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6. Gesto di fede o adempimento rituale? L'affermazione che la Messa è "culmine e fonte" di tutta l'esperienza cristiana ha portato negli anni del dopo Concilio ad una sorta di riscoperta della sua centralità, che a sua volta ha però prodotto un fenomeno strano. Si tratta di una sorta di "panmessite" per cui non può esistere incontro, avvenimento, conferenza religiosa, ricorrenza civile, militare, avvenimento familiare, perfino le scampagnate, senza una Messa! Ci sono dei momenti in cui è utile, bello, ma si arriva all'inflazione e alla banalizzazione della celebrazione Eucaristica! Va detto che, se ha la centralità e la
grandezza di cui abbiamo parlato, la Messa va anche preparata e pensata. Che senso ha per
un prete celebrare quattro o cinque Messe la domenica? E' possibile celebrarle senza
automatismi e pensando a ciò che si fa? E' davvero un servizio al popolo di Dio o
piuttosto alla sua pigrizia? E... i laici che vanno alla Messa solo se
c'è "il comodo"?. Molti si lamentano perché non c'è la Messa
"comoda" la domenica e, soprattutto, perché non ce n'è una breve!. Ma è
proprio vero che oggi spostarsi è un problema, visto che lo si fa per le ragioni più
banali? E la richiesta di brevità non denuncia forse l'assenza totale di partecipazione
consapevole?
7. La coscienza di essere popolo Il ricordo è evento comunitario: non è
una macchinetta automatica! Ciò che conta è la partecipazione attiva, come dice il
Concilio. E' chiaro che questo richiede un'educazione che bisogna anche darsi. Così la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo "mistero" di fede, ma che, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all'azione sacra consapevolmente, piamente ed attivamente, siano istruiti nella Parola di Dio, si nutrano alla mensa del Corpo del Signore, rendano grazie a Dio offrendo la vittima immacolata non soltanto per le mani del Sacerdote ma, insieme con lui, imparino a offrire se stessi e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore, siano perfezionati all'unità con Dio e fra di loro, in modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (SC. 47-48). Attraverso questo gesto, noi ricapitoliamo
tutta la storia della salvezza, e tutta la realtà. "Offrire a Dio tutto il
mondo" non è dire "la preghiera di consacrazione del mondo" perché è
Cristo il ricapitolatore (Ef.1,10). Si dice infatti: «Per Cristo, con Cristo e in Cristo,
a te Dio Padre Onnipotente, nell'unità dello Spirito Santo ogni onore e gloria per tutti
i secoli dei secoli». Il momento centrale della Messa non è la consacrazione, come di
solito si pensava, ma è questa offerta di lode e di ringraziamento che facciamo al Padre
per mezzo di Gesù Cristo. La consacrazione mira a questo. Se guardiamo alla struttura della Messa, ci accorgiamo che si arriva alla consacrazione attraverso un percorso, che è il percorso di Cristo: l'accoglienza della Parola, cioè la prima parte della Messa, che non a caso non si chiama più, come una volta, "Messa dei catecumeni", ma "Liturgia della Parola" ("liturgia" vuol dire "azione"). La Parola che si proclama (tra parentesi si tratta di una proclamazione, non di un biascicamento!) è annuncio che proclama con solennità un avvenimento di salvezza, non è una parola qualsiasi, ma "la Parola", e deve essere capace di provocare l'azione, deve agire: «come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata» (Is. 55,10-11).
8. La struttura della Messa e il suo significato La celebrazione della Messa costituisce un
vero e proprio percorso nella fede e della fede per giungere alla comunione con Cristo che
