Il periodo di gestazione del romanzo, attraverso l'elaborazione di sezioni
narrative spesso relativamente autonome, risale al 1950, l'anno dell'arrivo di
Pasolini a Roma.
Di un Ur-Ragazzi di vita si parla a proposito di una redazione dattiloscritta
del 1950-51, articolata in tre parti, «Il Ferrobedò», «Li belli pischelli», «Terracina»;
la prima di esse usci su «Paragone» nel giugno del '51. Un'altra anticipazione,
Regazzi de vita, uscì sulla stessa rivista, nell'ottobre del '53; due redazioni
ulteriori dell'opera sono conservate nella Biblioteca Nazionale di Roma: con la
seconda siamo già alla fine del 1954. Pasolini dovette rivedere, correggere,
sfrondare e censurare il proprio romanzo, soffrendo molto per questa operazione
coatta («sono dimagrito cinque chili», confessa in una lettera del 19 maggio
'55).
Il romanzo è scandito in otto capitoli; l'ambientazione è Roma e l'arco
cronologico va dal dopoguerra fino alla metà degli anni '50, ma un regime
opposto di atemporalità è dato dalla costante stagionale, giacché è praticamente
sempre estate, un'estate calda come una fornace. Il primo capitolo, «Il
Ferrobedò», esordisce infatti: «Era una caldissima giornata di luglio». «"Il
Ferrobedò" è la storpiatura romanesca della Società Ferro Beton, di cui c'è, tra
Monteverde Vecchio e Monteverde Nuovo, presso la Borgata Donna Olympia ("i
Grattacieli"), una grossa fabbrica. Questa è la matrice, l'ambiente dove cova
l'infanzia del Riccetto e degli altri: al tempo della liberazione è il simbolo
della devastazione e dell'abbandono: distrutta dai Tedeschi, saccheggiata dalla
gente, lurida, cadente», spiegava Pasolini in una lettera a Livio Garzanti del
novembre 1954.
Con il primo capitolo si entra subito nella narrazione delle avventure
picaresche del protagonista, o semiprotagonista, il Riccetto, e dei suoi amici «pischelli»,
«regazzini». Anni di fame, soprattutto per il sottoproletariato romano; anni di
ricerche affannose di cibo, come nella scena ai Mercati Generali, dove la folla
penetra in massa, in una scena quasi manzoniana, se non fosse per la
"neorealistica" brutalità con cui si registra la morte di una donna che cade in
fondo a una scala per la rottura della ringhiera di ferro. Tutta la seconda
parte del capitolo è ambientata sul Tevere, luogo di popolare balneazione, dove
i ragazzi nuotano, salgono su una barca e infine Riccetto si tuffa per salvare
una rondine che stava affogando.
Il secondo capitolo è intitolato a «Il Riccetto» , che ha l'ambizione di farsi
furbo, migliorare la propria condizione, pur nella purezza primitiva che ancora
lo connota: si fa insegnare da un napoletano un gioco con le carte, ma ne
capisce ben poco (la descrizione fisica del napoletano ubriaco è un esempio di
espressionismo deformante pasoliniano: «la faccia gli s'era fatta come un pezzo
di carne scottata con quella faccia spappolata e gonfia» ecc.). Passano due anni
e Riccetto «s'era fatto un fijo de na mignotta completo»; si è arricchito e si è
fatto furbo, ma fino a un certo punto: un giorno se ne va al mare, a Ostia, con
gli amici più grandi per "farsi" la prostituta Nadia in un capanno, ma lei gli
ruba tutti i soldi dalla tasca dei pantaloni. Nel frattempo una disgrazia:
crollano le Scuole, un palazzone in via di Donna Olimpia, dove abita il Riccetto;
muore sua madre sotto le macerie e rimane ferito un suo amico, Marcello. Questi
è ricoverato, con due costole rotte che gli hanno leso gli organi interni: si
spegne assistito dalla madre in lacrime e dai compagni, in una scena resa ancor
più dolorosa e patetica dalla consapevolezza del ragazzo della propria sorte
(«"Me ne devo proprio annà! [...] devo proprio mori..."»). La tragedia della
morte di un giovanetto è ricorrente nell'opera pasoliniana: si pensi
all'episodio molto simile nel Sogno di una cosa o al film Mamma Roma.
Il terzo capitolo ha per titolo «Nottata a Villa Borghese». Riccetto e un amico
si industriano a vendere delle poltrone, poi con altri «pischelli» passano la
notte a Villa Borghese, dove vengono regolarmente derubati. Il giorno dopo,
vanno a mangiare alla mensa dei frati caritatevoli poi sull'autobus borseggiano
una signora.
