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Il Santuario
di S. Antonio Abate

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L'uomo della Bibbia di fronte alla malattia e alla morte

 

Per il mese di Novembre la redazione del nostro sito vuole riproporre una meditazione dal titolo evidente.
La liturgia della Chiesa da sempre centralizza la riflessione in questo mese sulle realtà ultime: la Resurrezione dei morti e la Comunione dei santi ovverosia sul compimento definitivo della salvezza e delle promesse che il Cristo Re e Salvatore, Giudice della storia opererà chiudendo la porta di questo mondo. Il regno di Dio, inaugurato potentemente in fatti e parole dall'Annuncio, Morte e Resurrezione di Gesù attende il giorno in cui l'umanità entrerà per sempre nel "luogo del riposo" di Dio: il Paradiso, la nuova Terra promessa. La festa della Chiesa, che è la festa dei santi, è appena iniziata!
E' la nostra fede, è la nostra speranza! Se questa non fosse la meta, cosciente per ognuno di noi, del nostro pellegrinare nella storia potremmo dire con san Paolo: "Se noi riponessimo la nostra speranza in Cristo soltanto in questa vita, saremmo i più miserabili di tutti gli uomini" (I Cor 15, 19)
Eppure occorre prima attraversare il fiume! Bisogna attraversare quella che l'autore del libro dell'Apocalisse (passo che abbiamo letto il primo novembre, solennità di tutti i Santi, festa della Chiesa intera) chiama la grande tribolazione. Cosa significa questa parolona che sembra rattristare la gioia? Come Gesù ci ha insegnato, per vivere per sempre con Lui dovremo prima soffrire e morire, unire la nostra morte a quella di Gesù per poter risorgere con Lui.
E allora il mese di Novembre è anche il mese in cui la Chiesa commemora i suo figli che ci hanno preceduto nella fede e che dormono il sonno della pace e che, come noi, attendono di essere svegliati dal torpore della morte perché la gioia e la festa senza fine inizino per sempre. "Essi non avranno mai più né fame, né sete, né li colpirà più il sole, né ardore alcuno; perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà loro pastore e li guiderà alle sorgenti dell'acqua della vita, e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 7, 16-17).
Riflettiamo sulla malattia e la morte nella Bibbia grazie a questo contributo di Lucia Magnolfi, dottoranda in teologia presso la Facoltà teologica dell'Italia centrale, che ha sede a Firenze, pubblicato a puntate sulle colonne di Castello 7, Lettera settimanale di informazione parrocchiale della Parrochia san Michele di Castello (FI), nel mese di Marzo 2001. Ricordiamo sempre che il giornale è fruibile online e vi rimandiamo ai nostri Link per l'indirizzo Web.
Vogliamo ringraziare l'autrice Lucia Magnolfi
e sopratutto don Paolo Aglietti che ci accompagna in questa nostra avventura!!!

 

CERCATE ME E VIVRETE

L'uomo dell'Antico Testamento impara a vivere e a morire attraverso un percorso lento e faticoso che non ha certo conosciuto uno sviluppo lineare e armonico. Nella concretezza del suo esistere l'uomo biblico si rende conto che la morte fa parte del ritmo vitale dell'esistenza umana così come di quella di ogni altro essere vivente. Non è una riflessione da poco se si pensa che egli vive immerso in un mondo, come quello cananeo, dove la morte è una divinità, il dio Mot.
Morire non significa per l'uomo dell'Antico Testamento cadere nella sfera d'influenza di una qualche divinità, ma è segno della limitatezza e della caducità umana.

L'espressione «Dio fa vivere e fa morire» (Dt 32,39; 1Sam 2,6 ecc.) non è dunque l'affermare il terrore di una creatura che si vede in balia di una divinità capricciosa, ma porre la fiducia che nemmeno la morte sfugge al dominio sovrano di Dio. Tutto questo è da mettere in relazione ad un fatto molto importante e per certi aspetti sconvolgente: il progressivo affermarsi di una religione monoteistica, cioè la fede in un solo Dio, in un contesto culturale circostante affollato dalle divinità più disparate. Ad una lettura superficiale questo sembra un dato scontato eppure ha richiesto un grosso approfondimento teologico segnato anche da pesanti arresti.
L'intera storia d'Israele è posta sotto il comandamento fondamentale che leggiamo nel libro dell'Esodo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me... Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso...» (Es 20,2.5). Se il grande peccato di Israele è andare dietro gli idoli e disconoscere così la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, si comprende allora la particolare intransigenza proprio contro il culto dei morti e tutto ciò che era in relazione con esso. Nella radicale demitologizzazione e desacralizzazione della morte rispetto alle culture limitrofe, se c'è da una parte l'onore dato al defunto, dall'altra si combatte ogni possibilità di attribuire ai morti poteri particolari o un sapere superiore a cui attingere attraverso la negromanzia, cioè l'evocazione dei morti, che era severamente vietata (Lv 19,31). Proprio per sottolineare la volontà di esclusività di culto a Jahvè, si spiegano tutte le espressioni radicali della Bibbia che vedono i morti esclusi addirittura dalla lode dovuta a Dio (Sal 115,17-18), e come tutto ciò che era cadavere, cioè era entrato nella morte, rappresentasse il grado estremo di impurità.