"si offre nelle nostre mani" e con il quale si viene offerti. La parola del prete celebrante (omelia) è importante perché in essa risiede l'ufficio del "presiedere" che è, potremmo dire, "il vero mestiere del prete" il quale esercita nell'omelia la funzione di interprete della Parola. Il celebrante, specie se il vescovo o il parroco, è il pastore che riunisce il gregge, con tutta la responsabilità, il peso e anche la gioia di esserlo. Egli presiede e cerca di tradurre la Parola per incarnarla nella concretezza dell'oggi. L'omelia quindi non può essere un discorso solo morale, non è la spiegazione del Vangelo (certo occorrerà anche una spiegazione) ma sarà soprattutto l'indicare una meta all'Assemblea. L'omelia non è neppure l'esegesi dei brani, anche se bisogna che il celebrante conosca bene l'interpretazione storico-filologica dei testi che ha davanti. Ecco perché è necessario che l'Assemblea liturgica non sia un'accozzaglia di persone (si pensi alle Messe dei luoghi di villeggiatura), ma è necessario che ci sia il popolo di Dio, che il celebrante conosce e del quale è pastore. Quindi la messa presieduta da un prete che viene paracadutato da chissà-dove non ha la stessa evidenza di significato di quella del Parroco, come ha poco senso andare alla Messa per "ascoltare l'omelia" di un certo oratore, magari celebre. La Messa è della comunità cristiana, che è strutturata con Parroco, fedeli etc. La Liturgia della Parola conduce alla Liturgia Eucaristica. Non ha evidentemente alcun senso il vecchio detto "basta arrivare quando il calice è coperto" come non ha senso parlare di Messa "valida" o non "valida": alla Messa o si partecipa o non si partecipa. Arrivare tardi alla Messa è un problema di educazione e di attenzione agli altri. Così come è un problema di educazione non andar via prima che la Messa sia terminata. Accolta la Parola, essa agisce in me e provoca la fede ed ecco la cerniera fra le due parti: il "Credo". Dalla fede nasce il ringraziamento: «E' veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza ringraziare sempre e dovunque te, Signore, Padre Santo...». «Per Cristo, nostro Signore (perché è Cristo il centro), il quale (e scatta la memoria) prese il pane, lo spezzò e lo benedisse...». Possiamo immaginare che Gesù, celebrando il rito della Pasqua ebraica con i discepoli, abbia detto: «Questo è il pane dell'afflizione, che i padri nostri mangiarono in terra d'Egitto: chi ha fame venga e mangi; chi ha bisogno venga e faccia Pasqua» e che poi abbia prolungato la memoria nel suo presente dicendo che il pane dell'amarezza «è il corpo dato per voi». Il segno della morte e della schiavitù, diventa così il segno della morte dei padri da Abele fino a Cristo e da Cristo in poi: è «il corpo dato». Il pane spezzato annuncia dunque la memoria della morte di Cristo; e in Cristo ogni morte viene riassunta dal pane spezzato. Così chi partecipa al Corpo di Cristo partecipa alla sua morte e «Mangia e beve la morte e la Resurrezione di Cristo». Se il pane è la morte, il vino è il sangue dell'alleanza che rinnova quella di Mosè. Nuova alleanza e nuova bevanda, gioia di essere il popolo salvato che, entrato nella terra, brinda con il vino della novità di ciò che la terra, dove scorre latte e miele, offre per dono di Dio. Il pane spezzato e il vino della gioia diventano segno della morte e della Resurrezione di Cristo e, in Cristo, per Cristo e con Cristo, di tutti noi. Il pane e il vino, il Corpo e il Sangue, esplicitano questi due momenti: la morte e la Resurrezione, il pane segno di morte, il vino segno di vita. Concludiamo con San Paolo, dicendo: «Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna». Non si tratta di sapere se uno si è confessato o no, ma se il gesto della memoria è compiuto senza la fede che lo situa all'interno del Corpo di Cristo. Chi agisce così compie una falsità: afferma di essere Corpo di Cristo e non lo è. Mangia e beve la propria condanna perché quel gesto senza la memoria del Corpo e del Sangue del Signore è gesto falso, non provoca comunione ma separazione, non porta vita ma morte. Ci si pone infatti fuori dal Corpo di Cristo perché non lo si è riconosciuto.
9. Il giorno del Signore Il tempo segna la crescita del progetto di Dio nel mondo. Nella Scrittura il tempo che trascorre segna dei punti di riferimento precisi: differentemente dal tempo del mondo greco, che scorre ciclicamente nell'eterno ricorso delle cose (panta rei=tutto scorre), il tempo dell'uomo biblico è un cammino che scandisce gli interventi di Dio nella storia ed è finalizzato alla realizzazione del suo disegno. Il fluire del tempo non è quindi solo la
misura del trascorrere delle ore, né soltanto una dimensione dell'uomo, ma è il segno di
una presenza che si manifesta nella storia e la finalizza: dalla prima Parola creatrice di
Dio (la prima pagina della Bibbia è una sorta di consacrazione del tempo; cfr. Gen.
