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Il Santuario
di S. Antonio Abate

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Brani tratti da "Le Confessioni"
di San Agostino. Libro ottavo

 

LA CONVERSIONE

 

Luminosi esempi di virtù eroica

6. 13. Ebbene, ora narrerò come tu ( Signore ) mi abbia liberato dalla catena del desiderio dell’unione carnale, che mi teneva legato così strettamente, e dalla schiavitù degli affari secolari. Confesserò il tuo nome, Signore, mio soccorritore e mio redentore. Svolgevo la solita attività, ma con ansia crescente. Ogni giorno sospiravo verso di te e nel tempo esente dal peso degli affari, sotto cui gemevo, frequentavo la tua chiesa. Con me era Alipio, che, libero dagli impegni di legale dopo essere stato assessore a tre riprese, stava aspettando qualcuno, cui vendere ancora pareri come io vendevo parte del dire, se pure la si può fornire con l’insegnamento. Quanto a Nebridio, cedendo alle sollecitazioni di noi amici, era diventato assistente di Verecondo, un maestro di scuola, cittadino milanese, intimo di noi tutti. Verecondo desiderava vivamente, e ce ne richiese in nome dell’amicizia, di avere dal nostro gruppo quell’aiuto fedele, di cui troppo mancava. Nebridio perciò non vi fu attratto dalla brama dei vantaggi, che, se soltanto voleva, poteva ricavare più abbondanti dalla sua cultura letteraria, bensì, da amico soavissimo e arrendevolissimo qual era, per obbligazione di affetto non volle respingere la nostra richiesta. Disimpegnò l’incarico evitando con molta saggezza di farsi notare dai grandi di questo mondo, così scansando ogni inquietudine interiore che poteva venirgli da quella parte. Voleva conservare lo spirito libero da occupazioni quante più ore poteva, per attendere a qualche ricerca, fare qualche lettura o sentir parlare della sapienza.

– 14. Un certo giorno ecco viene a trovarci, Alipio e me, né ricordo per quale motivo era assente Nebridio, un certo Ponticiano, nostro compatriota in quanto africano, che ricopriva una carica cospicua a palazzo. Ignoro cosa volesse da noi. Ci sedemmo per conversare e casualmente notò sopra un tavolo da gioco che ci stava davanti un libro. Lo prese, l’aprì e con sua grande meraviglia vi trovò le lettere dell’apostolo Paolo, mentre aveva immaginato fosse una delle opere che mi consumavo a spiegare in scuola. Allora mi guardò sorridendo e si congratulò con me, dicendosi sorpreso di aver improvvisamente scoperto davanti ai miei occhi quel testo e quello solo. Dirò che era cristiano e battezzato; spesso si prosternava in chiesa davanti a te, Dio nostro, pregandoti con insistenza e a lungo, io gli spiegai che riservavo la massima attenzione a quegli scritti, e così si avviò il discorso. Ci raccontò la storia di Antonio, un monaco egiziano, il cui nome brillava in chiara luce fra i tuoi servi, mentre per noi fino ad allora era oscuro. Quando se ne avvide, si dilungò nel racconto, istruendoci sopra un personaggio tanto ragguardevole a noi ignoto e manifestando la sua meraviglia, appunto, per la nostra ignoranza. Anche noi eravamo stupefatti all’udire le tue meraviglie potentemente attestate in epoca così recente, quasi ai nostri giorni, e operate nella vera fede della Chiesa cattolica. Tutti eravamo meravigliati: noi, per quanto erano grandi, lui per non essere giunte al nostro orecchio.

