L'uomo della Bibbia di fronte alla
malattia e alla morte
Per il mese di Novembre la redazione del nostro sito vuole riproporre una
meditazione dal titolo evidente.
La liturgia della Chiesa da sempre centralizza la riflessione in
questo mese sulle realtà ultime: la Resurrezione dei morti e la Comunione dei santi
ovverosia sul compimento definitivo della salvezza e delle promesse che il Cristo Re e
Salvatore, Giudice della storia opererà chiudendo la porta di questo mondo. Il regno di
Dio, inaugurato potentemente in fatti e parole dall'Annuncio, Morte e Resurrezione di
Gesù attende il giorno in cui l'umanità entrerà per sempre nel "luogo del
riposo" di Dio: il Paradiso, la nuova Terra promessa. La festa della Chiesa, che è
la festa dei santi, è appena iniziata!
E' la nostra fede, è la nostra speranza! Se questa non fosse la
meta, cosciente per ognuno di noi, del nostro pellegrinare nella storia potremmo dire con
san Paolo: "Se noi riponessimo la nostra speranza in Cristo soltanto in questa vita,
saremmo i più miserabili di tutti gli uomini" (I Cor 15, 19)
Eppure occorre prima attraversare il fiume! Bisogna attraversare
quella che l'autore del libro dell'Apocalisse (passo che abbiamo letto il primo novembre,
solennità di tutti i Santi, festa della Chiesa intera) chiama la grande tribolazione.
Cosa significa questa parolona che sembra rattristare la gioia? Come Gesù ci ha
insegnato, per vivere per sempre con Lui dovremo prima soffrire e morire, unire la nostra
morte a quella di Gesù per poter risorgere con Lui.
E allora il mese di Novembre è anche il mese in cui la Chiesa
commemora i suo figli che ci hanno preceduto nella fede e che dormono il sonno della pace
e che, come noi, attendono di essere svegliati dal torpore della morte perché la gioia e
la festa senza fine inizino per sempre. "Essi non avranno mai più né fame, né
sete, né li colpirà più il sole, né ardore alcuno; perché l'Agnello che sta in mezzo
al trono sarà loro pastore e li guiderà alle sorgenti dell'acqua della vita, e Dio
asciugherà ogni lacrima dai loro occhi" (Ap 7, 16-17).
Riflettiamo sulla malattia e la morte nella Bibbia grazie a questo
contributo di Lucia Magnolfi, dottoranda in teologia presso la Facoltà teologica
dell'Italia centrale, che ha sede a Firenze, pubblicato a puntate sulle colonne di
Castello 7, Lettera settimanale di informazione parrocchiale della Parrochia san Michele
di Castello (FI), nel mese di Marzo 2001. Ricordiamo sempre che il giornale è fruibile
online e vi rimandiamo ai nostri Link per l'indirizzo Web.
Vogliamo ringraziare l'autrice Lucia Magnolfi e
sopratutto don Paolo Aglietti che ci accompagna in questa nostra
avventura!!!
CERCATE ME E VIVRETE
L'uomo dell'Antico Testamento impara a vivere e a morire attraverso
un percorso lento e faticoso che non ha certo conosciuto uno sviluppo lineare e armonico.
Nella concretezza del suo esistere l'uomo biblico si rende conto che la morte fa parte del
ritmo vitale dell'esistenza umana così come di quella di ogni altro essere vivente. Non
è una riflessione da poco se si pensa che egli vive immerso in un mondo, come quello
cananeo, dove la morte è una divinità, il dio Mot.
Morire non significa per l'uomo dell'Antico Testamento cadere
nella sfera d'influenza di una qualche divinità, ma è segno della limitatezza e della
caducità umana.
L'espressione «Dio fa vivere e fa morire» (Dt 32,39; 1Sam 2,6 ecc.)
non è dunque l'affermare il terrore di una creatura che si vede in balia di una divinità
capricciosa, ma porre la fiducia che nemmeno la morte sfugge al dominio sovrano di Dio.
Tutto questo è da mettere in relazione ad un fatto molto importante e per certi aspetti
sconvolgente: il progressivo affermarsi di una religione monoteistica, cioè la fede in un
solo Dio, in un contesto culturale circostante affollato dalle divinità più disparate.
Ad una lettura superficiale questo sembra un dato scontato eppure ha richiesto un grosso
approfondimento teologico segnato anche da pesanti arresti.
