L'esatto arco di composizione del più fortunato romanzo di Gadda è oggetto di
acuto dibattito da parte della critica recente (ne risulta tuttora disperso il
manoscritto). Con ogni probabilità, la data di stesura va spostata dal
tradizionale 1945 all'inizio del 1946, quando si verifica l'episodio di cronaca
nera che fornisce lo spunto al plot, il delitto Stern (Gadda ne può leggere
ampie cronache sul quotidiano «Il Risorgimento liberale»). In ogni caso, Quer
pasticciaccio brutto de via Merulana esce in cinque puntate sulla rivista
«Letteratura», dal numero del gennaio-febbraio a quello del novembre-dicembre
del '46. Si tratta, tuttavia, solo di una prima parte della narrazione (le
cinque puntate di «Letteratura» corrispondono ai primi sei dei dieci capitoli
definitivi; la materia della quarta "puntata" non verrà ripresa nell'edizione in
volume, che "taglia" anche le ricche note d'autore apparse in rivista). La
stesura e la politura della seconda parte (la «coda serpentesca del
coccodrillone», come la definisce l'autore in una lettera a Gianfranco Contini),
insieme a un importante lavoro di revisione linguistica (soprattutto della
componente dialettale, per la quale si vale della consulenza, fra gli altri, del
poeta romanesco Mario dell'Arco), occupa saltuariamente Gadda tra la fine degli
anni Quaranta e i primi anni Cinquanta. In particolare, lo scrittore rilutta a
stendere una conclusione che contenga la soluzione del "giallo" (che tuttavia
compare nel trattamento cinematografico che del romanzo Gadda compie alla fine
degli anni Quaranta per la Lux-Film, Il palazzo degli ori). Alla fine, le
insistenze dell'editore Livio Garzanti (soprattutto attraverso i suoi consulenti
Attilio Bertolucci e Pietro Citati) convincono Gadda a dare alle stampe il
Pasticciaccio con l'«apocope drammatica» (come la definisce in un'intervista ad
Alberto Moravia) del finale: lo scioglimento della vicenda é rimandato a un
secondo volume (ancora nei primi anni Sessanta Gadda afferma di averlo quasi
pronto; ma non ve n'è traccia nelle sue carte) o a un'edizione ampliata (che non
verrà mai consegnata all'editore). Ancora in bozze, Gadda apporta variazioni
importanti (in particolare il taglio della quarta puntata di «Letteratura»).
Alla fine di giugno del 1957 il romanzo vede finalmente la luce (nella collana
«Romanzi moderni»), e qualche ulteriore variante viene apportata nelle edizioni
immediatamente successive del settembre 1957 e del gennaio 1958.
L'intreccio del "giallo" ruota attorno a due delitti, avvenuti a distanza di
pochi giorni (14 e 17 marzo 1927) nello stesso stabile romano di via Merulana
219 («er palazzo dell'oro», o «de li pescecani», nella fantasia popolare):
l'aggressione all'aristocratica veneta Menegazzi da parte di un robusto giovane
che le ruba una quantità di gioielli, e l'omicidio della ancora più ricca
Liliana Balducci. Delle indagini è incaricato il commissario di origine molisana
Francesco Ingravallo («tutti oramai lo chiamavano don Ciccio»), che dei coniugi
Balducci era conoscente: meno di un mese prima aveva pranzato a casa loro,
trovando modo di ammirare calorosamente la bellezza malinconica di Liliana,
donna tormentata dall'assenza di prole. Ingravallo è un poliziotto sui generis:
un po' filosofo un po' psicologo, si ostina ad applicare alle sue indagini
letture scarsamente apprezzate dai superiori («questioni un po' da manicomio:
una terminologia da medici dei matti»). La contemplazione del cadavere di
Liliana, prostrata a terra in una «posizione infame», supina con la gonna
rovesciata fino al petto, dà adito a considerazioni amare e cerebrali sui
misteri del sesso e della morte. I primi sospettati sono il maturo e obeso
Commendator Angeloni, funzionario «der Ministero dell'Economia Nazzionale», il
quale è noto alla polizia per i suoi sospetti rapporti con certi garzoni di
macelleria (tra i quali potrebbe esservi l'autore del furto Menegazzi), e
soprattutto il giovane e fatuo rappresentante di commercio Giuliano Valdarena,
cugino di Liliana e primo scopritore del suo cadavere, nel cui appartamento si
rinvengono banconote e gioielli appartenuti alla defunta (di ritorno da un
viaggio di lavoro, il rozzo marito di Liliana, Remo Balducci, scopre che
l'assassinio è stato accompagnato dal furto). Valdarena sostiene che la cugina
gli aveva fatto questi regali in vista delle sue nozze (e in cambio della
promessa di farle adottare il primo bambino che fosse nato dall'unione). Il
gigantesco sacerdote Don Lorenzo Corpi rivela l'esistenza di un testamento
olografo di Liliana, con il quale il suo cospicuo patrimonio viene suddiviso in
numerose donazioni, per lo più alle giovani «figliocce» che di volta in volta si
sono alternate in casa Balducci: splendide ragazze del popolo romano delle quali
Liliana amava morbosamente circondarsi (e la cui torbida, quasi ferina
sensualità Don Corpi descrive con insistenza). Ingravallo ricorda bene la
conturbante domestica che aveva conosciuto durante il pranzo a casa Balducci,
Assunta Crocchiapani, la quale era stata preceduta dall'ancora più eccitante
fisicità di tale Virginia Troddu (ipotizza Ingravallo che la nevrotica
prodigalità di Liliana nei confronti delle «figliocce» possa spiegarsì con una
«sforzata sympatia sororale nei confronti delle cosessuate»).