– 15. Di qui il suo discorso si spostò sulle greggi dei monaci, sulla loro vita, che t’invia soavi profumi, e sulla solitudine feconda dell’eremo, di cui noi nulla conoscevamo. A Milano stessa fuori dalle mura della città esisteva un monastero popolato da buoni fratelli con la pastura di Ambrogio senza che noi lo sapessimo. Ponticiano infervorandosi continuò a parlare per un pezzo, e noi ad ascoltarlo in fervido silenzio. Così venne a dire che un giorno, non so quando ma certamente a Treviri, mentre l’imperatore era trattenuto dallo spettacolo pomeridiano nel circo, egli era uscito a passeggiare con tre suoi camerati nei giardini contigui alle mura della città. Lì, mentre camminavano accoppiati a caso, lui con uno degli amici per proprio conto e gli altri due ugualmente per proprio conto, si persero di vista. Ma questi ultimi, vagando, entrarono in una capanna abitata da alcuni tuoi servitori poveri di spirito, di quelli cui appartiene il regno dei cieli, e vi trovarono un libro ov’era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò a leggerla e ne restò ammirato, infuocato. Durante la lettura si formò in lui il pensiero di abbracciare quella vita e abbandonare il servizio del secolo per votarsi al tuo. Erano in verità di quei funzionari, che chiamano agenti amministrativi. Improvvisamente pervaso di amore santo e di onesta vergogna, adirato contro se stesso, guardò fisso l’amico e gli chiese: "Dimmi, di grazia, quale risultato ci ripromettiamo da tutti i sacrifici che stiamo compiendo? Cosa cerchiamo, a quale scopo prestiamo servizio? Potremo sperare di più, a palazzo, dal rango di amici dell’imperatore? E anche una simile condizione non è del tutto instabile e irta di pericoli? E quanti pericoli non bisogna attraversare per giungere a un pericolo maggiore? E quando avverrà che ci arriviamo? Invece amico di Dio, se voglio, ecco, lo divento subito". Parlava e nel delirio del parto di una nuova vita tornò con gli occhi sulle pagine. A mano a mano che leggeva un mutamento avveniva nel suo intimo, ove tu vedevi, e la sua mente si svestiva del mondo, come presto apparve. Nel leggere, in quel rimescolarsi dei flutti del suo cuore, a un tratto ebbe un fremito, riconobbe la soluzione migliore e risolse per quella. Ormai tuo, disse all’amico suo: "Io ormai ho rotto con quelle nostre ambizioni. Ho deciso di servire Dio, e questo da quest’ora. Comincerò in questo luogo. Se a te rincresce d’imitarmi, tralascia d’ostacolarmi". L’altro rispose che lo seguiva per condividere con lui l’alta ricompensa di così alto servizio. Ormai tuoi entrambi, cominciavano la costruzione della torre, pagando il prezzo adeguato, e cioè l’abbandono di tutti i propri beni per essere tuoi seguaci. In quella Ponticiano e l’amico che con lui passeggiava in altre parti del giardino, mentre li cercavano giunsero là essi pure, li trovarono e li esortarono a rientrare, visto che il giorno era ormai calato. Ma i due palesarono la decisione presa e il proposito fatto, nonché il modo com’era sorta e si era radicata in loro quella volontà. Conclusero pregando di non molestarli, qualora rifiutassero di unirsi a loro. I nuovi venuti persistettero nella vita di prima, ma tuttavia piansero su di sé, come diceva Ponticiano, mentre con gli amici si felicitarono piamente e si raccomandarono alle loro preghiere, per poi tornare a palazzo strisciando il cuore in terra, mentre essi rimasero nella capanna fissando il cuore in cielo. Entrambi erano fidanzati; quando le spose seppero l’accaduto, consacrarono anch’esse la loro verginità a te.

 

Doloroso bilancio spirituale

7. 16. Questo il racconto di Ponticiano. E tu, Signore, mentre parlava mi facevi ripiegare su me stesso, togliendomi da dietro al mio dorso, ove mi ero rifugiato per non guardarmi, e ponendomi davanti alla mia faccia, affinché vedessi quanto era deforme, quanto storpio e sordido, coperto di macchie e piaghe. Visione orrida; ma dove fuggire lungi da me? Se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, c’era Ponticiano, che continuava, continuava il suo racconto, e c’eri tu, che mi mettevi nuovamente di fronte a me stesso e mi ficcavi nei miei occhi, affinché scoprissi e odiassi la mia malvagità. La conoscevo ma la coprivo, la trattenevo e me ne scordavo.

