Luigi
De Bellis

 


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Pier Paolo Pasolini



AFFABULAZIONE: Tragedia


Composta in una prima stesura nel 1966. Il testo fu messo in scena, vivente l'autore, da un gruppo di giovani a Torino, il 30 gennaio del '75; nel dicembre 77 fu Vittorio Gassman, regista e protagonista, a rappresentarlo a Roma, al Teatro Tenda, altri interpreti Corrado Gaipa, Silvia Monelli, Luca Dal Fabbro. Fra gli ulteriori allestimenti, si segnalano quelli con la regia di Luca Ronconi.

Affabulazione, in versi liberi, è articolata in otto episodi, un prologo e un epilogo. Nel prologo appare l'Ombra di Sofocle (come in certi drammi e commedie umanistico-rinascimentali che affidavano l'introduzione allo spirito di una auctoritas classica), che invita il pubblico a seguire «le vicende un po' indecenti / di questa tragedia che finisce ma non comincia», in «un linguaggio troppo difficile e troppo facile» (è subito evidente la propensione per le formule ossimoriche).

Nel primo episodio il Padre è immerso in un sogno angoscioso, ambientato in una stazione ferroviaria, con un «ragazzo grande» che sembra essere suo padre e suo figlio insieme: il ragazzo fugge, irraggiungibile, e il sogno viene interrotto bruscamente dalla Madre, cioè la moglie del Padre, che gli domanda cosa sognasse. Il Padre non sa dirlo, il mistero onirico prelude a tutta la vicenda. In due monologhi il Padre esprime la propria confusione e il proprio ossessivo interrogarsi sul figlio: perché è così biondo, quel «biondo terribile», così meravigliosamente estraneo al padre? Sopraggiunge il Figlio; in un dialogo con il Padre egli dimostra tutta la propria obbedienza al genitore e, insieme, la sua continua pulsione di fuga da lui; in una battuta cruciale lo invita a diventare come lui, se proprio vuole che siano uguali.

Nel secondo episodio il Padre, dopo un ulteriore monologo, in cui soffre per l'incapacità di comprendere e ricordare appieno il sogno, ha un colloquio con il Prete, presto interrotto dall'arrivo del Figlio con la sua Ragazza; il Prete esce, e il dialogo fra i tre è guidato dall'istrionismo stravolto del Padre, che comincia con una "chiacchierata" ironica e tagliente, e poi trasforma la scena in una "scenata di gelosia" in cui insulta la Ragazza dandole della puttana, mentre nel frattempo è arrivata anche la Madre. I ragazzi escono, e la Madre rimprovera il Padre di essersi comportato così, «senza un po' di spirito»: è stato un dolore terribile, che lo stordisce, a farlo agire in quel modo violento e il Padre se ne rende conto; è la sofferenza per un'esclusione dall'essere misteriosamente giovane e insieme virile del figlio, un'invidia e un desiderio miscelati spaventosamente. Il Padre sa di essere ridicolo, privo di dignità, e lo confessa a Dio in un grottesco monologo da Christus patiens che chiude l'episodio.

L'episodio seguente vede in scena la Madre che confida al Prete la propria costernazione: il marito non lavora più, si comporta come un pazzo, da industriale milanese modello che era. L'arrivo del Padre e l'uscita degli altri preludono a un nuovo dialogo con il Figlio: il Padre dichiara disperatamente di volere «assomigliare» a lui, e il Figlio risponde sempre con dolce e spiazzante condiscendenza; il Padre ottiene da lui la promessa di tornare quella sera alle sette precise e di recarsi direttamente nello studio, per stare insieme loro due soli, poi gli fa un dono simbolico, allusivo e premonitore: un coltello.

Il quarto episodio contiene un dialogo tra Padre e Madre. Il Padre supplica la donna di venire nello studio alle sette e di fare l'amore con lui, nuda, sul tappeto; la Madre rifiuta, lo trova ormai privo di umorismo, debole, quasi un pagliaccio. Il Padre allora capisce che lei non c'entra nulla in questa storia, che è «un mezzo inutile» di cui può fare a meno («l'edipo di Affabulazione è un rebus che esclude dalla compromissione tragica la figura di puro ruolo della madre, mentre stringe nella spirale sesso-potere la coppia padre-figlio come nel viluppo serpentino di Laocoonte, del quale il padre riproduce l'urlo di orrore con i suoi prolungati, ricorrenti "aaaaah, aaaaah..."», scrive Nino Borsellino); nel monologo conclusivo dell'episodio decide di attendere solo il figlio e di mostrarsi a lui con il sesso in mano, nell'atto esibizionistico onanistico. Spera così, implicitamente, di assimilare a sé quella «inconfessata / voglia di fecondare che rende il ragazzo, / così giovane, più uomo di un uomo», sconvolto però sempre dalla sua grazia e dalla sua misteriosa, terribile obbedienza e fedeltà.