La rivelazione di un Dio che vuole stabilire un rapporto personale con un popolo ben preciso segna profondamente la storia d'Israele: «Cercate me e vivrete.» (Amos 5,9). Allora il rapporto che lega questo popolo al suo Dio, che è Dio della vita, sarà soprattutto l'obbedienza della fede; tutta la storia che ne deriva non sarà altro che una vicenda giocata e misurata su di essa.
L'uomo allora è veramente posto di fronte a due vie: "obbedienza-benedizione-vita" sono una strada, "disobbedienza-maledizione-morte" sono l'altra strada. L'alternativa è chiarissima e il discernimento richiesto da Dio non ammette ambiguità come possiamo leggere nel libro del Deuteronomio: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità» (Dt 30, 19-20).

 

IL SALARIO DEL PECCATO

La crescita della conoscenza del senso della morte è per l'uomo dell'Antico Testamento parallela alla crescita della coscienza del peccato. Ma c'è veramente fra i due termini una relazione diretta di causa ed effetto, tanto da poter affermare, in maniera assoluta che «la morte è il salario del peccato» come afferma san Paolo nella lettera ai Romani (6,23)? Peccato e morte in effetti appaiono già collegati fin dai primi capitoli della Genesi: siamo di fronte all'enigma sconcertante di un uomo creato per la vita, messo subito alla prova nello spazio della libertà datagli da Dio e caduto di fronte ad una potenza esterna, il Serpente, dietro al quale sta l'Avversario del disegno di Dio, colui che vuole il ritorno della creazione al caos, all'abisso tenebroso senza vita.
Leggendo con attenzione e di seguito i capitoli 3 e 4 del libro della Genesi, ci rendiamo conto di un fatto importantissimo: Dio non punisce con la morte coloro che trasgrediscono i suoi comandi e, del resto, la riflessione teologica porterà a proclamare che Dio "non gode della morte dell'empio" (Ez 18,32; 33,11) ma vuole la sua conversione.
Se il morire fosse una punizione non si capirebbe come mai la morte colpisca indistintamente giusti ed empi, come si comincia a intravedere dalle pagine bibliche che riflettono in modo critico sulla "teoria della retribuzione". Questa teoria affermata da tanti salmi prevede una sorte diversa per i malvagi rispetto a chi è fedele a Dio, ma che drammaticamente il libro di Giobbe sembra mettere in discussione. Di per sé la morte fisica è vista dall'uomo dell'Antico Testamento come una necessità biologica, a cui tutti gli esseri viventi vanno incontro, non certo il castigo, la conseguenza del peccato di Adamo voluta da Dio. Del resto la prima morte nella quale ci imbattiamo aprendo le pagine della Bibbia è opera dell'uomo, è un fratricidio (Gen 4).C'è in questa vicenda dei due fratelli figli di Adamo, dell'uomo "tratto dalla terra", una riflessione teologica importantissima: se la morte è stata creata da qualcuno, questo qualcuno è un figlio di Adamo, questo qualcuno è l'uomo, non Dio. Addirittura vediamo che di fronte a Caino ormai minacciato, debole, divenuto lui un potenziale Abele, Dio manifesta la sua protezione, la sua misericordia: Dio solo è il Signore della vita, anche della vita dell'omicida. E' usurpando la signoria sulla vita, che appartiene soltanto a Dio, che l'uomo ha conosciuto il peccato sommo, e così facendo ha introdotto nel mondo la morte, tanto che da allora peccato e morte vivono l'uno dell'altra. Proprio in quella logica d'obbedienza come risposta all'Alleanza, a quella comunione di vita che Dio offre al popolo che ha liberato dalla schiavitù d'Egitto, che ha sostenuto nel deserto, che ha fatto entrare nella terra promessa, chi vuole procurarsi la vita da solo senza Dio o contro Dio non solo è peccatore, ma è portatore di morte per gli altri e per se stesso.
Solo nella conversione a Dio, con il rifiuto di ogni idolatria, si riceve la vita e si vive pienamente. Così leggiamo nel profeta Osea: «Venite, ritorniamo al Signore... Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,1-2).