Quarto capitolo, «Ragazzi di vita»: Riccetto e il Caciotta vanno con Amerigo,
più grande e prepotente, a giocare in una bisca; Amerigo perde quasi tutti i
soldi del Riccetto, poi arrivano i carabinieri, i «carrubba», e tutti scappano.
Riccetto si ritrova da solo, ma presto si unisce a un gruppo di ragazzini; viene
a sapere dopo che il Caciotta si è fatto "beccare" e che anche Amerigo è stato
preso, ha tentato una prima volta il suicidio è stato salvato, e poi si è
gettato dalla finestra del secondo piano: «per una settimana aveva agonizzato, e
finalmente se n'era andato all'alberi pizzuti» cioè ai cipressi del camposanto.
Riccetto va ai funerali di Amerigo, la cui salma sembra doversi svegliare da un
momento all'altro e «spaccare il grugno» a tutti.
Il capitolo quinto, «Le notti calde», apre su un altro dei ragazzi di vita, il
Lenzetta, che si ubriaca e di notte infastidisce, cantando a squarciagola, il
fratello maggiore: questi lo zittisce con uno spintone che lo «appiccica» al
muro (nella redazione non censurata il Lenzetta tentava addirittura di «imbrosarsi»
il fratello, cioè di sodomizzarlo). Riccetto, Alduccio e il Lenzetta vanno alla
ricerca di denaro: rubano insieme pezzi di ferraglia per rivenderli; al bar,
mezzi ubriachi, chiacchierano sulla verginità della Madonna. Sotto la luce della
luna dal «sederino d'argento», «grossa come un bidone», Riccetto e il Lenzetta,
insieme con un vecchio, rubano i cavolfiori dagli orti; poi salgono «su casa»
del vecchio, che ha moglie e figlie «'bbone». Più avanti troviamo Riccetto
fidanzato: gli servono soldi per l'anello, e allora tenta con gli amici un furto
di ferri vecchi, ma gli va male; seguono altre sue disavventure finché, affamato
e insonnolito, viene arrestato, beffa della sorte, proprio per un reato che non
ha commesso, e resterà in galera per tre anni (in una delle precedenti redazioni
Riccetto moriva investito da un autobus).
Il capitolo sesto, «Il bagno sull'Aniene», ha in epigrafe due terzine dantesche
(Inferno XXI, 118-123), che elencano i nomi curiosi ed eloquenti dei diavoli di
Malebolge in scorta a Dante e Virgilio, nella bolgia dei barattieri, dove il
motivo del tuffo è onnipresente. I ragazzi si fanno il bagno nell'Aniene:
scherzano, si provocano, cantano, sono tutti allegri nel sole; giocano con i
cani e li fanno azzuffare, poi continuano a divertirsi in uno spiazzo di
periferia, coinvolgendo anche delle bambine. Alla fine legano a un palo della
luce un ragazzino, «er Piattoletta», e fingono di dargli fuoco, ma i suoi
pantaloni calati si incendiano davvero (si saprà in seguito che il bambino è
rimasto soltanto un po' ustionato; nella versione non censurata gli andava
peggio).
Il penultimo capitolo, «Dentro Roma», inizia con scene di litigi e «baccajamenti»
a casa di Alduccio, che poi si incontra con il Begalone e i due, con le mani in
tasca, se ne vanno a piedi per Roma. Un inserto corale allarga il quadro fino a
descrivere la città ribollente nel caldo estivo, «con centinaia di migliaia di
vite umane che brulicavano tra i loro lotti, le loro casette di sfrattati o i
loro grattacieli». I due «pischelli» vagabondano allegri, poi si fanno il bagno
in una fontana per attirare l'attenzione di due ragazze. Incontrano il Riccetto
e rimorchiano un «froscio», un pederasta, descritto con notevole disprezzo da
Pasolini, che evidentemente non amava i gay effeminati («continuava a stringersi
con aria di persona cagionevole di salute il colletto della camicia, contro il
suo pettuccio di pollo»; «piegandosi un po' s'un ginocchio come una bambina che
fa la mossuccia per averla vinta» ecc.). Riccetto, dopo aver accompagnato gli
amici in un luogo appartato a Monteverde e aver rifiutato non brutalmente le
avances del «froscio», gironzola per i luoghi della sua infanzia, dove era il
palazzo crollato con casa sua; incontra un vecchio amico, vagabonda «meditabondo
e tranquillo, attraverso i cortili, in via di Donna Olimpia», in un nostos
carico di memorie: il ragazzo è cresciuto e maturato, ma, come vedremo, si è
anche "corrotto", ha perso l'innocenza primitivo-fanciullesca. Come è cambiato
il paesaggio urbano intorno, che testimonia di un «ritorno all'ordine» rispetto
alla devastazione del dopoguerra. Intanto gli altri due ragazzi vanno a spendere
i soldi, guadagnati con la marchetta, nel bordello; qui Alduccio va in bianco ed
è furente: quando torna a casa, accolto dai soliti urli e lamentele, accoltella
la madre.