– 17. Ma ora quanto più amavo i due giovani ascoltando gli slanci salutari con cui ti avevano affidato la loro intera guarigione, tanto più mi trovavo detestabile al loro confronto e mi odiavo. Molti anni della mia vita si erano perduti con me, forse dodici da quello in cui, diciannovenne, leggendo l’Ortensio di Cicerone mi ero sentito spingere allo studio della sapienza; e ancora rinviavo il momento di dedicarmi, nel disprezzo della felicità terrena, all’indagine di quell’altra, la cui non dirò scoperta, ma pur semplice ricerca si doveva anteporre persino alla scoperta di tesori, di regni terreni e ai piaceri fisici, che affluivano a un mio cenno da ogni dove. Eppure da giovinetto, ben misero, sì, misero proprio sulla soglia della giovinezza, ti avevo pur chiesto la castità. "Dammi, ti dissi, la castità e la continenza, ma non ora", per timore che, esaudendomi presto, presto mi avresti guarito dalla malattia della concupiscenza, che preferivo saziare, anziché estinguere. Mi ero così incamminato per le vie cattive di una superstizione sacrilega, senza esserne sicuro, è vero, ma comunque anteponendola alle altre dottrine, che invece di indagare devotamente, combattevo ostilmente.

– 18. Avevo pensato che la ragione per cui differivo di giorno in giorno il momento di seguire unicamente te, disprezzando le promesse del secolo, fosse la mancanza di una luce sicura, su cui orientare il mio corso. Ed era venuto il giorno in cui mi trovavo nudo davanti a me stesso e sotto le rampogne della mia coscienza: "Dov’è la tua loquacità? Tu proprio andavi dicendo che rifiutavi di sbarazzarti del tuo bagaglio di vanità per l’incertezza del vero. Ecco, ora il vero è certo, e la vanità ti opprime ancora. A spalle più libere delle tue spuntarono le ali senza che si fossero consumate nella ricerca e in una meditazione di oltre un decennio su questi problemi". Così mi rodevo in cuore e mi sentivo violentemente turbare da un’orrenda vergogna al racconto di Ponticiano. Concluso per altro il discorso e l’affare per cui era venuto, egli uscì e io rientrai in me. Cosa non dissi contro di me? Di quali colpi non flagellai la mia anima con le verghe dei pensieri affinché mi seguisse nei miei sforzi per camminare sulle tue orme? Recalcitrava, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano stati sfruttati e confutati. Non le rimaneva che un’ansia muta; come la morte temeva di essere costretta a ritrarsi dal flusso della consuetudine, che la corrompeva fino a morirne.

 

IN GIARDINO

Contraddizione

8. 19. Allora, nel mezzo della grande rissa che si svolgeva dentro alla mia casa e che avevo scatenato energicamente contro la mia anima nella nostra stanza più segreta, nel mio cuore, sconvolto il viso quanto la mente, mi precipito da Alipio esclamando: "Cosa facciamo? cosa significa ciò? cosa hai udito? Alcuni indotti si alzano e rapiscono il cielo, mentre noi con tutta la nostra dottrina insensata, ecco dove ci avvoltoliamo, nella carne e nel sangue. O forse, poiché ci precedettero, abbiamo vergogna a seguirli e non abbiamo vergogna a non seguirli almeno?". Dissi, penso, qualcosa del genere, poi la mia tempesta interiore mi strappò da lui, che mi mirava attonito, in silenzio. Certo le mie parole erano insolite, ma più ancora delle parole che pronunciavo, esprimevano i miei sentimenti la fronte, le guance, gli occhi, il colore della pelle, il tono della voce. Annesso alla nostra abitazione era un modesto giardinetto, che usavamo come il resto della casa, poiché il nostro ospite, padrone della casa, non l’abitava. Là mi sospinse il tumulto del cuore. Nessuno avrebbe potuto arrestarvi il focoso litigio che avevo ingaggiato con me stesso e di cui tu conoscevi l’esito, io no. Io insanivo soltanto, per rinsavire, e morivo, per vivere, consapevole del male che ero e inconsapevole del bene che presto sarei stato. Mi ritirai dunque nel giardino, e Alipio dietro, passo per passo. In verità mi sentivo ancora solo, malgrado la sua presenza, e poi, come avrebbe potuto abbandonarmi in quelle condizioni? Sedemmo il più lontano possibile dall’edificio, Io fremevo nello spirito, sdegnato del più torbido sdegno perché non andavo verso la tua volontà e la tua alleanza, Dio mio, verso le quali tutte le mie ossa gridavano che si doveva andare, esaltandole con lodi fino al cielo. E là non si andava con navi o carrozze o passi, nemmeno i pochi con cui ero andato dalla casa al luogo ove eravamo seduti. L’andare, non solo, ma pure arrivare colà non era altro che il volere di andare, però un volere vigoroso e totale, non i rigiri e sussulti di una volontà mezzo ferita nella lotta di una parte di sé che si alzava, contro l’altra che cadeva.