 

E GESÙ, EMESSO UN ALTO GRIDO, SPIRÒ

Gesù, nato all'interno del popolo ebraico, appartiene all'esperienza dell'Antico Testamento, ma nella sua vita e soprattutto nella sua morte si pone come "novità" e  risposta definitiva a quel lento cammino di comprensione che l'uomo biblico ha compiuto faticosamente nel corso di secoli e che potremmo idealmente situare tra due espressioni che gli evangelisti riportano proprio nel momento drammatico della sua crocifissione: l'urlo disperato in Marco («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» 15,34b) e le parole piene di speranza e di attesa in Luca («Padre, nelle tue mani consegno (affido) il mio spirito»  23,46b).
In effetti queste due espressioni racchiudono tutta la vicenda biblica della continua progressione nel tentare di capire il perché della morte. In questa storia, sia della comprensione umana di quello che è la morte e il morire, sia della Rivelazione che all'interno della Bibbia emerge sull'idea della morte -secondo quella "pedagogia divina" (DV.15) che tiene conto delle realtà degli uomini e del loro evolversi- non possiamo non riferirci alla morte esemplare, quella di Gesù.
Parlando però della morte di Gesù ci troviamo di fronte ad una serie di "rischi", in cui può cadere ad una prima lettura chi inizi a sfogliare le pagine del Nuovo Testamento e che vanno tenuti presenti. Non siamo infatti di fronte ad un "super eroe" che va incontro alla morte senza temerla, né questa è una pura conseguenza politica nei confronti di un "rivoluzionario". Non va dimenticata infine la sua funzione "redentiva" . Non si può comprendere la morte di Gesù se non si cerca di capire qual è il valore che egli ha dato alla vita, soprattutto all'interno di quel trittico "io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14,6) inscindibile nelle sue parti, quasi una sorta di progetto che egli è venuto a realizzare e che gli deriva dalla conoscenza particolare che ha di Dio. Per questo Gesù non ha paura di cedere e non accetta compromessi di fronte ad un legalismo rituale che, per seguire il culto, dimentica la misericordia e l'amore di Dio tante volte ricordati dai profeti.
Gesù non è distaccato rispetto al dolore altrui; solidarizza con le persone colpite da un lutto familiare: piange di fronte all'amico Lazzaro morto (Gv 11). Dobbiamo notare poi che, se anche l'evangelista Giovanni non racconta l'agonia di Gesù come Marco, Matteo e Luca, in questo suo forte turbamento  c'è come un segno anticipatore, quasi che Gesù, davanti alla morte dell'amico, lucidamente vedesse la sua morte. In questi pochi versetti Giovanni dà un concentrato drammatico di termini: «si commosse profondamente, si turbò», «scoppiò in pianto», «profondamente commosso».
Il distacco della morte è sempre una lotta tra l'istinto vitale che è in ognuno e quello che avverrà. Questa lotta c'è in tutti e c'e stata anche in Gesù. Ecco allora che nell'orto del Getzemani anche Gesù nell'ora imminente della propria morte sperimenta il "conflitto" tra la propria volontà e la volontà del Padre e suda sangue (Lc 22,44). E' l'angoscia del fallimento, di chi muore senza che il suo annuncio sia stato compreso e senza che i discepoli possano sostenerlo. Sono talmente scandalose queste pagine della passione che non può certo reggere la tesi di chi ha sostenuto che si tratti di un'invenzione della Chiesa nascente. Eppure sono all'interno della Bibbia quasi a dar voce a quell'umanità sofferente che da sempre cerca come può una risposta al "perché" del male, del dolore, della morte, che non sia sola rassegnazione ad un destino ineluttabile. Di fronte a tutto questo il grido di Gesù dalla croce, il suo capo reclinato, l'affermazione «Tutto è compiuto» sono come in sintesi l'esperienza di un cammino che Gesù stesso ha dovuto affrontare: dall'esperienza terribile dell'abbandono di Dio alla totale obbedienza nell'abbandonarsi in Lui.
E' in quel momento, con l'ultimo grido di fronte alla morte, che per Gesù e in lui, per tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, si sono realizzate le parole del salmo 16: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra».

 

 

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