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L'Illuminismo non fu un fenomeno regionale, ma un complesso movimento filosofico e spirituale europeo che ad un'atmosfera comune affianca interessi e de siti diversi e spesso contrastanti. Venne chiamato Aufklärung in Germania, Philosophie des lumières in Francia, Enlightenment nel mondo anglosassone e Illustración in Spagna.
Pur nella varietà delle soluzioni, l'Illuminismo si propone di fugare coi lumi della ragione le tenebre dell'ignoranza, della superstizione e del pregiudizio, stabilendo come acquisizione definitiva del pensiero occidentale l'affermazione della capacità della ragione di ordinare il mondo con le sue sole forze, unitamente alla presa di coscienza non pessimistica del limiti intrinseci dell'uomo. Punti essenziali furono:
1. Il razionalismo progressista, per cui la cultura non è più difesa della tradizione ma ricerca permanente di un progresso che serva a liberare l'uomo dai limiti dell'ignoranza grazie all'aiuto della regione illuminante;
2. Il cosmopolitismo, per cui il bisogno di libertà diventa universale e rende l'uomo cittadino del mondo, ovvero soggetto alle medesime istanze di giustizia e di libertà in ogni luogo, senza distinzione di razza, sesso, religione e classe sociale. Il nuovo protagonista della storia è quindi il borghese, né nobile né ecclesiastico, semplice cittadino del mondo: commerciante, artigiano, ma anche letterato e uomo di Stato;
3. La divulgazione del sapere, ovvero il bisogno di rendere noti a tutti i progressi delle scienze e della cultura, per cui il sapere non è riservato come privilegio ad un'elitè chiusa ma è strumento di miglioramento per tutti gli uomini (si ricordi il monumentale progetto dell'Encyclopédie e la conseguente attenzione per le arti e per i mestieri produttivi che porterà progressivamente allo sviluppo dell'industria moderna);
4. L'antistoricismo. L'avversione per le religioni e in particolare per la religione cattolica, portò gli illuministi a revisionare la storia e a considerare il medioevo come periodo oscuro, epoca di soprusi e di ingiustizie, in cui la ragione era rimasta ottenebrata e l'uomo privato del bene supremo della libertà di pensiero. Questa critica portò gli storici illuministi a contrapporre la realtà dei fatti a ciò che sarebbe dovuto essere secondo ragione, escludendo così l'analisi delle cause interne e delle necessità di azione proprie dei diversi periodi storici;
5. Il Deismo, ovvero la teorizzazione di una religiosità raggiungibile mediante l'esclusivo uso della ragione e della coscienza morale, escludendo così l'adesione a qualsiasi tradizione religiosa;
6. Il materialismo, nella misura in cui si impone il bisogno di indagare e giustificare la realtà nei termini del solo approccio al mondo materiale: nella lotta contro ogni forma di religione e superstizione alcuni andarono oltre il deismo e predicarono un atteggiamento esclusivamente meccanicistico. La materia e suoi movimenti dovevano quindi bastare a spiegare ogni aspetto dell'esistenza, comprese le attività spirituali (cfr. Hobbes). Il materialismo risente pesantemente dell'entusiasmo attorno alle attività della fisica di Galileo e di Newton, in grado di estrapolare leggi universali dalle osservazioni sperimentali.
Sebbene siano diverse le direzioni in cui si è sviluppato - al punto che al suo interno possono trovare la loro collocazione il deismo, l'ateismo, il razionalismo, il materialismo, lo scetticismo, ... - l'Illuminismo si afferma quindi come una delle categorie fondamentali della moderna visione del mondo, caratterizzata da un comune clima di pensiero teso a rivalutare la natura e a celebrare la ragione quali sorgenti incondizionate di tutti i valori.
