Luigi
De Bellis

 


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Pier Paolo Pasolini



PASSIONE E IDEOLOGIA: Saggi


Il volume è dedicato a Alberto Moravia. Un progetto precedente, è testimoniato già nel 1957, con il titolo Dal Pascoli ai neo-sperimentali, che passerà nella seconda parte di Passione e ideologia.

Il titolo è illustrato dall'autore stesso in una «Nota» conclusiva, dove si chiarisce che la dittologia non vuole essere significativa di una «endiadi», né una «concomitanza», bensì di una «disgiunzione», una «graduazione cronologica»: «prima passione, ma poi ideologia». L'aspetto fortemente "autobiografico" dell'opera saggistica è poi indicato da Pasolini in un frammento introduttivo, dattiloscritto e non confluito nel volume, dove si legge: «Ho cercato di dare, con gli insicuri mezzi offerti da quell'educazione a me, ineducabile per definizione, una certa veste di normalità ai tentativi più puerili e gratuiti di conoscere degli stati, delle irresoluzioni, negli altri, che mi pareva di avere sperimentato». Tuttavia la prassi critica di Pasolini è tutt'altro che impressionistica: talora persino erudita, è comunque sempre metodologicamente consapevole e filologicamente attenta. Critica nutrita di stilistica spitzeriana, auerbachiana, di linguistica continiana, di marxismo e gramscismo, e sempre militante e volonterosa di incidere sul reale, spesso fino alla provocazione.

La prima parte, «Due studi panoramici», comprende una sezione intitolata La poesia dialettale del Novecento, ripresa appena variata dell'introduzione all'antologia Poesia dialettale del Novecento (1952), e una sezione intitolata La poesia popolare italiana, a sua volta derivante dall'introduzione al Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955). L'attraversamento dell'universo poetico in dialetto segue una direttiva geografica; si parte dall'Italia meridionale («Il reame»), con Di Giacomo, percorrendo poi la Sicilia, la Sardegna, la Calabria (ove «è possibile afferrare come un brivido nell'aria il sapore della preistoria»), le Puglie ecc.; quindi «Roma e Milano», verificando «il distacco dal popolo "belliano"» da parte prima di un Pascarella e poi di un Trilussa, e a sua volta l'allontanarsi di Delio Tessa dalla tradizione del Porta, «per il suo gusto assolutamente moderno del narrare»; «Le regioni del Nord», poi, brulicano di figure dal Piemonte, dalla Liguria (soprattutto Edoardo Firpo), dall'Emilia, dalla Romagna, dal Veneto ecc., passando per la Trieste di Giotti e la Grado di Marin, non senza un excursus sull'assenza di una vivace poesia dialettale antifascista che usasse «le "violenze" di un Belli contro la Roma pontificia o di un Porta contro la Milano nobiliare e clericale». L'ultimo capitolo, «Il Friuli», è dedicato alla regione e al dialetto dell'autore, alla parlata «incorporata dalla sua arcaicità ai dati naturali, quasi che fosse una cosa sola con l'odore del fumo dei focolari, dei venchi umidi intorno alle rogge, dei ronchi scottati dal sole» (con l'innalzarsi del livello retorico-stilistico nel linguaggio saggistico che si fa lirico, con la presenza di lessemi cari al Pasolini friulano in prosa e in versi, come venchi, rogge ecc.). La sezione sulla poesia popolare si apre con un capitolo di discussione sulla letteratura critica («Un secolo di studi sulla poesia popolare»), con protagonisti quali Tommaseo, D'Ancona, Nigra, Croce, Gramsci. Il capitolo successivo entra nel cuore della definizione d'ambito, e si intitola appunto «Il problema» : Pasolini definisce la poesia popolare il prodotto del rapporto tra la classe dominante e quella dominata, tra la cultura moderna ed elevata del ceto dirigente e quella arcaica "folclorica" del popolo. «I dati discesi dalla cultura superiore sono "adattati" dalla coeva e ritardataria cultura inferiore alla preesistente poesia folclorica», per «iniziativa di un individuo o di un gruppo di individui della classe inferiore»: nessun misticismo del primitivo, dunque, in questo iperlucido e analitico Pisolini. Che prosegue con una grande carrellata geografica, partendo questa volta dall' «Italia settentrionale», attraversando l'«Italia centrale» e l'«Italia meridionale», affrontando di passaggio problemi quali il particolare "realismo" della poesia popolare, la nozione obbligata di "semi-popolarità" per i canti toscani, la natura "collettiva" dell'individuo-poeta popolare, la falsa pretesa di una "semplicità psicologica" da parte del popolano, e soffermandosi talora su testi di particolare rilievo quali la Baronessa di Carini siciliana e Fenesta ch'a lucive partenopea che ispirano al saggista pagine di notevole bellezza, come d'altronde ancora quelle sul mondo friulano, che «appare intorno velato da una tristezza profonda, con le sue grigie case di sassi aggruppate sopra un desolato monticello, o tra i vuoti magredi, o tra i verdi gelseti delle risorgive». L'ultimo capitolo, «Poesia folclorica e canti militari», si occupa dei «documenti della zona più "bassa" della poesia popolare», non nascondendo persino «il senso di ripugnanza e di angoscia che può dare un passato definitivamente superato, esaurito, una condizione così remota dall'uomo da non parere più umana». La conclusione è sull'oggi (metà anni Cinquanta), in cui «la tendenza del canto popolare nella nazione è a scomparire», per il «mutato "rapporto", sociale-letterario, tra le due classi», per elementi di novità quali «la forte diminuzione dell'analfabetismo, la stampa, il cinema la radio» e soprattutto per «la recente formazione di una lingua italiana, che non è più il semplice italiano letterario per élites, ma una diffusissima koinè: una seconda "lingua parlata" dopo il dialetto».