– 20. Nelle tempeste dell’esitazione facevo con la persona molti dei gesti che gli uomini talvolta vogliono, ma non valgono a fare, o perché mancano delle membra necessarie, o perché queste sono avvinte da legami, inerti per malattia o comunque impedite. Mi strappai cioè i capelli, mi percossi la fronte, strinsi le ginocchia fra le dita incrociate, così facendo perché lo volevo. Avrei potuto volere e non fare, se le membra non mi avessero ubbidito per impossibilità di muoversi. E mentre feci molti gesti, per i quali volere non equivaleva a potere, non facevo il gesto che mi attraeva d’un desiderio incomparabilmente più vivo e che all’istante, appena voluto, avrei potuto, perché all’istante, appena voluto, l’avrei certo voluto. Lì possibilità e volontà si equivalevano, il solo volere era già fare. Eppure non se ne faceva nulla: il corpo ubbidiva al più tenue volere dell’anima, muovendo a comando le membra, più facilmente di quanto l’anima non ubbidisse a se stessa per attuare nella sua volontà una sua grande volontà.

 

La volontà imperfetta

9. 21. Qual è l’origine di quest’assurdità? e quale la causa? M’illumini la tua misericordia, mentre interrogherò, se mai possono rispondermi, le recondite pieghe delle miserie umane e le misteriosissime pene che affliggono i figli di Adamo. Qual è l’origine di questa assurdità? e quale la causa? Lo spirito comanda al corpo, e subito gli si presta ubbidienza; lo spirito comanda a se stesso, e incontra resistenza. Lo spirito comanda alla mano di muoversi, e il movimento avviene così facilmente, che non si riesce quasi a distinguere il comando dall’esecuzione, benché lo spirito sia spirito, la mano invece corpo. Lo spirito comanda allo spirito di volere, non è un altro spirito, eppure non esegue. Qual è l’origine di quest’assurdità? e quale la causa? Lo spirito, dico, comanda di volere, non comanderebbe se non volesse, eppure non esegue il suo comando. In verità non vuole del tutto, quindi non comanda del tutto. Comanda solo per quel tanto che vuole, e il comando non si esegue per quel tanto che non vuole, poiché la volontà comanda di volere, e non ad altri, ma a se stessa. E poiché non comanda tutta intera, non avviene ciò che comanda; se infatti fosse intera, non si comanderebbe di essere, poiché già sarebbe. Non è dunque un’assurdità quella di volere in parte, e in parte non volere; è piuttosto una malattia dello spirito, sollevato dalla verità ma non raddrizzato del tutto perché accasciato dal peso dell’abitudine. E sono due volontà, poiché nessuna è completa e ciò che è assente dall’una è presente nell’altra.

 

Confutazione della dottrina manichea delle due nature

10. 22. Scompaiano dalla tua vista, o Dio, così come scompaiono, i ciarlatani e i seduttori delle menti, coloro che, avendo rilevato la presenza di due volontà nell’atto del deliberare, affermano l’esistenza di due anime con due nature, l’una buona, l’altra malvagia. Essi sì sono davvero malvagi, poiché hanno questi concetti malvagi, e non diverranno buoni, se non avendo concetti di verità e accettando la verità. Allora potranno dirsi per loro le parole del tuo Apostolo: "Foste un tempo tenebre, ora invece luce nel Signore". Mentre vogliono essere luce, ma non nel Signore, bensì in se stessi, attribuendo alla natura dell’anima un’essenza divina, sono divenuti tenebre più dense. La loro orrenda arroganza li allontanò più ancora da te, da te, vero lume illuminante ogni uomo che viene in questo mondo. Badate a ciò che dite. Arrossite e avvicinatevi a lui: riceverete la luce e i vostri volti non arrossiranno. Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio del Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a non volere; ero io, io. Da questa volontà incompleta e incompleta assenza di volontà nasceva la mia lotta con me stesso, la scissione di me stesso, scissione che, se avveniva contro la mia volontà, non dimostrava però l’esistenza di un’anima estranea, bensì il castigo della mia. Non ero neppure io a provocarla, ma il peccato che abitava in me quale punizione di un peccato commesso in maggiore libertà; poiché ero figlio di Adamo.