Nel frattempo l'autore della rapina Meneindagini si spostano ormai - coordinate,
oltre che da Ingravallo, dall'istrionico e incalzante funzionario napoletano
Fumi - nell'ambiente delle «figliocce», tutte provenienti dal circondario della
città, nella fascia in cui le ultime borgate sfumano nel contado: al momento del
delitto l'Assunta si era allontanata da casa Balducci per assistere il padre
moribondo nella sua casa a Tor di Gheppio. Il 22 marzo viene fermata per
prostituzione l'ultima delle «figliocce», Ines Cionini, che viene interrogata a
lungo e alla fine svela agli investigatori l'attività ambigua del
laboratorio-antro-bettola «delli Du Santi» - gestito dalla fattucchiera sdentata
Zamira Pàcori - nel quale le allieve «rimagliatrici» adescano i passanti: fra i
quali - ricorda con rabbia Ines - il suo ex fidanzato Diomede Lanciani, che in
passato ha lavorato come elettricista presso la Menegazzi. Pure dell'orbita
della Zamira, una ragazza dagli «occhi neri come due stelle dell'Inferno»:
l'Assunta Crocchiapani. Infine si capisce che il fratello di Diomede, Ascanio,
che lavora a un banchetto di porchetta in piazza Vittorio, ha fatto da "palo"
durante il furto Menegazzi. La mattina dopo, l'ambizioso e zelante brigadiere
piemontese Pestalozzi si dirige verso il laboratorio di Zamira su un side-car;
gli torna in mente «l'interminabile sogno della notte» precedente, dominato da
un «topazio» che si trasforma in un «topo», e dalla contessa Menegazzi che
diviene una «Circia ebriaca». «Alli Du Santi» (località della periferia dominata
da un tabernacolo con l'affresco di Pietro e Paolo, opera del pittore Manieroni)
Pestalozzi interroga Zamira, e scopre alla mano di una delle sue lavoranti,
Lavinia Mattonari, un anello con il topazio della Menegazzi. Lavinia chiama in
causa sua cugina Camilla: in un comodino della camera da letto di quest'ultima
viene rinvenuto un pitale in cui è nascosta la refurtiva della rapina Menegazzi
(affidata a Camilla da Enea Retalli). Lo stesso 23 marzo Ingravallo si reca a
Tor di Gheppio per interrogare l'Assunta, assisa al capezzale del padre morente
in compagnia di una vecchia, la Veronica, che pare «impietrata nella
rimemorazione degli evi». Ingravallo stringe d'assedio l'Assunta, vuole il nome
dell'assassino di Liliana, e alla ragazza sfugge un lapsus forse rivelatore:
«No, sor dottò, no, no, nun so' stata io!», grida disperata; «il grido
incredibile bloccò il furore dell'ossesso. Egli non intese. là pe llà. ciò che
la sua anima era in procinto d'intendere. Quella piega nera verticale tra i due
sopraccigli dell'ira, nel volto bianchissimo della ragazza, lo paralizzò, lo
indusse a riflettere: a ripentirsi, quasi».
Il Pasticciaccio costituisce senza dubbio il vertice del "barocco" gaddiano:
ossia di quell'unione di deformazione percettiva, furioso plurilinguismo e
immoderata metastasi verbale (il pastiche sotto la cui insegna Contini aveva
presentato Gadda, nel 1934) che ha fatto la fortuna e l'esemplarità dello
scrittore lombardo presso i narratori delle generazioni successive. Ma è anche
(con la strenua, formidabile invettiva contro il fascismo che di continuo lo
punteggia) uno spietato e insieme appassionato «monumento della plebe romana»
(come il Belli definì i suoi Sonetti). La «severa lamentazione» che ne risulta,
annotava nel 1960 Giorgio Manganelli, «colma di dignità la esistenza oltraggiosa
di questi che vien fatto di chiamare gli indigeni».
Il Pasticciaccio è senza paragone il maggior successo di Gadda. Dal 1957 al 1993
se ne contano, tutte uscite da Garzanti, ben trentatré edizioni italiane, alle
quali vanno aggiunte le numerose traduzioni. Nel 1959 Pietro Germi ne trasse il
film Un maledetto imbroglio (nel quale interpretava in prima persona il
personaggio di Ingravallo), mentre al 1983 risale uno sceneggiato televisivo
diretto da Pietro Schivazappa (Ingravallo era Flavio Bucci). Una riduzione
teatrale del Pasticciaccio è stata portata sulle scene da Luca Ronconi nel 1996
(con Franco Graziosi nel ruolo di Ingravallo): ne esiste anche una parziale
edizione televisiva, realizzata da Giuseppe Bertolucci e andata in onda il 15
marzo del 1997.
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