Ad esempio nella Francia sel '700 assume caratteri marcatamente rivoluzionari, assenti nell'Illuminismo inglese. Per gli illuministi francesi la critica della tradizione diviene radicale antistoricismo, l'empirismo diviene sensismo, l'utilitarismo degenera in edonismo egoistico, il deismo diviene agnosticismo di fatto e materialismo e ateismo.
La definizione di Immanuel Kant (1784)
Nel 1784 il mensile berlinese “Berlinische Monatsschrift” pone agli intellettuali tedeschi una domanda: “Che cosa è l'illuminismo?” (Was ist Aufklärung?). Lo scopo dichiarato è quello di “illuminare noi e i nostri concittadini. Il rischiaramento di una città grande come Berlino presenterà ostacoli; se però essi sono rimossi, la luce si propagherà non soltanto in provincia, ma anche nell'intero paese. E quanto felici noi saremmo se anche soltanto alcune scintille qui prodotte diffondessero con il tempo una luce sull'intera Germania nostra patria comune!”.
Nel dicembre 1784 Immanuel Kant pubblicò sulla stessa rivista la celebre “Risposta alla domanda: Che cosa è l'illuminismo?”.
Illuminismo è la liberazione dell'uomo dallo stato volontario di minorità intellettuale. Dico minorità intellettuale, l'incapacità di servirsi dell'intelletto senza la guida d'un altro. Volontaria è questa minorità quando la causa non sta nella mancanza d'intelletto, ma nella mancanza di decisione e di coraggio nel farne uso senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! Questo è il motto dell'illuminismo.
Il tribunale supremo della ragione non riconosce oltre alcuna autorità: tutto è sottoposto al suo giudizio secondo il compito assegnato da Kant alla Critica della ragion pura (1781 e 17872). La ragion pura, infatti
non s'immischia nelle controversie che si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per giudicare i diritti della ragione in generale.
Il tratto più singolare e comune all'epoca dei Lumi in tutti i campi fondamentali del sapere (la conoscenza della natura, la religione, la gnoseologia, la psicologia, la storia, il diritto, l'estetica) resta comunque il seguente: il guadagno di una nozione di ragione, creduta unica e immutabile, che nel proprio espandersi cognitivo in tutte le diramazioni dell'esistente non si disperde, ma ritrova sempre se stessa con maggiore consapevolezza e più intensa coscienza di sé, delle proprie forze attive e delle proprie potenziali capacità intellettive, protese al dominio del tutto. Di questo tutto essa pretende (e ritiene di) poter scoprire la forma che lo pervade e governa, offrendone una sua determinazione matematica attraverso il numero e la misura.
Si rinuncia così alla ricerca dell'essenza, della cause prime e al metodo deduttivo in generale.
L'origine del fenomeno
L'Illuminismo non fa che portare a compimento il percorso dell'emancipazione della ragione che già era cominciato con Cartesio; anzi, a ragione rappresenta il culmine proprio del soggettivismo cartesiano. In realtà, a preparare e a favorire il sorgere della riflessione cartesiana vanno indicati numerosi fattori.
Già a partire da san Tommaso, il quale distingue ragione e fede, e nel solco della linea teologica che da Sigieri di Bramante, passando per Duns Scoto, giunge a Guglielmo da Ockham, si assiste sempre di più all'accentuazione dell'autonomia della ragione rispetto alla fede. Non bisogna poi dimenticare la “rivoluzione” rinascimentale con il suo profondo antropocentrismo, corroborato dalle nuove scoperte geografiche: si assiste all'affermarsi di una nuova forma di “spiritualità-mentalità”, che introduce un'insuperabile instabilità nella visione teocentrica del mondo medioevale.
Le prime ricerche di tipo scientifico, inoltre, specie a partire da F. Bacone (1561-1626), avviano quel processo di “disincanto del mondo”, coerente all'instaurazione di un nuovo quadro della società dove non è più il sapiente a doversi giustificare davanti al teologo, ma viceversa. In questo contesto occorre menzionare la forza dirompente esercitata dalla Riforma protestante e dalle guerre di religione: soprattutto quest'ultime imposero l'esigenza di cercare un nuovo centro di unificazione tra gli uomini, non essendo più essa garantita dalla religione, e proprio nella ragione si troverà l'istanza universale a cui riferirsi per l'organizzazione del sapere e del vivere quotidiano.