L'intera storia d'Israele è posta sotto il comandamento
fondamentale che leggiamo nel libro dell'Esodo: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di
fronte a me... Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore,
sono il tuo Dio, un Dio geloso...» (Es 20,2.5). Se il grande peccato di Israele è andare
dietro gli idoli e disconoscere così la presenza del Signore in mezzo al suo popolo, si
comprende allora la particolare intransigenza proprio contro il culto dei morti e tutto
ciò che era in relazione con esso. Nella radicale demitologizzazione e desacralizzazione
della morte rispetto alle culture limitrofe, se c'è da una parte l'onore dato al defunto,
dall'altra si combatte ogni possibilità di attribuire ai morti poteri particolari o un
sapere superiore a cui attingere attraverso la negromanzia, cioè l'evocazione dei morti,
che era severamente vietata (Lv 19,31). Proprio per sottolineare la volontà di
esclusività di culto a Jahvè, si spiegano tutte le espressioni radicali della Bibbia che
vedono i morti esclusi addirittura dalla lode dovuta a Dio (Sal 115,17-18), e come tutto
ciò che era cadavere, cioè era entrato nella morte, rappresentasse il grado estremo di
impurità.
La rivelazione di un Dio che vuole stabilire un rapporto personale
con un popolo ben preciso segna profondamente la storia d'Israele: «Cercate me e
vivrete.» (Amos 5,9). Allora il rapporto che lega questo popolo al suo Dio, che è Dio
della vita, sarà soprattutto l'obbedienza della fede; tutta la storia che ne deriva non
sarà altro che una vicenda giocata e misurata su di essa.
L'uomo allora è veramente posto di fronte a due vie:
"obbedienza-benedizione-vita" sono una strada,
"disobbedienza-maledizione-morte" sono l'altra strada. L'alternativa è
chiarissima e il discernimento richiesto da Dio non ammette ambiguità come possiamo
leggere nel libro del Deuteronomio: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la
benedizione e la maledizione: scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza,
amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui
la tua vita e la tua longevità» (Dt 30, 19-20).
IL SALARIO DEL PECCATO
La crescita della conoscenza del senso della morte è per l'uomo
dell'Antico Testamento parallela alla crescita della coscienza del peccato. Ma c'è
veramente fra i due termini una relazione diretta di causa ed effetto, tanto da poter
affermare, in maniera assoluta che «la morte è il salario del peccato» come afferma san
Paolo nella lettera ai Romani (6,23)? Peccato e morte in effetti appaiono già collegati
fin dai primi capitoli della Genesi: siamo di fronte all'enigma sconcertante di un uomo
creato per la vita, messo subito alla prova nello spazio della libertà datagli da Dio e
caduto di fronte ad una potenza esterna, il Serpente, dietro al quale sta l'Avversario del
disegno di Dio, colui che vuole il ritorno della creazione al caos, all'abisso tenebroso
senza vita.
Leggendo con attenzione e di seguito i capitoli 3 e 4 del
libro della Genesi, ci rendiamo conto di un fatto importantissimo: Dio non punisce con la
morte coloro che trasgrediscono i suoi comandi e, del resto, la riflessione teologica
porterà a proclamare che Dio "non gode della morte dell'empio" (Ez 18,32;
33,11) ma vuole la sua conversione.
Se il morire fosse una punizione non si capirebbe come mai la
morte colpisca indistintamente giusti ed empi, come si comincia a intravedere dalle pagine
bibliche che riflettono in modo critico sulla "teoria della retribuzione".
Questa teoria affermata da tanti salmi prevede una sorte diversa per i malvagi rispetto a
chi è fedele a Dio, ma che drammaticamente il libro di Giobbe sembra mettere in
discussione. Di per sé la morte fisica è vista dall'uomo dell'Antico Testamento come una
necessità biologica, a cui tutti gli esseri viventi vanno incontro, non certo il castigo,
la conseguenza del peccato di Adamo voluta da Dio. Del resto la prima morte nella quale ci
imbattiamo aprendo le pagine della Bibbia è opera dell'uomo, è un fratricidio (Gen
4).C'è in questa vicenda dei due fratelli figli di Adamo, dell'uomo "tratto dalla
terra", una riflessione teologica importantissima: se la morte è stata creata da
qualcuno, questo qualcuno è un figlio di Adamo, questo qualcuno è l'uomo, non Dio.
Addirittura vediamo che di fronte a Caino ormai minacciato, debole, divenuto lui un
potenziale Abele, Dio manifesta la sua protezione, la sua misericordia: Dio solo è il
Signore della vita, anche della vita dell'omicida. E' usurpando la signoria sulla vita,
che appartiene soltanto a Dio, che l'uomo ha conosciuto il peccato sommo, e così facendo
ha introdotto nel mondo la morte, tanto che da allora peccato e morte vivono l'uno
dell'altra. Proprio in quella logica d'obbedienza come risposta all'Alleanza, a quella
comunione di vita che Dio offre al popolo che ha liberato dalla schiavitù d'Egitto, che
ha sostenuto nel deserto, che ha fatto entrare nella terra promessa, chi vuole procurarsi
la vita da solo senza Dio o contro Dio non solo è peccatore, ma è portatore di morte per
gli altri e per se stesso.