– 23. Se infatti esistessero tante nature contrarie fra loro quante volontà opposte l’una all’altra, non sarebbero solo due, ma molte. Allorché qualcuno sta deliberando se recarsi a un loro convegno oppure a teatro, costoro gridano: "Ecco le due nature, una buona che lo invia qui, l’altra malvagia che lo rinvia là. Quale origine diversa potrebbe avere questa esitazione di volontà in conflitto fra loro?". Io affermo che sono volontà malvagie entrambe, sia quella che lo invia a loro, sia quella che lo rinvia a teatro; essi invece credono che non può essere se non buona quella che ci guida a loro. Come? Per uno che delibera, esitando nell’alterco delle due volontà contrastanti, se recarsi a teatro o alla nostra chiesa, non esiteranno anch’essi sulla risposta da dare? Infatti o confesseranno, ma non vogliono farlo, che la volontà buona ci spinge a recarci alla nostra chiesa, come vi si reca chi è stato iniziato ai suoi sacramenti e vi partecipa; o crederanno che si scontrano in un uomo solo due nature malvagie, due anime malvagie. Sarà in tal caso smentita la loro asserzione consueta, che una natura è buona e l’altra malvagia; oppure si convertiranno alla verità, ammettendo che nell’atto di deliberare una sola anima fluttua in balia di volontà diverse.

– 24. Non asseriscano dunque più, al vedere due volontà affrontarsi nel medesimo individuo, che si tratta della contesa di due anime contrarie, una buona, l’altra malvagia, formate da due sostanze contrarie, da due principi contrari: perché tu, Dio verace, li condanni, li confuti, li smascheri. Pensiamo al caso di due volontà entrambe malvagie, quali si hanno in chi sta deliberando se uccidere un uomo col veleno o con un’arma, se appropriarsi di questo o di quel fondo che non gli appartengono né può occupare contemporaneamente; se comprare il piacere per lussuria o serbare il denaro per avarizia; se recarsi al circo o a teatro quando entrambi diano spettacolo nella medesima giornata, o, aggiungendo una terza eventualità, a rubare in casa d’altri, qualora si presenti l’occasione, o, aggiungendone pure una quarta, a commettere un adulterio, qualora gli si apra simultaneamente una possibilità anche da quella parte. Ebbene, si concentrino nel medesimo istante tutte assieme queste occasioni e siano tutte ugualmente desiderate, eppure non possono essere simultaneamente sfruttate e si avrà un animo dilaniato da quattro volontà in conflitto tra loro, o anche da più di quattro, potendo essere molte le cose desiderate, sebbene questa gente di solito non parli di una moltitudine tanto grande di sostanze diverse. Così anche per le volontà buone. Chiedo loro: "È bene godere della lettura dell’Apostolo? è bene godere della lettura di un salmo edificante? è bene dissertare sul Vangelo?". Risponderanno ogni volta: "È bene". Ma allora, se queste tre attività piacessero tutte ugualmente e in un unico e medesimo istante, non si hanno volontà diverse, che tirano in senso contrario il cuore dell’uomo nell’atto in cui delibera sulla cosa migliore da fare? E tutte sono volontà buone e lottano tra loro finché non sia operata la scelta, su cui punti tutta la volontà ridotta a una sola di molte in cui era divisa. Così ancora, quando l’eternità ci attrae in alto, mentre il godimento di un bene temporale ci trattiene al basso, è la medesima anima a volere, ma non con tutta la volontà, l’uno o l’altro dei due oggetti. Di qui le angosce penose che la dilaniano, perché la verità le fa anteporre il primo, l’abitudine non le lascia deporre il secondo.