Già nel Seicento la ricerca filosofica era finalizzata alla riduzione del reale a elementi semplici (si pensi alla seconda regola del metodo cartesiano), determinati e controllati dalla ragione. Una tale esigenza trovava la sua espressione principalmente nel meccanicismo, ossia nella fiduciosa applicazione alla realtà degli schemi interpretativi della ragione umana allo scopo di cogliere le intime strutture del reale stesso. Ebbene, nel Settecento questo atteggiamento, pur perdurando, entra in crisi, poiché si apre una sfasatura tra la ricerca scientifica e l'indagine ontologica.
Gli illuministi rimproveravano infatti ai filosofi del Seicento di interpretato la ragione esclusivamente in chiave ontologico-metafisica: per Descartes, Spinoza, Leibniz e Malebranche, prima ancora che una facoltà conoscitiva, la ragione era fondamentalmente "sostanza" tanto umana quanto divina; anzi era il sigillo divino dell'umano. La comprensione razionale del reale in chiave ontologica viene ora rovesciata nel razionalismo gnoseologico del Settecento: allo studio dell'essenza si sostituisce la ricerca della legge scientifica.
Se Descartes appare eccessivamente dogmatico, campione del nuovo corso della ricerca filosofica diviene Newton (1642-1727). I giovani filosofi illuministi rinvengono nel metodo sperimentale della nuova fisica un dirompente elemento di fecondità scientifica, a tal punto che lo elevano al rango di criterio razionale e universale d'indagine da applicare ad ogni campo del sapere.
L'esclusione della metafisica e della religione
Primo ambito sul quale esercitare la critica razionale della ragione è la metafisica. Proprio Kant, nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (1787), si chiede
Ma siccome in tutti i precedenti tentativi di soluzione di tali questioni naturali - per esempio, se il mondo abbia un inizio o esista dall'eternità, e così via - hanno sempre incontrato inevitabili contraddizioni, non ci si può accontentare della semplice disposizione naturale per la metafisica, cioè della stessa pura facoltà razionale, dalla quale appunto nasce sempre una metafisica, quale che si voglia. Deve essere invece possibile pervenire alla certezza intorno ad essa, o nella conoscenza o nella non conoscenza dei suoi oggetti, ossia o nella decisione sugli oggetti delle sue domande o nella decisione sulla capacità della ragione di stabilire qualcosa intorno a questi oggetti; si tratta, dunque, o di ampliare con sicurezza la nostra ragion pura o di porle limiti determinati e sicuri. Quest'ultima questione, che scaturisce dal precedente problema generale, troverebbe una giusta formulazione nella domanda: Come è possibile la metafisica come scienza?
Per capire il procedimento di Kant, è necessario fermarsi, però, sulla sua concezione della conoscenza. Secondo Kant, la conoscenza non è una sorta di passiva registrazione di dati, ma piuttosto un’attiva imposizione di leggi: il soggetto kantiano è ordinatore e legislatore della natura, nel senso che egli la conosce inquadrandola entro le strutture della propria ragione. Tali strutture garantiscono l’universalità e la validità della conoscenza, perché non dipendono dai contenuti empirici di essa: sono, per usare la celebre terminologia kantiana, a priori, ovvero precedono ogni esperienza e risultano universali e necessarie. In questo modo, Kant pensa di aver garantito l’esistenza di un sapere valido: in particolare egli si dimostra un convinto estimatore della conoscenza scientifica, alla quale è certo di aver conferito un’indubitabile legittimità e un sicuro valore.