La seconda parte del volume, «Dal Pascoli ai neo-sperimentali», parte appunto dal saggio del 1955 su Giovanni Pascoli, con cui si inaugurava la rivista «Officina», come «pretesto ottimo per dare uno sguardo panoramico su tutto il Novecento» (da una lettera a Leonetti e Roversi). Segue La lingua della poesia (già apparso nel '57), su Virgilio Giotti, il quale «per primo, nel Novecento, attua questa aspirazione tipicamente pascoliana - ma tuttavia interna a tutta la produzione poetica nazionale - al dialetto: non dunque come a una lingua ancillare, ma come una lingua allo stesso livello, ormai, dell'italiano» (nozione, questa della derivazione novecentesca Pascoli-poesia dialettale, su cui Mengaldo ha ben insistito). Il saggio seguente su Montale è del '56, una recensione a La bufera e altro; quindi si leggono Un poeta in genovese, del '57, su Edoardo Firpo, Un poeta in abruzzese, del '52, su Vittorio Clemente e Un poeta in molisano, del '57, su Eugenio Cirese. Vengono poi due saggi centrali su Carlo Emilio Gadda, una recensione alle Novelle del Ducato in fiamme del '53 e uno scritto sul Pasticciaccio del '58. Dietro Gadda, Pasolini, continianamente, vede «l'intero paesaggio storico della prosa italiana»; nella sua scrittura rileva il particolare «barocco realistico» ed «espressionismo», ma soprattutto la registrazione di un mondo irrazionale e straziato, dove il furor antigrazioso è nell'oggetto e nel soggetto; meglio, la «drammaticità» di Gadda narratore è tutta in questo «urto violentissimo tra una realtà oggettiva e una realtà soggettiva incompatibili ideologicamente e stilisticamente tra loro». Su Gadda torna Pasolini, di passaggio, nell'intervento Osservazioni sull'evoluzione del Novecento (del '54, in risposta a un articolo di Mario Luzi dal titolo Dubbi sul realismo poetico), con un'indicazione assai pertinente: dietro il neorealismo non c'è «un'idea di realtà», come era ad esempio in Verga; autentico realista nel Novecento è piuttosto Gadda, «per via di quei suoi brani lancinanti di "realtà" immediatissima, e le stupende elucubrazioni del suo macchinario linguistico», cioè, potremmo chiosare, per quel suo innato tendere all'evidentia in senso retorico, e contemporaneamente alla deformazione ineludibile, nevrotica sì, ma ideologicamente così pregnante. Procedendo nella lettura di Passione e ideologia, si incontra un lungo saggio, apparso già nel '56, dal titolo La confusione degli stele; che è una sintesi della situazione letteraria italiana, approdante a una serie di contraddizioni. Segue una ampia sezione, «Sui testi», articolata in saggi (per lo più recensioni) dedicati a Carducci (Noterella sul Carducci, mai apparso precedentemente in rivista), Ungaretti (Un poeta e Dio, del '57), Clemente Rebora (I «Canti dell'infermità» di Rebora, del '56), Sbarbaro (del '57), Saba (Saba: per i suoi settant'anni, del '53), Angelo Barile (Un poeta cattolico, del '57), Penna (Una strana gioia di vivere, del '56, e Come leggere Penna, del '58), Atilio Bertolucci (del '55), altri lirici di Parma, fra cui il futuro regista Bernardo Bertolucci, figlio di Attilio (Officina parmigiana, del '56), Bassani poeta (del '52), Caproni (del '52), i poeti dell'antologia di Luciano Anceschi Linea lombarda (Implicazioni di una «linea lombarda», del '53), Paolo Volponi poeta (del '55), Francesco Leonetti (Un poeta bolognese, del '53), Sergio Solmi (Solmi: evasione e impegno, del '57), Luzi (Le poesie di Luzi in laboratorio, del '58), Alessandro Parronchi (Parronchi e la «via dell'umano», del '57), Franco Matacotta (Fine dell'«engagement», del '57), Zanzotto (Principio, di un «engagement», del '57), Fortini (I destini generali, '57 ).