Solo nella conversione a Dio, con il rifiuto di ogni
idolatria, si riceve la vita e si vive pienamente. Così leggiamo nel profeta Osea:
«Venite, ritorniamo al Signore... Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà
rialzare e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,1-2).
E GESÙ, EMESSO UN ALTO GRIDO, SPIRÒ
Gesù, nato all'interno del popolo ebraico, appartiene all'esperienza
dell'Antico Testamento, ma nella sua vita e soprattutto nella sua morte si pone come
"novità" e risposta definitiva a quel lento cammino di comprensione che
l'uomo biblico ha compiuto faticosamente nel corso di secoli e che potremmo idealmente
situare tra due espressioni che gli evangelisti riportano proprio nel momento drammatico
della sua crocifissione: l'urlo disperato in Marco («Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» 15,34b) e le parole piene di speranza e di attesa in Luca («Padre, nelle
tue mani consegno (affido) il mio spirito» 23,46b).
In effetti queste due espressioni racchiudono tutta la vicenda
biblica della continua progressione nel tentare di capire il perché della morte. In
questa storia, sia della comprensione umana di quello che è la morte e il morire, sia
della Rivelazione che all'interno della Bibbia emerge sull'idea della morte -secondo
quella "pedagogia divina" (DV.15) che tiene conto delle realtà degli uomini e
del loro evolversi- non possiamo non riferirci alla morte esemplare, quella di Gesù.
Parlando però della morte di Gesù ci troviamo di fronte ad
una serie di "rischi", in cui può cadere ad una prima lettura chi inizi a
sfogliare le pagine del Nuovo Testamento e che vanno tenuti presenti. Non siamo infatti di
fronte ad un "super eroe" che va incontro alla morte senza temerla, né questa
è una pura conseguenza politica nei confronti di un "rivoluzionario". Non va
dimenticata infine la sua funzione "redentiva" . Non si può comprendere la
morte di Gesù se non si cerca di capire qual è il valore che egli ha dato alla vita,
soprattutto all'interno di quel trittico "io sono la via, la verità e la vita"
(Gv 14,6) inscindibile nelle sue parti, quasi una sorta di progetto che egli è venuto a
realizzare e che gli deriva dalla conoscenza particolare che ha di Dio. Per questo Gesù
non ha paura di cedere e non accetta compromessi di fronte ad un legalismo rituale che,
per seguire il culto, dimentica la misericordia e l'amore di Dio tante volte ricordati dai
profeti.
Gesù non è distaccato rispetto al dolore altrui; solidarizza
con le persone colpite da un lutto familiare: piange di fronte all'amico Lazzaro morto (Gv
11). Dobbiamo notare poi che, se anche l'evangelista Giovanni non racconta l'agonia di
Gesù come Marco, Matteo e Luca, in questo suo forte turbamento c'è come un segno
anticipatore, quasi che Gesù, davanti alla morte dell'amico, lucidamente vedesse la sua
morte. In questi pochi versetti Giovanni dà un concentrato drammatico di termini: «si
commosse profondamente, si turbò», «scoppiò in pianto», «profondamente commosso».
Il distacco della morte è sempre una lotta tra l'istinto
vitale che è in ognuno e quello che avverrà. Questa lotta c'è in tutti e c'e stata
anche in Gesù. Ecco allora che nell'orto del Getzemani anche Gesù nell'ora imminente
della propria morte sperimenta il "conflitto" tra la propria volontà e la
volontà del Padre e suda sangue (Lc 22,44). E' l'angoscia del fallimento, di chi muore
senza che il suo annuncio sia stato compreso e senza che i discepoli possano sostenerlo.
Sono talmente scandalose queste pagine della passione che non può certo reggere la tesi
di chi ha sostenuto che si tratti di un'invenzione della Chiesa nascente. Eppure sono
all'interno della Bibbia quasi a dar voce a quell'umanità sofferente che da sempre cerca
come può una risposta al "perché" del male, del dolore, della morte, che non
sia sola rassegnazione ad un destino ineluttabile. Di fronte a tutto questo il grido di
Gesù dalla croce, il suo capo reclinato, l'affermazione «Tutto è compiuto» sono come
in sintesi l'esperienza di un cammino che Gesù stesso ha dovuto affrontare:
dall'esperienza terribile dell'abbandono di Dio alla totale obbedienza nell'abbandonarsi
in Lui.
E' in quel momento, con l'ultimo grido di fronte alla morte,
che per Gesù e in lui, per tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo, si sono
realizzate le parole del salmo 16: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita. Non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che
il tuo santo veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella
tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra». |