1,1-2,4a) alla fine del tempo nella Gerusalemme celeste, secondo il racconto
dell'Apocalisse. Il tempo allora investe sì tutte le cose dell'uomo e le cose dell'uomo
si configurano all'interno del tempo, però il tempo appartiene a Dio e nel tempo Dio
agisce. In quest'ottica San Paolo dice, scrivendo
ai cristiani di Colossi (2,16), che da ora in avanti nessuno più deve preoccuparsi di
calendari perché ormai siamo entrati in un tempo definitivo e quindi non ci sono più
lune, né feste, né scadenze. A questo giorno pasquale tutte le altre celebrazioni e feste fanno riferimento. Il Battesimo è inizio di questo cammino, la Messa è annuncio e "caparra" (Ef. 1,14) di questo avvenimento e della pienezza, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15,28; SC 48) quando noi saremo uniti a Cristo e le porte della Gerusalemme celeste si spalancheranno al nostro arrivo (si spera!). Mentre trascorre il tempo noi celebriamo
sempre quest'unico avvenimento, visto da angolazioni diverse, secondo il nostro procedere
nel tempo, e secondo il crescere della nostra comprensione ed esperienza. Non è vero che
tutte le nostre Pasque sono uguali, perché ogni Pasqua dovrebbe essere diversa. Noi
celebriamo sì lo stesso mistero, ma se la nuova Pasqua non segna un progresso nel cammino
cristiano, vuol dire che il tempo e il dono di Dio non hanno sortito in noi alcun effetto
e l'impegno cristiano è stato per noi solo l'osservanza di un dovere morale. Il Cristiano
infatti non è chiamato ad osservare una legge, ma a fare un cammino. Nel racconto del libro della Genesi, i sei giorni di "lavoro" di Dio individuano il crescere e il progredire della creazione. L'ultimo giorno, il sabato, è il tempo della contemplazione dell'opera di Dio, è il giorno del silenzio e del riposo. Silenzio come contemplazione, attesa, quasi che, terminato tutto, ci fosse un momento di stasi prima di ricominciare. E' il tempo che i Vangeli affidano alla permanenza di Cristo nel sepolcro. E' il tempo del silenzio e dell'inoperosità, il momento in cui tutto si ferma: l'Ebreo dice che "si ferma e poi ricomincia" perché il giorno dopo il sabato tutto ricomincia. Il Cristiano festeggia non il primo giorno della settimana, ma «il primo dopo il sabato» (Gv. 20,19), perché dopo l'attesa e il silenzio, c'è una cosa nuova, una nuova creazione. Il giorno dopo il sabato Cristo esce dal sepolcro ed entra nella pienezza della vita del Padre. E' davvero una festa quella che noi celebriamo nel giorno del Signore, cioè nel "dies dominica", che non è il giorno del riposo, ma della festa (non si tratta né del sabato=giorno del riposo, né tanto meno del fine-settimana=week-end). Il giorno dopo il sabato è il giorno della visione del Risorto è il giorno in cui «gli occhi si aprirono» come racconta l'esperienza dei discepoli di Emmaus (Lc. 24,31). Questo è tanto vero che la settimana diventa di otto giorni (nella liturgia si celebrano le "ottave"). I cristiani non celebrano la settimana della creazione, ma quella della nuova creazione. Non riposano il sabato per la fatica della settimana, ma partono il giorno dopo il sabato verso la meta pasquale. Questo è il senso del celebrare la Pasqua e la domenica. Come recuperare un po' di questo spirito?
Nella storia della Chiesa molti sono stati perseguitati e uccisi per aver voluto
partecipare alla Messa domenicale: forse oggi noi cristiani ci dovremmo vergognare. Al termine del documento, i preti del Vicariato di Rifredi hanno formulato alcune considerazioni pratiche di carattere più strettamente tecnico e alcune proposte specifiche. Le riassumiamo in questa nostra conclusione.
10. Concludendo. Perché il contenuto di questo documento si
rivesta di concretezza sarà necessario che le nostre celebrazioni domenicali tendano a
divenire segno della gioia pasquale e annuncio di resurrezione. Il sacrificio di
Cristo è infatti nella tradizione liturgica "sacrificium laudis" (sacrificio
della lode). Dove la lode e il ringraziamento salgono a Dio perché «è veramente cosa
buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a
Te, Padre santo, per Gesù Cristo tuo dilettissimo figlio» (II Preghiera Eucaristica). Fa
pena vedere come molti cristiani preferiscano o addirittura ricerchino le messe
"brevi", talvolta approfittando della salute malferma o della anzianità dei
preti per "levarsi il pensiero". Abbiamo eredità pesanti. Il concetto di
salvezza visto esclusivamente come "salvezza dal giudizio di Dio" nell'al di
là, secondo la visione tardo medioevale e quella devozionale dell'inizio del secolo
scorso, ha spinto ad essere attenti non alla vita cristiana, ma alla morte cristiana,
concentrando tutta l'attenzione sugli ultimi momenti, gli ultimi sacramenti, l'estrema
unzione, il suffragio dei morti... tanto che molti ancora oggi pensano che la Messa si
dica "per i morti", né sanno immaginare intenzioni diverse da quelle del
suffragio. In questo modo tra il di qua e l'al di là,
come ci si esprimeva, c'era una opposizione insanabile, che ha portato a separare la
morte dalla risurrezione, sia in Cristo che nei credenti. All'opposto l'aver riscoperto il valore di
questa vita, dell'impegno cristiano e di una salvezza da proporre anche nell'al di qua,
sta facendo dimenticare sempre più, non solo la lode di Dio, ma anche la dimensione
"altra" della fede in Cristo e l'attesa della resurrezione riducendo la Messa a
"tempo sprecato". C'è la necessità di un lavoro di ricerca
rigoroso e paziente a cui nessuno può sottrarsi, pena l'insignificanza delle
celebrazioni. Ognuno dovrà fare la sua parte dal celebrante che sicuramente è il più
responsabile, e dovrebbe essere anche il più avvertito, ad ogni cristiano. Dovremo sempre più entrare nell'ordine di idee che una celebrazione non è qualcosa a cui si assiste, ma un'evento a cui si partecipa ciascuno con le proprie capacità e con le proprie caratteristiche. Non è uno spettacolo "da godere", ma un gesto vitale in cui ciascuno è protagonista insieme con Cristo. Allora davvero la festa sarà festa, e l'Eucarestia davvero annuncio pasquale. |
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