Bisogna tuttavia ricordare che Kant definisce “fenomenico” questo genere di conoscenza: egli pensa infatti che l’uomo non sia in grado con le sue capacità conoscitive di cogliere la realtà così come essa è, ma soltanto come gli appare, conosciuta cioè attraverso le forme pure a priori, che sono, come si è detto, quelle strutture della mente attraverso le quali egli organizza le informazioni che gli provengono dai sensi. Conoscenza fenomenica significa, pertanto, conoscenza di ciò che appare (la parola fenomeno deriva dal verbo greco phainomai, che vuol dire “apparisco”, “mi mostro”), e la scienza kantianamente intesa, la cui validità resta comunque assicurata, si presenta come scienza di fenomeni: all’uomo non è dato di conoscere il noumeno (anche in questo caso il termine si collega al greco noein, che significa “percepire con la mente”), ovvero la “cosa in sé”. Con ciò Kant fa un’affermazione di estrema importanza e offre una prima chiara risposta alla questione che è al cuore della Critica della ragion pura, ovvero quella che riguarda le possibilità e i limiti della ragione: all’uomo è dato di conoscere in modo valido e oggettivo, ma decisamente limitato; falsa e vana è la pretesa di voler conoscere la realtà prescindendo dal punto di vista del soggetto conoscente: la conoscenza della realtà in sé, del noumeno, risulta dunque preclusa. Facendo uso della razionalità scientifica, l’uomo è impossibilitato ad andare oltre la dimensione fenomenica degli oggetti: su questo Kant si dimostra inflessibile e condanna come illusori tutti i tentativi di superare questo limite strutturale della ragione umana. Un’intera sezione della Critica della ragion pura, intitolata Dialettica trascendentale, è dedicata proprio a confutare e a demolire la pretesa di operare tale superamento, pretesa che secondo Kant è tipica della metafisica razionale, ovvero di quel sapere che, abbandonando il terreno solido e certo dei fenomeni, vorrebbe offrire all’uomo la conoscenza di ciò che sta oltre l’esperienza, cioè della “cosa in sé”, che, per questa via, non è attingibile.
Ci sono tre idee che rappresentano bene il desiderio di andare oltre la conoscenza fenomenica, tre idee che, lungo i secoli, hanno costituito l’oggetto privilegiato della metafisica: si tratta delle idee di anima, di mondo e di Dio, alle quali, secondo Kant, corrispondono tre pseudosaperi: la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale. Kant ne dimostra l’inconsistenza, pur ammettendo che si tratta di idee molto radicate nell’animo degli uomini.
In definitiva, la critica kantiana della ragione accetta in modo acritico i presupposti fondamentali del razionalismo e dell'empirismo: ovvero che la verità debba essere trasparente al pensiero, cioè trovare in esso il suo fondamento ultimo; e che non vi sia conoscenza valida al di là dell'esperienza sensibile. Allo scopo di garantire la certezza del sapere, il filosofo di Königsberg ne riduce la portata, rinchiudendo la verità nell'ambito della conoscenza fenomenica. Non stupisce pertanto che ne sia rimasta fuori qualsiasi pretesa esperienza del vero a livello metafisico o religioso.
Dal punto di vista etico, la stessa verità del bene diventa inattingibile. L'idea del bene in sé è rimandata fuori dalla presa dell'uomo. Il solo punto di riferimento per ciascuno è ormai ciò che egli può da solo concepire come bene. Di conseguenza la libertà non è più vista positivamente come una tensione verso il bene, quale lo scopre la ragione aiutata dalla comunità e dalla tradizione, ma si definisce piuttosto come un'emancipazione da tutti i condizionamenti che impediscono a ciascuno di seguire la sua propria ragione. Per tutto il tempo in cui resterà vivo, almeno in forma implicita, il riferimento ai valori tradizionali (che erano quelli cristiani) per orientare la ragione individuale verso il bene comune, la libertà limiterà se stessa in funzione di un ordine sociale, di una libertà da assicurare a tutti. Era sull'idea di un diritto antecedente alle volontà individuali, e che da esse dev'essere rispettato, che si fondavano le teorie del contratto sociale. Ma anche qui, quando andrà perduto il riferimento comune ai valori e finalmente a Dio, la società non apparirà più che un insieme di individui giustapposti, e il contratto che li lega sarà necessariamente percepito come un accordo tra coloro che hanno il potere di imporre la loro volontà agli altri. Così, per una dialettica intrinseca alla modernità, dall'affermazione dei diritti della libertà, sganciati però da ogni riferimento oggettivo in una verità comune, si passa alla distruzione dei fondamenti stessi di tale libertà. Il "despota illuminato" dei teorici del contratto sociale è divenuto lo Stato tiranno, di fatto totalitario, che dispone della vita di tutti, in nome di una utilità pubblica che non è più in realtà che l'interesse di alcuni.
