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LAVORO Un esercito di poveri popola le città USA. Lavoratori allo sbaraglio. Un viaggio nel selvaggio Texas. | SINDACATI. DOVE?
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Le restrizioni legislative e le pratiche antisindacali rappresentano un buon esempio delle tante contraddizioni che attraversano ancora gli Stati uniti d’America. Le leggi federali e dei singoli Stati garantiscono formalmente la libertà di associazione e di adesione a sindacati e la libertà di partecipare a contrattazioni collettive, ma di fatto gli abusi commessi dalle imprese sono frequenti e rimangono il più delle volte impuniti. L’azione era stata votata all’unanimità dagli iscritti al sindacato International association of machinists, Iam, per protestare contro i mancati aumenti salariali dopo sette anni. Incoraggiate dal governo, le imprese continuano a risolvere i conflitti nella totale arbitrarietà. È lunga la lista di quelle che sostituiscono e liquidano i lavoratori in sciopero o, più drasticamente, decidono di spostare gli impianti. | Nel settore privato la legge impone un sistema maggioritario in base al quale, per essere riconosciuta e ammessa ai negoziati, una sigla deve rappresentare, in seguito a regolari elezioni, più del 50 per cento dei lavoratori di quell’unità produttiva. Impedire la formazione di un sindacato è illegale, ma le sanzioni per i datori di lavoro che lo fanno sono trascurabili. Anzi, secondo il National labor relations act, un sindacato accusato di pratiche illegali potrebbe essere portato di fronte alla Corte federale, mentre non esistono misure corrispondenti per la parte imprenditoriale. È possibile inoltre assumere personale in sostituzione permanente degli scioperanti. A queste leggi, che fanno ormai parte della tradizione del diritto del lavoro americano, si aggiungono i nuovi provvedimenti dell’amministrazione Bush, mirati a cancellare i pochi miglioramenti introdotti da Clinton. Tra questi c’è l’ordinanza che tende a scoraggiare l’adesione e il versamento di quote dei dipendenti pubblici a favore dei sindacati. Altre direttive eliminano ogni tentativo di conciliazione e di concertazione tra le organizzazioni del lavoro e quelle delle imprese. A dicembre, dopo gli attacchi dell’11 settembre, Bush ha impedito formalmente ai dipendenti della United Airlines di scioperare per almeno due mesi. | mirror: http://spazioinwind.libero.it/
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Sindacato e proletari immigrati Sotto il fuoco incrociato dell’offensiva capitalistica anche un sindacato ultracorporativo come l’AFL-CIO è stato costretto a reagire pena la sua stessa sopravvivenza (come segnala il crollo del tasso di sindacalizzazione negli ultimi due decenni). La reazione si va concretizzando, non a caso, nel tentativo di sindacalizzare i lavoratori non organizzati (finora volutamente lasciati a sé stessi, quelli con minore contrattualità, con bassi salari, gli immigrati, le donne, le minoranze etniche) vista come unica possibilità di tenuta anche per quelli sindacalizzati. Indicativo di questo orientamento è il coordinamento che la nuova direzione dell’AFL-CIO poco dopo la sua elezione ha organizzato a New York con l’esplicito obiettivo di porre come priorità la conquista di nuovi aderenti tra gli strati più marginali e peggio pagati della forza-lavoro, dunque soprattutto tra gli immigrati, molti dei quali clandestini. Il proposito non è nuovo, ma l’esperienza degli ultimi vent’anni e il bilancio che si inizia a trarne danno all'iniziativa in atto caratteristiche per certi aspetti anche molto differenti dall’impostazione corporativa e sciovinista con cui il sindacato americano ha tradizionalmente affrontato il problema. Un’impostazione che ha dato luogo fino a tempi recenti a una vera e propria strategia di esclusione nei confronti degli immigrati, concretizzatasi nella richiesta allo stato di rigido controllo dell’immigrazione, di restrizioni legislative (per tutti gli anni '70 il sindacato s'è opposto all’amnistia per gli irregolari), di repressione dei clandestini (divieto di accesso ai posti di lavoro, richiesta di sanzioni per i datori di lavoro). Di fronte ai disastri per la tenuta dello stesso sindacato di questa politica di contrapposizione tra lavoratori autoctoni e immigrati che ha favorito esclusivamente il padronato (un dato su tutti: nell’edilizia la sindacalizzazione degli operai professionali è crollato dall’80% del ’40 a meno del 20% negli anni '90), si inizia faticosamente a cambiare direzione di marcia. Alla fine degli anni '80, Sweeney, allora leader del sindacato dei lavoratori dei servizi (SEIU) e oggi neoeletto presidente dell’AFL-CIO, proprio sull’onda dei risultati ottenuti nella sindacalizzazione di quel settore, deve affermare: "La SEIU si appresta a organizzare una