 

Crisi interiore

11. 25. Ammalato nello spirito di questa malattia, mi tormentavo fra le accuse che mi rivolgevo da solo, assai più aspre del solito, e i rigiri e le convulsioni entro la mia catena, che ancora non si spezzava del tutto, che sottile ormai mi teneva, ma pure mi teneva. Tu, Signore, non mi davi tregua nel mio segreto. Con severa misericordia raddoppiavi le sferzate del timore e del pudore, per impedire un nuovo rilassamento, che, invece di spezzare quel solo esiguo e tenue legame esistente ancora, l’avrebbe rinvigorito da capo, e stretto me più saldamente. Mi dicevo fra me e me: "Su, ora, ora è il momento di agire"; a parole ero ormai incamminato verso la decisione e stavo già quasi per agire, e non agivo. Non ricadevo però al punto di prima: mi fermavo vicinissimo e prendevo lena. Seguiva un altro tentativo uguale al precedente, ancora poco ed ero là, ancora poco e ormai toccavo, stringevo la meta. E non c’ero, non toccavo, non stringevo nulla. Esitavo a morire alla morte e a vivere alla vita; aveva maggior potere su di me il male inoculato, che il bene inusitato. L’istante stesso dell’attesa trasformazione quanto più si avvicinava, tanto più atterriva, non al punto di ributtarmi indietro e farmi deviare, ma sì di tenermi sospeso.

– 26. A trattenermi erano le frivolezze delle frivolezze, le vanità delle vanità, antiche amiche mie, che mi tiravano di sotto la veste di carne e sussurravano a bassa voce: "Tu ci congedi?", e: "Da questo momento non saremo più con te eternamente", e: "Da questo momento non ti sarà più concesso di fare questo e quell’altro eternamente". E quali cose non mi suggerivano con ciò che ho chiamato "questo e quell’altro", quali cose non mi suggerivano, Dio mio! La tua misericordia le allontani dall’anima del tuo servo. Quali sozzure non suggerivano, quali infamie! Ma io udivo ormai molto meno che a metà la loro voce. Anziché contrastare, diciamo così, a viso aperto, venendomi innanzi, parevano bisbigliare dietro le spalle e quasi mi pizzicavano di soppiatto mentre fuggivo, per farmi volgere indietro lo sguardo. Così però mi attardavano, poiché indugiavo a staccarmi e scuotermi da esse per balzare ove tu mi chiamavi. L’abitudine, tenace, mi diceva: "Pensi di poterne fare a meno?".

– 27. Ma la sua voce era ormai debolissima. Dalla parte ove avevo rivolto il viso, pur temendo a passarvi, mi si svelava la casta maestà della Continenza, limpida, sorridente senza lascivia, invitante con verecondia a raggiungerla senza esitare, protese le pie mani verso di me per ricevermi e stringermi, ricolme di una frotta di buoni esempi: fanciulli e fanciulle in gran numero, moltitudini di giovani e gente d’ogni età, e vedove gravi e vergini canute. E in tutte queste anime la continenza, dico, non era affatto sterile, bensì madre feconda di figli: i gaudi ottenuti dallo sposo, da te, Signore. Con un sorriso sulle labbra, che era di derisione e incoraggiamento insieme, sembrava dire: "Non potrai fare anche tu ciò che fecero questi giovani, queste donne? E gli uni e le altre ne hanno il potere in se medesimi o nel Signore Dio loro? Il Signore Dio loro mi diede ad essi. Perché ti reggi, e non ti reggi, su di te? Gettati in lui senza timore. Non si tirerà indietro per farti cadere. Gettati tranquillo, egli ti accoglierà e ti guarirà". Io arrossivo troppo, udendo ancora i sussurri delle frivolezze; ero sospeso nell’esitazione, mentre la Continenza riprendeva, quasi, a parlare: "Chiudi le orecchie al richiamo della tua carne immonda sulla terra per mortificarla. Le voluttà che ti descrive sono difformi dalla legge del Signore Dio tuo". Questa disputa avveniva nel mio cuore, era di me stesso contro me stesso solo. Alipio, immobile al mio fianco, attendeva in silenzio l’esito della mia insolita agitazione.

