Il volume è dedicato a Alberto Moravia. Un progetto precedente, è testimoniato
già nel 1957, con il titolo Dal Pascoli ai neo-sperimentali, che passerà nella
seconda parte di Passione e ideologia.
Il titolo è illustrato dall'autore stesso in una «Nota» conclusiva, dove si
chiarisce che la dittologia non vuole essere significativa di una «endiadi», né
una «concomitanza», bensì di una «disgiunzione», una «graduazione cronologica»:
«prima passione, ma poi ideologia». L'aspetto fortemente "autobiografico"
dell'opera saggistica è poi indicato da Pasolini in un frammento introduttivo,
dattiloscritto e non confluito nel volume, dove si legge: «Ho cercato di dare,
con gli insicuri mezzi offerti da quell'educazione a me, ineducabile per
definizione, una certa veste di normalità ai tentativi più puerili e gratuiti di
conoscere degli stati, delle irresoluzioni, negli altri, che mi pareva di avere
sperimentato». Tuttavia la prassi critica di Pasolini è tutt'altro che
impressionistica: talora persino erudita, è comunque sempre metodologicamente
consapevole e filologicamente attenta. Critica nutrita di stilistica spitzeriana,
auerbachiana, di linguistica continiana, di marxismo e gramscismo, e sempre
militante e volonterosa di incidere sul reale, spesso fino alla provocazione.
La prima parte, «Due studi panoramici», comprende una sezione intitolata La
poesia dialettale del Novecento, ripresa appena variata dell'introduzione
all'antologia Poesia dialettale del Novecento (1952), e una sezione intitolata
La poesia popolare italiana, a sua volta derivante dall'introduzione al
Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare (1955). L'attraversamento
dell'universo poetico in dialetto segue una direttiva geografica; si parte
dall'Italia meridionale («Il reame»), con Di Giacomo, percorrendo poi la
Sicilia, la Sardegna, la Calabria (ove «è possibile afferrare come un brivido
nell'aria il sapore della preistoria»), le Puglie ecc.; quindi «Roma e Milano»,
verificando «il distacco dal popolo "belliano"» da parte prima di un Pascarella
e poi di un Trilussa, e a sua volta l'allontanarsi di Delio Tessa dalla
tradizione del Porta, «per il suo gusto assolutamente moderno del narrare»; «Le
regioni del Nord», poi, brulicano di figure dal Piemonte, dalla Liguria
(soprattutto Edoardo Firpo), dall'Emilia, dalla Romagna, dal Veneto ecc.,
passando per la Trieste di Giotti e la Grado di Marin, non senza un excursus
sull'assenza di una vivace poesia dialettale antifascista che usasse «le
"violenze" di un Belli contro la Roma pontificia o di un Porta contro la Milano
nobiliare e clericale». L'ultimo capitolo, «Il Friuli», è dedicato alla regione
e al dialetto dell'autore, alla parlata «incorporata dalla sua arcaicità ai dati
naturali, quasi che fosse una cosa sola con l'odore del fumo dei focolari, dei
venchi umidi intorno alle rogge, dei ronchi scottati dal sole» (con l'innalzarsi
del livello retorico-stilistico nel linguaggio saggistico che si fa lirico, con
la presenza di lessemi cari al Pasolini friulano in prosa e in versi, come
venchi, rogge ecc.). La sezione sulla poesia popolare si apre con un capitolo di
discussione sulla letteratura critica («Un secolo di studi sulla poesia
popolare»), con protagonisti quali Tommaseo, D'Ancona, Nigra, Croce, Gramsci. Il
capitolo successivo entra nel cuore della definizione d'ambito, e si intitola
appunto «Il problema» : Pasolini definisce la poesia popolare il prodotto del
rapporto tra la classe dominante e quella dominata, tra la cultura moderna ed
elevata del ceto dirigente e quella arcaica "folclorica" del popolo. «I dati
discesi dalla cultura superiore sono "adattati" dalla coeva e ritardataria
cultura inferiore alla preesistente poesia folclorica», per «iniziativa di un
individuo o di un gruppo di individui della classe inferiore»: nessun misticismo
del primitivo, dunque, in questo iperlucido e analitico Pisolini. Che prosegue
con una grande carrellata geografica, partendo questa volta dall' «Italia
settentrionale», attraversando l'«Italia centrale» e l'«Italia meridionale»,
affrontando di passaggio problemi quali il particolare "realismo" della poesia
popolare, la nozione obbligata di "semi-popolarità" per i canti toscani, la
natura "collettiva" dell'individuo-poeta popolare, la falsa pretesa di una
"semplicità psicologica" da parte del popolano, e soffermandosi talora su testi
di particolare rilievo quali la Baronessa di Carini siciliana e Fenesta ch'a
lucive partenopea che ispirano al saggista pagine di notevole bellezza, come
d'altronde ancora quelle sul mondo friulano, che «appare intorno velato da una
tristezza profonda, con le sue grigie case di sassi aggruppate sopra un desolato
monticello, o tra i vuoti magredi, o tra i verdi gelseti delle risorgive».