nuova ondata di immigrati. Per loro e per noi è una questione di sopravvivenza. Per difendersi questi lavoratori devono costruire dei sindacati. Ciò è egualmente vero per noi tutti. Altrimenti, noi non potremo difenderci contro i padroni che vogliono abbassare i salari". Alle parole sono seguiti, seppur solo parzialmente (com'è nella natura di un sindacato che è lontanissimo dall'essere di classe), i fatti, principalmente negli Stati dove il problema è più scottante. Nel 1987 l’AFL-CIO costituisce l’Associazione dei lavoratori immigrati della California (CIWA) finalizzata a tessere i primi contatti organizzativi con questo settore. Nel 1988 la SEIU lancia a Los Angeles una campagna di sindacalizzazione, ben riuscita, tra i portieri e i custodi, in gran parte immigrati messicani "illegali" e donne. Particolare significativo in questo caso, la campagna di sindacalizzazione avviene non attraverso le procedure stabilite dalla legislazione del New Deal e rigidamente controllate dal Ministero del lavoro, che prevedono azioni sindacali rigorosamente limitate al singolo stabilimento o posto di lavoro, bensì con scioperi duri e manifestazioni e scontri con la polizia; e con l’obiettivo, raggiunto, di arrivare a un contratto collettivo unico per tutti i lavoratori. La necessità del sindacato di rinforzarsi ampliando le proprie fila, incontra in generale una grossa disponibilità da parte della forza-lavoro immigrata, che del resto sovente non attende l’intervento di strutture organizzate esterne per rivendicare con la lotta il diritto a organizzarsi in sindacato. E’ il caso, tra i tanti, di uno sciopero del ’92 -durato cinque mesi- degli edili di origine messicana in sei contee della California, contro il ribasso dei salari e conclusosi, nonostante gli arresti in massa operati dalla polizia del servizio nazionale dell’immigrazione, con una vittoria e la costituzione di un sindacato. Questa lotta ha dato un forte impulso alle spinte già agenti in questa direzione. Non da molto, ad esempio, il sindacato ha varato un piano di sindacalizzazione degli operai di fabbrica di una zona ad alta concentrazione industriale nella periferia di Los Angeles (progetto d’azione Lamap). Anche in questo caso si abbandonano le procedure "fabbrica per fabbrica" e si punta a un’organizzazione per settori industriali -altro dato importantissimo alla luce del disastroso decentramento aziendalistico che caratterizza da sempre il sindacato Usa. La tendenza a superare questa frammentazione è del resto un dato più generale, sia all’interno dei singoli sindacati "industriali" dell’AFL-CIO, sia nel rapporto tra singoli sindacati, sempre più spinti dai rapporti di forza col padronato ad accorparsi e unificarsi (v. l’unificazione delle due Unions dei lavoratori tessili, il progetto di fusione dei sindacati dell’auto, dell’acciaio, del settore metalmeccanico in un’unica grande Union prevista per il 2000). Del pari prosegue l’azione di raccordo organizzativo e di lotta con la classe operaia messicana alle cui sorti il proletariato nordamericano è sempre più legato causa l’espansione del capitale Usa.
Anche in fabbrica... Segnali interessanti vengono anche dal fronte delle "relazioni industriali" in senso stretto, da sempre appannaggio di pratiche aziendalistiche e concertative della peggior specie. Qui ci limitiamo a segnalare l’importanza, al di là della posta in palio immediata, dello sciopero proclamato lo scorso marzo dal sindacato dei lavoratori dell’auto (United Auto Workers) in due stabilimenti della General Motors (a Dayton, con circa tremila lavoratori) che, arrestando completamente la produzione di parti di ricambio, è arrivato a bloccare gran parte degli stabilimenti nordamericani dell’azienda. Lo sciopero, scaturito dalla minaccia di licenziamenti in seguito al decentramento della produzione, è indicativo della tendenza a rimettere in campo l’arma della lotta, nonchè della disponibilità a ciò da parte di settori di lavoratori delle grandi aziende che sentono oramai sul collo il rischio forte di drastici peggioramenti che mettono radicalmente in discussione il loro status di "privilegiati". Ma è anche indicativo dell’oggettivo riannodarsi di questioni e dunque, potenzialmente, di fronti di lotta precedentemente spaiati. La sfrenata concorrenza all’interno della forza-lavoro, impulsata dalle strategie di delocalizzazione e di deregulation, la pone sempre più all’ordine del giorno. Se non è da aspettarsi all’immediato una ripresa generale delle lotte (comunque in aumento, con una radicalità rinnovata e, soprattutto, con la tendenza a ricercare il sostegno di altri settori di lavoratori, come lo sciopero dei tipografici di Detroit, in atto da un anno, dimostra), iniziano però a emergere con maggiore nettezza nella lotta immediata i nodi di fondo che il proletariato deve affrontare nella sua risposta.