L'ultimo capitolo del romanzo si intitola «La Comare Secca» e ha in esergo una
citazione dal Belli: «... la Commaraccia / Secca de Strada Giulia arza er
rampino», ove la «Commaraccia» è la morte, con riferimento allo scheletro armato
di falce a Santa Maria dell'Orazione e Morte, in via Giulia (La commare secca
sarà anche il titolo del film di esordio di Bernardo Bertolucci, del 1962,
tratto da un soggetto di Pasolini). Il capitolo si apre con nuove scene di
ragazzi al fiume e sui campi di periferia. Il Begalone è malato di tubercolosi e
ha una crisi gravissima: Pasolini lo paragona più volte al Cristo crocefisso o
deposto, con un gusto figurativo contaminatorio di sublime sacro e di umile che,
nel cinema, raggiungerà esiti altissimi con La ricotta (il Cristo deposto del
Mantegna è evocato anche alla fine di Mamma Roma). Sopraggiunge il Riccetto, che
esorta Alduccio a tornare a casa: la madre non l'ha denunciato, dunque non corre
rischi. Poi avverte Mariuccio e Genesio che i «carrubba» li stanno cercando per
aver dato fuoco al Piattoletta. Si fa il bagno, quindi se ne va e di lontano
assiste, senza intervenire, a una disgrazia: Genesio è afferrato dalla corrente
del fiume che lo inghiotte; la «Comare Secca» se l'è preso.
È lo stesso Pasolini, nella citata lettera a Garzanti, a sottolineare il legame
tra la scena del primo capitolo, in cui Riccetto salva una rondine nel fiume, e
questa ultima, in cui il ragazzo, cresciuto e induritosi, non muove un dito per
salvare il piccolo Genesio. «Il Riccetto è ormai perso tra gli altri, anonimo:
un giovanotto o quasi, che fa il manovale a Ponte Mammolo, chiuso nell'egoismo,
nella sordidezza di una morale che non è la sua». La purezza selvaggia
dell'infanzia si è persa: Pasolini, potremmo dire, declina in forme
erotico-mitiche la concezione pascoliana del fanciullino.
Ragazzi di vita, rispetto alle prove narrative precedenti dell'autore, segna un
recupero forte dello stile verghiano dell'indiretto libero e della "coralità"
che sostituisce la voce ciel narratore tradizionale (presente ancora nei
frammenti dell'Ur-Ragazzi di vita pubblicati da Siti e De Laude in appendice al
romanzo). La volontà di realismo pasoliniana è volontà di aderire, fisicamente
soprattutto, e linguisticamente, all'universo dei «regazzini» protagonisti,
filtrando ogni descrizione attraverso un espressivismo spesso deformante,
intriso del disperato vitalismo giovanile-primitivo, in una sintesi di allegria
e tragedia, con la morte che incombe sempre con il suo rampino e con il sole che
brucia impietoso e splendente la città. La struttura del romanzo ha una coesione
non tanto narrativa (è piuttosto un polittico), quanto stilistica e di
ambientazione; l'andamento è spesso picaresco-boccaccesco (si pensi
all'Andreuccio da Perugia, Ninetto Davoli nel film Decameròn del 1971), come
suggerisce lo stesso Pasolini ancora nella lettera a Garzanti.
Quando uscì, il romanzo ebbe più di una stroncatura, fra cui quella di Emilio
Cecchi e di Carlo Salinari, che rimproverò all'autore di coltivare un morboso
gusto per l'abietto e il torbido. Pasolini subì anche un processo per
pornografia; ne uscì assolto nel luglio del '56 con una difesa di Carlo Bo che
trovava il libro di grande valore religioso e assolutamente non osceno. Il
successo di pubblico fu assai ampio; a Parma Ragazzi di vita vinse il premio
Colombi-Guidotti: la giuria era presenziata da Giuseppe De Robertis.
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