la stesura
vera e propria abbraccia il '32-33 con una ripresa nel '34. Il progetto era di
ammettere il Fulmine in un trittico di romanzi brevi di ambientazione
"milanese", insieme con San Giorgio in casa Brocchi (pubblicato su «Solaria» nel
'31) e con L'Incendio di via Keplero, in parallela e altrettanto travagliata
gestazione (sul volume del «Tesoretto» anteriore a quello in cui apparirà
L'Adalgisa, il racconto porterà il titolo Studio 128 per l'apertura del racconto
inedito; L'incendio di via Keplero). Dal materiale sopravvissuto del Fulmine, si
capisce come sua figura chiave dovesse essere quella di Bruno, il garzone
ciclista («fattorino avventizio: "de menà el triciclo"») che corteggia e infine
seduce la bella e malinconica Elsa, giovane moglie dell'insulso N.H. Gian Maria
Caviggioni. Di qui il rendez-vous serale al Parco, nel quale «120 coppie di
amatori (tutti professori in amore)» avrebbero eseguito il loro concerto di vita
«fino allo spasimo del silenzio» (pendant di quello, satiricamente
rappresentato, al quale assistono i capotribù della borghesia milanese,
«coniugati fra loro, imparentati fra loro, associati fra loro», nel «disegno»
intitolato appunto Un «concerto» di centoventi professori). Solo in forma di
appunti la conclusione traumatica dell'idillio "trasgressivo" fra questi
rappresentanti di universi sociali così distanti: i convegni di Elsa e Bruno -
di là dalla magica serata "musicale" trascorsa al Parco - si sarebbero svolti in
una cabina elettrica alla periferia di Milano, finché Bruno sarebbe stato
incenerito da «scariche oscillatorie ad altissimo potenziale», scatenate dal
«caso più unico che raro» di un fulmine che avrebbe centrato la linea elettrica
a 220.000 volt. Un fulmine sul 220, appunto.
Come si vede, un nodo davvero elettrizzante di struggimento sensuale - corda non
ignota, del resto, al padre della Zoraide nella Meccanica, o della Jole nel San
Giorgio - e critica sociale. Si capiscono gli imbarazzi di Gadda quando alla
fine, ben entro le catastrofiche vicende della guerra declinante, ebbe a uscire
in pubblico solo il cóté "satirico" di questo mélange ricco e strano. Scriverà
al cugino Piero Gadda Conti, nel '44, che il libro «era destinato a tempi
normali e sereni: volevo quasi fermarlo, ma l'editore aveva già sostenuto le
spese ed ha voluto uscire. I milanesi vorranno comprendere. Il mio dolore per la
città, e per tutto, è infinito». Ma già nel 1935 Gadda aveva scritto, in certo
senso profeticamente, a Silvio Guarnieri: «è un portato spontaneo del dolore di
un essere linguacciuto, che ha bisogno di far sapere a un certo numero di
persone che essi sono degli imbecilli. Però quando questi imbecilli fossero
mandati al Colosseo per essere sbranati dai leoni, la mordace ironia nei loro
confronti non sarebbe più possibile. Così è accaduto».
L'Adalgisa, quale giunge al pubblico negli anni Quaranta, consiste di nove
«disegni» preceduti da un'ouverture lirica. Notte di luna, questo il suo titolo
(da non confondere con l'omonimo testo che verrà pubblicato, nel 1971, nel
volume Novella seconda), è estratta da Gadda dallo scartafaccio del Cahier d'études,
risalente agli anni Venti (e ospitante per la sua maggior parte l'incompiuto
Racconto italiano di ignoto del Novecento pubblicato postumo, nel 1983): forma
di passaggio dalla squisita "prosa d'arte" di tanta parte dei suoi primi libri
al sanguigno realismo metropolitano del libro nuovo (l'excursus-anticipato in
«Primato», nel giugno del '42 - termina con l'inquadratura di «ciclisti e
pedoni, reduci dal lavoro, con vari abiti e generalmente dimessi»).
Nei «disegni» veri e propri (ai quali si aggiungono, in quinta e settima sede,
due frammenti dalla Cognizione del dolore: Strane dicerie contristano i
Bertoloni e Navi approdano al Parapagàl), a partire da Quando il Girolamo ha
smesso... (uscito in due puntate su «La Ruota» all'inizio del '43), si precisa
l'intento di Gadda dì «essere il Robespierre della borghesia milanese» (come
aveva scritto all'amico Ambrogio Gobbi nel 1934). Violentemente raffigurato è il
contrasto fra le benemerenze della «vecchia classe» e lo spirito di rapina, il
cialtronismo e il cattivo gusto della nuova, arricchita borghesia ambrosiana,
dalla «saggezza moraleggiante, consigliante, sentenziante, giudicante, e
stentatamente grammaticante» (così in un'altra lettera a Gobbi).
Fanno qui la loro prima apparizione i personaggi della trepida Elsa e del vivace
garzone della «premiata macelleria Testori Felice», Bruno detto «el Língèra»
(che sta per «teppa, malavita»: ma, avverte il commento d'autore, «in una
sfumatura espressiva piuttosto blanda e scherzosa»). Tipico il violento,
corrosivo ritratto dei nobili Caviggioni in I ritagli di tempo, sesto "pezzo"
del libro («Primato», marzo '42), i quali fanno di tutto per spingere nelle
braccia di Elsa il nipote Gian Maria, ingegnere dal «bel cranio ragionativo di
dolicocefalo biondo». Un vertice di comicità viene raggiunto nel frammento (il
quarto) Quattro figlie ebbe e ciascuna regina (anticipato su «Letteratura»
all'inizio del '42), di piglio satirico davvero pariniano - dove le enuresi
della piccola Maria Giuseppa assurgono a cardine universale della vita familiare
e sociale dei de' Marpioni -, e nel già ricordato, "corale" Un "concerto" di
centoventi professori, terzultimo "pezzo" della serie («Letteratura»,
luglio-dicembre 1942).