Di più di un poeta ritenuto detentore di una "grazia" o di un'armonia "classiche" (come Carducci, Saba, Penna o persino Bertolucci) Pasolini incrina la figura, portando alla luce la nevrosi, l'inquietudine, soprattutto il dolore o la disperazione. È senz'altro il caso dell'amico Sandro Penna, cui sono dedicati saggi particolarmente intensi. L'aggetto dei versi penniani che dicono di «una strana / gioia di vivere anche nel dolore» fornisce a Pasolini l'occasione per enucleare il motivo di fondo, la compresenza degli opposti, di un'angoscia e di un'euforia inseparabili, di un dolore sgomento e di una ebbrezza di vita e benedizione: «secondo una logica esistenziale, per cui il rapporto non è dialettico ma puramente contraddittorio, Penna passa dalla percezione del male alla gratitudine per il male stesso». Pasolini coglie poi lo «strutturale processo eufemistico» che nella poesia di Penna «corregge il realismo», poetizza gli «atti impuri», elevandoli alla dimensione di un canto solo apparentemente distaccato e leggiadramente "greco".

La raccolta si conclude con due saggi rilevanti, Il neo-sperimentalismo (del '56) e La libertà stilistica (del '57). Il primo individua una categoria analitica per descrivere il paesaggio letterario contemporaneo, in cui rientrano "giovani" quali Pagliarani, Leonetti, Giuliani ecc.; il secondo, che sulla rivista «Officina» compariva come introduzione a una silloge di poeti "neosperimentali" (Arbasino, Pagliarani, Sanguineti ecc.), colloca il periodo della "libertà stilistica", della concentrazione sull'interiorità apparentemente inebriante, in realtà imprigionante, negli anni del fascismo: «l'involuzione antidemocratica fascista era effetto della stessa decadenza dell'ideologia borghese, liberale e romantica, che aveva portato all'involuzione letteraria di una ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria coscienza estetica». Pasolini dichiara di aver rinunciato a quella falsa libertà («ci abbiamo rinunciato», afferma, proponendosi corifeo di un'intera generazione); la rinuncia ha comportato, sul piano ideologico-stilistico una conseguenza fondamentale: «la lingua che era stata portata tutta al livello della poesia, tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico». Risulta quantomai evidente, in sostanza, la natura autobiografico-poetica del fare saggistico pasoliniano, avvicinabile all'habitus del suo maestro più antico e autorevole, Dante, particolarmente quello del De vulgari eloquentia e del canto XXIV del Purgatorio, il Dante cioè che razionalizza la propria esperienza poetica, traducendola in dato storiografico letterario.

 

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