L'ultimo capitolo, «Poesia folclorica e canti militari», si occupa dei
«documenti della zona più "bassa" della poesia popolare», non nascondendo
persino «il senso di ripugnanza e di angoscia che può dare un passato
definitivamente superato, esaurito, una condizione così remota dall'uomo da non
parere più umana». La conclusione è sull'oggi (metà anni Cinquanta), in cui «la
tendenza del canto popolare nella nazione è a scomparire», per il «mutato
"rapporto", sociale-letterario, tra le due classi», per elementi di novità quali
«la forte diminuzione dell'analfabetismo, la stampa, il cinema la radio» e
soprattutto per «la recente formazione di una lingua italiana, che non è più il
semplice italiano letterario per élites, ma una diffusissima koinè: una seconda
"lingua parlata" dopo il dialetto».
La seconda parte del volume, «Dal Pascoli ai neo-sperimentali», parte appunto
dal saggio del 1955 su Giovanni Pascoli, con cui si inaugurava la rivista
«Officina», come «pretesto ottimo per dare uno sguardo panoramico su tutto il
Novecento» (da una lettera a Leonetti e Roversi). Segue La lingua della poesia
(già apparso nel '57), su Virgilio Giotti, il quale «per primo, nel Novecento,
attua questa aspirazione tipicamente pascoliana - ma tuttavia interna a tutta la
produzione poetica nazionale - al dialetto: non dunque come a una lingua
ancillare, ma come una lingua allo stesso livello, ormai, dell'italiano»
(nozione, questa della derivazione novecentesca Pascoli-poesia dialettale, su
cui Mengaldo ha ben insistito). Il saggio seguente su Montale è del '56, una
recensione a La bufera e altro; quindi si leggono Un poeta in genovese, del '57,
su Edoardo Firpo, Un poeta in abruzzese, del '52, su Vittorio Clemente e Un
poeta in molisano, del '57, su Eugenio Cirese. Vengono poi due saggi centrali su
Carlo Emilio Gadda, una recensione alle Novelle del Ducato in fiamme del '53 e
uno scritto sul Pasticciaccio del '58. Dietro Gadda, Pasolini, continianamente,
vede «l'intero paesaggio storico della prosa italiana»; nella sua scrittura
rileva il particolare «barocco realistico» ed «espressionismo», ma soprattutto
la registrazione di un mondo irrazionale e straziato, dove il furor antigrazioso
è nell'oggetto e nel soggetto; meglio, la «drammaticità» di Gadda narratore è
tutta in questo «urto violentissimo tra una realtà oggettiva e una realtà
soggettiva incompatibili ideologicamente e stilisticamente tra loro». Su Gadda
torna Pasolini, di passaggio, nell'intervento Osservazioni sull'evoluzione del
Novecento (del '54, in risposta a un articolo di Mario Luzi dal titolo Dubbi sul
realismo poetico), con un'indicazione assai pertinente: dietro il neorealismo
non c'è «un'idea di realtà», come era ad esempio in Verga; autentico realista
nel Novecento è piuttosto Gadda, «per via di quei suoi brani lancinanti di
"realtà" immediatissima, e le stupende elucubrazioni del suo macchinario
linguistico», cioè, potremmo chiosare, per quel suo innato tendere all'evidentia
in senso retorico, e contemporaneamente alla deformazione ineludibile, nevrotica
sì, ma ideologicamente così pregnante. Procedendo nella lettura di Passione e
ideologia, si incontra un lungo saggio, apparso già nel '56, dal titolo La
confusione degli stele; che è una sintesi della situazione letteraria italiana,
approdante a una serie di contraddizioni. Segue una ampia sezione, «Sui testi»,
articolata in saggi (per lo più recensioni) dedicati a Carducci (Noterella sul
Carducci, mai apparso precedentemente in rivista), Ungaretti (Un poeta e Dio,
del '57), Clemente Rebora (I «Canti dell'infermità» di Rebora, del '56),