Nel breve Claudio disimpara a vivere, l'impaccio sentimentale di un giovane
allude alle difficoltà sofferte da temperamenti emotivamente e spiritualmente
difformi, che per nascita si trovino incastrati in questa cappa di soffocante
conformismo - e non cela del tutto una sottile componente autobiografica. Negli
ultimi «disegni», Al Parco, in una sera di maggio e L'Adalgisa, si assiste a una
progressiva messa a fuoco dello sguardo narrativo: dal grande affresco di
costume dei primi «disegni» alla più partecipata individuazione dei caratteri
individuali di codesti "difformi". Sono due personaggi femminili a incarnare
l'anelito a una vita più libera e autentica che si leva, malgrado tutto,
dall'ossessiva griglia precettistica e consuetudinaria delle convenienze
borghesi: la già ricordata giovane malmaritata Elsa (la cui soffusa malinconia,
che ha per origine anche la mancata maternità, anticipa quella della Liliana
Balducci del Pasticciaccio) e soprattutto colei che al libro finisce per dare il
titolo, la bella popolana Adalgisa Borella, cantante lirica «di quint'ordine»,
poi amorevole sposa del rispettabile ragionier Carlo Biandronni, naturalmente
malvista per le sue origini popolari («"... E che ero una qui, e che ero una là;
e che cantavo nei teatri da strapazzo, per i militari; che avevo già avuto una
cinquantina d'amanti!... ma sì!... cento... mille... un milione!"»); poi vita in
forma di virtuosistico monologo («"Hai da vendicarmi, Elsa mia! Voglio dire sta'
allegra; divèrtiti intanto che sei ancora in tempo"»). Il «disegno» termina con
la visita dell'Adalgisa al Cimitero Monumentale, dove, andata per accudire alla
tomba del Carlo, per l'ennesima volta non si perita di dare "scandalo",
lucidando anche il monumento funebre dei «Carugati di via Brisa, papà e mamma,
suoi ex-amministrati», raffigurante un «Saturno, con la clepsidra e la falce»:
lavorando di gomito «raschino» e «slancio lombardo», alla fine riesce
trionfalmente a mettere a nudo, scrostandola di «certi licheni verdastri, o
nerastri», «quell'altra falce, tra le due natiche».
Il capolavoro del Gadda "milanese" non è solo, dunque, acre satira del proprio
ambiente di estrazione, la «somaresca tribù» dell'affaccendata borghesia
ambrosiana (non sfuggirà come, in una delle scatenate tirate onomastiche,
figurino, insieme con «i Consonni, i Carugati, i Roncoroni e i Brambilla», pure
«i Gadda»); è pure una contrastata e sofferta dichiarazione d'amore nei
confronti degli strati più umili del melting pot lombardo: sì che davvero si può
concordare, in questo caso, con l'opinione di Isella per cui «la "funzione
Gadda" della nostra letteratura può chiamarsi, altrettanto legittimamente, la
"funzione Porta"». Ma in generale, di là cioè dal contrastato atteggiamento
affettivo nei confronti dei propri diversi idolo tribus, la sensibilità di
questo Gadda è tutta rivolta a quella che in una lettera a Contini dell'aprile
'46 chiamerà l'«icastica di alto valore» dei ceti popolari. In questo senso la
grande "aria" dell'Adalgisa, che mette capo al volume a lei intitolato, fa il
paio con la «cantata larga» e «aria di chiusura» della giovane prostituta
laziale Ines Cionini, nel Pasticciaccio. Non a caso entrambi i libri si valgono
al massimo dell'«insinuazione del dialetto» come «forma di accostamento al
pòppolo», «partecipazione al suo giro mentale e al suo essere e alla sua
espressione» (come si legge sempre nella stessa lettera a Contini): «l'orditura
sintattica, le clausole prosodiche, l'impasto lessicale della discorso», si
legge nel commento a Quattro figlie ebbe e ciascuna regina, devono dunque
intendersi «funzioni mimetiche dell'impetus e dello zefiro parlativo i quali
dall'ambiente promanano o prorompono».
Rispetto a questa tendenza grandiosamente mimetica, tuttavia, L'Adalgisa porta
al massimo anche la torsione di gusto manierista, già ravvisabile nel Castello
di Udine, alla geminazione della scrittura: fra onda verbale del testo e suo
tracimante autocommento. Le note, talora lunghe e autosufficienti digressioni
storico-erudite (abnorme, per esempio, la nota 10 a Quando il Girolamo ha
smesso...: sei fitte pagine di argomento napoleonico), ne denunciano, insomma,
l'impianto felicemente artificiale.
Delle grandi opere gaddiane, L'Adalgisa è quella che più ha faticato a imporsi
fuori dai confini nazionali: la prima traduzione è, sorprendentemente, quella
giapponese, uscita nel 1977 a cura di Ken Chigusa. Solo nel 1987 si aggiunge la
traduzione francese (a cura di JeanPaul Manganaro), alla quale segue, nel 1989,
quella tedesca (a cura di Toni Kienlechner).
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