II quinto episodio si svolge in un commissariato: il Figlio è fuggito di casa, ed è stato recuperato alla stazione di La Spezia. Un ulteriore dialogo padre-figlio fa sì che il Padre si dichiari sempre più apertamente e sconvenientemente: «Cosi davanti alla tua giovinezza, / piena di seme e di voglia di fecondare, / il padre sei tu. / E io sono il bambino. L'ho capito adesso. / uccidi, uccidi il bambino / che vuole vedere il tuo cazzo!». Ma il figlio ripete per due volte «tu vuoi passare ogni limite, / ma io non ti seguirò!».

Nel sesto episodio il Padre, ferito con il coltello dal Figlio esasperato, è sul letto e dialoga con l'Ombra di Sofocle, che gli rivela un dato fondamentale. Suo figlio non è un «enigma» come quello posto dalla Sfinge a Edipo), è piuttosto un «mistero». Non è cioè qualcosa che possa essere risolto dalla luce della ragione e quindi posseduto; è invece un groppo di oscurità insolubile che può essere conosciuto ma non illuminato. Il Padre ha compreso: «mio figlio è dunque la realtà, / la realtà che mi sfugge: / E io non devo risolverla, perché non è un enigma: / ma conoscerla - cioè toccarla,. vederla e sentirla - / perché è un mistero».

Nell'episodio seguente il Padre è in visita da una Negromante che gli rivela, leggendo in una palla di vetro, il luogo dove si trova ora il Figlio nuovamente scappato di casa; la Negromante vede nella sua sfera anche altre cose, misteriose, un consesso di Padri (fra cui il protagonista) che discutono di guerra prossima, «o comunque di cose / che riguardano insieme i giovani e la morte».

Nell'ultimo episodio il Padre è giunto nella casa dove abita la Ragazza, che ospita il Figlio: ottiene da lei la concessione di poter spiare, attraverso il buco della serratura, i due giovani che fanno l'amore: sopraggiunge il Figlio e, dopo un dialogo con la Ragazza, va nella camera da letto con lei. Il Padre, scrutando dal buco della serratura, recita un monologo in cui dichiara che i padri «sono tutti impotenti», offesi e trafitti irrimediabilmente dal corpo giovane dei figli, dallo scandalo del loro «membro fresco, umile, assetato», vero scettro di un potere irrazionale: «Ci sono delle epoche nel mondo», conclude, «in cui i padri degenerano / e se uccidono i loro figli / compiono dei regicidi». Fuori scena, infatti, il Padre accoltellerà a morte il Figlio, come Edipo uccise Laio, in una inversione patente dei ruoli.

L'epilogo si svolge in una stazione ferroviaria: il Padre è diventato un barbone che vive nel vagone di un treno abbandonato; dialoga con un mendicante dal comico nome Cacarella e rammenta il passato, come un Edipo cieco e ridicolo: la Madre, Giocasta sullo sfondo, si è impiccata, ed egli ha trascorso anni in prigione per aver assassinato il figlio, da cui non era riuscito a farsi uccidere. Ed è lo Spirito del Figlio a chiamarlo con il suo attuale soprannome, Bersagliere, e a invitarlo a rientrare nel suo vagone: «sta per piovere e è quasi notte».

Affabulazione dialoga in modo esplicito col teatro di Sofocle, costruendo una sorta di parodia dell'Edipo Re (parodia anche di Freud, come suggerisce Franca Angelini), nonché richiamandosi alle Trachinie, soprattutto al dialogo finale di Eracle con Illo, dove il padre supplica il figlio di deporlo sul rogo e bruciarlo (è proprio l'Ombra di Sofocle a evocare il dramma di Ercole, nel sesto episodio). Di là da ogni interpretazione politica e sociologica, certamente legittima, il nucleo essenziale della tragedia è tutto nell'epifania stravolgente del mistero della giovinezza maschile, della sua bionda bellezza e della sua ingenua e assoluta potenza sessuale; il Padre è figura fortemente autobiografica, nel suo far coincidere desiderio erotico con invidia e desiderio frustrato di identificazione: l'oggetto amato non è fruito come alterità complementare con cui congiungersi, ma come paradigma inarrivabile in quanto non fagocitabile e inassimilabile, mistero che stordisce e offende con la sua grazia e obbedienza-potere. Incarnazione quindi della contraddizione insolubile, quell' "ossimoro permanente", quello scandalo dell'irrazionale che ossessiona Pasolini in tutta la sua opera e in tutta la sua vita: opera e vita concentrate disperatamente non su un "enigma", aristotelicamente solubile, ma su un "mistero" che si può soltanto esperire fino allo strazio e alla gloria estremi. Le strutture del teatro pasoliniano, inoltre, si rifanno ora alla tragedia greca, ora alla sacra rappresentazione medievale, scavalcando così sia il teatro tradizionale borghese, in putrefazione, sia quello avanguardistico, basato sul corpo e sull'urlo, antiborghese ma comunque interno alla logica del sistema: Pasolini propone un teatro di parola, un rito culturale che si rivolge agli intellettuali (anche se non nega valenze didattiche per «operai» o «giovani fascisti»), come si legge nel Manifesto per un nuovo teatro del '68.

 

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