Rivitalizzazione del proletariato Queste "novità" nel movimento sindacale e nelle lotte sindacali statunitensi sono espressione di una dinamica sociale di estrema importanza, che testimonia come stiano incrinandosi in profondità i rapporti tra capitale e proletariato nel maggior paese imperialista. Allo svolgersi e alla maturazione -oggettivamente determinati- di questa dinamica è legata la ripresa del movimento di classe. Essa non può che iniziare, specie in quegli USA che da un secolo monopolizzano il mercato mondiale, da un tasso di conflittualità molto basso e dall'altrettanto (se non più) basso livello di "coscienza", d'unità e d'organizzazione. Solo tenendo presente da dove la classe operaia USA -e più in generale il proletariato internazionale- riparte, si può comprendere e apprezzare il passo in avanti di questi anni. L’esigenza di dare una risposta di lotta più coerente e generale al formidabile attacco del nemico si sta affermando e consolidando non solo tra i lavoratori più schiacciati, ma anche nei settori "privilegiati". Il tempo della concession bargaining unilaterale, da ingoiare rassegnati e consenzienti come una amara e inevitabile purga, è finito. Questo inizio di rimessa in moto del proletariato nordamericano si incrocia all’oggi con la "virata" delle Unions, e se da un lato dà ad essa impulso, dall'altro lato, in una certa misura, ne riceve. Ma Sweeny e le nuove leve proletarie "sweeniane" non sono la stessa cosa e non cammineranno fianco a fianco for ever. Al contrario, gli Sweeny (o i Mazzocchi, per quel che riguarda il Labor Party) non potranno dar corso fino in fondo alle loro proclamate (pur moderate) intenzioni perché non intendono abbandonare la politica di sottomissione alle esigenze del capitalismo nazionale. Per limitarci alla questione immigrati: non sono forse responsabili, come minimo, di far ben poco per combattere i sentimenti sciovinisti così largamente diffusi tra i lavoratori statunitensi "doc"? e non hanno forse brillato per la loro assenza o tiepidezza nella battaglia contro la "proposition 187" che in California ha spogliato gli immigrati "illegali" d'ogni tutela assistenziale? Le nuove leve proletarie "sweeniane", invece, saranno costrette a darsi, su questo come su ogni altro terreno, linee e piattaforme programmatiche, metodi di lotta e direzioni sempre più conseguenti in senso classista, se vorranno rispondere efficacemente agli attacchi forsennati di un capitalismo che non può consentirsi neanche il grado di sub-welfare finora preservato. Per esse, spesso del tutto vergini all’esperienza sindacale, le lotte attuali sono una prima scuola di guerra in cui imparare da zero quei rudimenti dell’azione di classe che torneranno preziosi nelle più grandi e radicali battaglie a venire. La rivitalizzazione del movimento proletario passa di necessità per entro questo provvisorio intreccio tra un unionismo di vertice un pò più conflittuale e lo scoppio ancora non generalizzato di una nuova conflittualità e di una nuova militanza sindacale dei lavoratori. L’avanguardia di classe non può aggirare questo passaggio. Deve sapervi lavorare all’interno per prepararsi, e preparare la massa, alle future scansioni dell’acuirsi dello scontro di classe. Quelle che vedranno diventare burrascoso fino al divorzio finale il legame tra i burocrati "svoltisti" e "base" proletaria. E’ indice certo della profondità delle contraddizioni oggettive del capitalismo statunitense il fatto che l’azione sindacale è ormai portata a proiettarsi esplicitamente verso il piano politico, il piano del rapporto tra le classi e tra i partiti di queste classi. Non solo perché la spinta tradeunionista ripropone la necessità di iniziative e rivendicazioni generali e unitarie, dentro e oltre l’ambito dello scontro diretto con il management, in un contesto di polarizzazione sociale sempre più spinto che richiama alla mobilitazione sull’ampio terreno delle questioni che toccano tutto il proletariato. Ma anche perché, dalle lotte e nelle lotte, si fa strada l’esigenza di una "nuova politica" che, nel farsi carico degli interessi dei lavoratori, è chiamata a rompere con la precedente, completa subordinazione alle istituzioni statali e con la "delega" della rappresentanza politica al Partito Democratico. Anche su tale piano si registrano novità. http://www.tightrope.it/user/chefare/archivcf/cf40/usatu.html | |||
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