 

“ Prendi e leggi ”

12. 28. Quando dal più segreto fondo della mia anima l’alta meditazione ebbe tratto e ammassato tutta la mia miseria davanti agli occhi del mio cuore, scoppiò una tempesta ingente, grondante un’ingente pioggia di lacrime. Per scaricarla tutta con i suoi strepiti mi alzai e mi allontanai da Alipio, parendomi la solitudine più propizia al travaglio del pianto, quanto bastava perché anche la sua presenza non potesse pesarmi. In questo stato mi trovavo allora, ed egli se ne avvide, perché, penso, mi era sfuggita qualche parola, ove risuonava ormai gravida di pianto la mia voce; e in questo stato mi alzai. Egli dunque rimase ove ci eravamo seduti, immerso nel più grande stupore. Io mi gettai disteso, non so come, sotto una pianta di fico e diedi libero corso alle lacrime. Dilagarono i fiumi dei miei occhi, sacrificio gradevole per te, e ti parlai a lungo, se non in questi termini, in questo senso: "E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, sarai irritato fino alla fine? Dimentica le nostre passate iniquità". Sentendomene ancora trattenuto, lanciavo grida disperate: "Per quanto tempo, per quanto tempo il "domani e domani"? Perché non subito, perché non in quest’ora la fine della mia vergogna?".

 

Prendi e leggi

– 29. Così parlavo e piangevo nell’amarezza sconfinata del mio cuore affranto. A un tratto dalla casa vicina mi giunge una voce, come di fanciullo o fanciulla, non so, che diceva cantando e ripetendo più volte: "Prendi e leggi, prendi e leggi". Mutai d’aspetto all’istante e cominciai a riflettere con la massima cura se fosse una cantilena usata in qualche gioco di ragazzi, ma non ricordavo affatto di averla udita da nessuna parte. Arginata la piena delle lacrime, mi alzai. L’unica interpretazione possibile era per me che si trattasse di un comando divino ad aprire il libro e a leggere il primo verso che vi avrei trovato. Avevo sentito dire di Antonio che ricevette un monito dal Vangelo, sopraggiungendo per caso mentre si leggeva: "Va’, vendi tutte le cose che hai, dàlle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, e vieni, seguimi". Egli lo interpretò come un oracolo indirizzato a se stesso e immediatamente si rivolse a te. Così tornai concitato al luogo dove stava seduto Alipio e dove avevo lasciato il libro dell’Apostolo all’atto di alzarmi. Lo afferrai, lo aprii e lessi tacito il primo versetto su cui mi caddero gli occhi. Diceva: "Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze". Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.

– 30. Chiuso il libro, tenendovi all’interno il dito o forse un altro segno, già rasserenato in volto, rivelai ad Alipio l’accaduto. Ma egli mi rivelò allo stesso modo ciò che a mia insaputa accadeva in lui. Chiese di vedere il testo che avevo letto. Glielo porsi, e portò gli occhi anche oltre il punto ove mi ero arrestato io, ignaro del seguito. Il seguito diceva: "E accogliete chi è debole nella fede". Lo riferì a se stesso, e me lo disse. In ogni caso l’ammonimento rafforzò dentro di lui una decisione e un proposito onesto, pienamente conforme alla sua condotta, che l’aveva portato già da tempo ben lontano da me e più innanzi sulla via del bene. Senza turbamento o esitazione si unì a me. Immediatamente ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo. Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo, stando ritto ormai su quel regolo della fede, ove mi avevi mostrato a lei tanti anni prima nel corso di una rivelazione; e mutasti il suo duolo in gaudio molto più abbondante dei suoi desideri, molto più prezioso e puro di quello atteso dai nipoti della mia carne.

 

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Vita di sant’Agostino

 

Le Confessioni

 

L'incontro di S. Agostino
con la figura di Antonio abate

 

 

 

Siti su S. Agostino

 

http://www.augustinus.it/

 

http://www.enrosadira.net/santi/a/
agostino.htm

 

http://www.augustea.it/dgabriele/
italiano/san_agostino.htm

 

http://liturgia.silvestrini.org/
Santi/AGOSTINO.HTM

 

http://www.lalode.com/28agosto.htm

 

 

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