Sbarbaro (del '57), Saba (Saba: per i suoi settant'anni, del '53), Angelo Barile
(Un poeta cattolico, del '57), Penna (Una strana gioia di vivere, del '56, e
Come leggere Penna, del '58), Atilio Bertolucci (del '55), altri lirici di
Parma, fra cui il futuro regista Bernardo Bertolucci, figlio di Attilio
(Officina parmigiana, del '56), Bassani poeta (del '52), Caproni (del '52), i
poeti dell'antologia di Luciano Anceschi Linea lombarda (Implicazioni di una
«linea lombarda», del '53), Paolo Volponi poeta (del '55), Francesco Leonetti
(Un poeta bolognese, del '53), Sergio Solmi (Solmi: evasione e impegno, del
'57), Luzi (Le poesie di Luzi in laboratorio, del '58), Alessandro Parronchi (Parronchi
e la «via dell'umano», del '57), Franco Matacotta (Fine dell'«engagement», del
'57), Zanzotto (Principio, di un «engagement», del '57), Fortini (I destini
generali, '57 ).
Di più di un poeta ritenuto detentore di una "grazia" o di un'armonia
"classiche" (come Carducci, Saba, Penna o persino Bertolucci) Pasolini incrina
la figura, portando alla luce la nevrosi, l'inquietudine, soprattutto il dolore
o la disperazione. È senz'altro il caso dell'amico Sandro Penna, cui sono
dedicati saggi particolarmente intensi. L'aggetto dei versi penniani che dicono
di «una strana / gioia di vivere anche nel dolore» fornisce a Pasolini
l'occasione per enucleare il motivo di fondo, la compresenza degli opposti, di
un'angoscia e di un'euforia inseparabili, di un dolore sgomento e di una
ebbrezza di vita e benedizione: «secondo una logica esistenziale, per cui il
rapporto non è dialettico ma puramente contraddittorio, Penna passa dalla
percezione del male alla gratitudine per il male stesso». Pasolini coglie poi lo
«strutturale processo eufemistico» che nella poesia di Penna «corregge il
realismo», poetizza gli «atti impuri», elevandoli alla dimensione di un canto
solo apparentemente distaccato e leggiadramente "greco".
La raccolta si conclude con due saggi rilevanti, Il neo-sperimentalismo (del
'56) e La libertà stilistica (del '57). Il primo individua una categoria
analitica per descrivere il paesaggio letterario contemporaneo, in cui rientrano
"giovani" quali Pagliarani, Leonetti, Giuliani ecc.; il secondo, che sulla
rivista «Officina» compariva come introduzione a una silloge di poeti
"neosperimentali" (Arbasino, Pagliarani, Sanguineti ecc.), colloca il periodo
della "libertà stilistica", della concentrazione sull'interiorità apparentemente
inebriante, in realtà imprigionante, negli anni del fascismo: «l'involuzione
antidemocratica fascista era effetto della stessa decadenza dell'ideologia
borghese, liberale e romantica, che aveva portato all'involuzione letteraria di
una ricerca stilistica a sé, di un formalismo riempito solo della propria
coscienza estetica». Pasolini dichiara di aver rinunciato a quella falsa libertà
(«ci abbiamo rinunciato», afferma, proponendosi corifeo di un'intera
generazione); la rinuncia ha comportato, sul piano ideologico-stilistico una
conseguenza fondamentale: «la lingua che era stata portata tutta al livello
della poesia, tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del
razionale, del logico, dello storico». Risulta quantomai evidente, in sostanza,
la natura autobiografico-poetica del fare saggistico pasoliniano, avvicinabile
all'habitus del suo maestro più antico e autorevole, Dante, particolarmente
quello del De vulgari eloquentia e del canto XXIV del Purgatorio, il Dante cioè
che razionalizza la propria esperienza poetica, traducendola in dato
storiografico letterario.
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