Questa razionalità per molti filosofi ha un ancoraggio in Dio, ma è il Dio dei deisti, di coloro che riconoscono un artefice del mondo, o - come recitano sia il preambolo della Dichiarazione d'indipendenza americana, sia la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino della Francia rivoluzionaria - il Dio della natura, l'Ente supremo. Un Dio che lascia libero l'uomo, di una libertà che riposa non sulle differenze indivisuali, ma sulla comune razionalità. Un Dio, infine, che con il Dio cristiano, rivelato storicamente duemila anni fa e presente nei Sacramenti della Chiesa, non ha più nulla a che vedere.
La distruzione della tradizione e del passato
L'uomo moderno non tollera nessuna norma al di sopra di sé. Quando Kant dirà che il principio della morale universale è la pura razionalità individuale avrà operato il recupero di tutta la vita morale nella pura intelligenza dell'individuo: la norma è oggettiva perché parte da me, io sono il legislatore del mondo universale in quanto ho una norma in me che coincide con la mia razionalità. Il pensiero è sentito come lo strumento attraverso il quale quest'uomo, finalmente maturo, nega i rapporti che lo costituiscono ed esce dallo «stato di minorità» emancipandosi dalla custodia di Dio, della famiglia e del contesto sociale.
Quest'uomo dovrà necessariamente impegnarsi in un'opera di distruzione del passato. Per la prima volta, nella storia della cultura universale, un movimento di pensiero ha guardato al passato con astio, con volontà di distruzione. Ha addirittura coniato l'espressione «moderno» per ribadire che il passato doveva essere distrutto. Ci si doveva liberare di un tipo umano diverso da sé e di ciò che esso aveva creato nella storia come cultura e valori. Il cristianesimo primitivo non si era comportato così nei confronti dell'antichità classica, che aveva invece rigorosamente accolto e conservato, rileggendola da un punto di vista più profondo. Non si era certo comportato così nell'età medioevale dove una generazione era succeduta all'altra sempre accogliendo e rivivendo criticamente la tradizione precedente.
L'abbazia di Cluny, centro della grande riforma interna della Chiesa, nonostante un tempo superasse l'antica San Pietro, ora è ridotta solo ad un terzo della navata e a neppure metà del transetto, non a causa di un incendio o di un bombardamento ma per un motivo molto più radicale e impressionante: con la proclamazione della Repubblica in Francia, nel 1792, l'abbazia di Cluny è stata dichiarata «cava pubblica di pietre», e ad essa per anni si è attinto per costruire case.
Questo fatto è il più sintomatico circa l'atteggiamento dell'uomo moderno nei confronti di ciò che lo precede. Come condizione della maturità l'uomo deve annientare il passato. Tale opera distruttiva inizia con la critica della istituzione ecclesiastica e della vita morale. Il primo punto tende a mettere in discussione la struttura sacramentale della Chiesa; il secondo a dividere la morale del popolo da un senso di appartenenza. Il libertinismo che domina tra il secolo XVII e il XVIII, pone in discussione i principi fondamentali della vita morale, sostituendoli con il gusto o il sentimento.