Dagli
esordi ai primi capolavori
Quando nel 1894 la rivista
naturalista «Die Gesellschaft» pubblicò il suo primo racconto,
Perduta, Thomas Mann aveva diciannove anni, viveva a Monaco e
lavorava come volontario presso una compagnia di assicurazione. Gli
addetti ai lavori - e in particolare il poeta R. Dehmel -
incoraggiarono il giovane scrittore, invitandolo a collaborare a
diverse riviste letterarie; l'interesse suscitato da quel suo primo
racconto lo spinse a lasciare il lavoro in ufficio e ad abbracciare
definitivamente la carriera letteraria.
Lubecca
Paul Thomas Mann era nato a Lubecca, la città anseatica di
antiche tradizioni commerciali, il 6 giugno 1875, figlio di Thomas
Johann Heinrich Mann, titolare di una florida ditta di commercio in
granaglie, e di julia da Silva-Bruhns, nata in Brasile da un
piantatore tedesco e da una creola-portoghese. Dopo la morte del
padre, nel 1891, e la liquidazione della società (preso atto con
notevole acume che i due figli maggiori, Heinrich e appunto Thomas,
non si sarebbero occupati della ditta ma avrebbero seguito le loro
tendenze artistiche, Mann padre nel testamento aveva predisposto in
tal senso), la madre si trasferì a Monaco con i figli più piccoli.
Thomas rimase a Lubecca per completare gli studi, raggiungendo la
famiglia nel 1893; non essendo ancora maggiorenne, il suo tutore
decise che doveva fare esperienza presso la citata compagnia di
assicurazioni, dove rimase per circa un anno. Fu questa l'unica
volta in cui Thomas Mann ebbe un lavoro "normale".
L'apprendistato letterario
Come gran parte delle opere giovanili Perduta rivela l'influsso
dello scrittore e saggista francese Paul Bourget e più in generale
delle tematiche tardo-naturaliste e decadenti, con una particolare
attenzione per il fatto psicologico. Il racconto si inserisce quindi
alla perfezione nell'atmosfera culturale dell'ultimo decennio del
secolo e tutto sommato non esce dagli schemi suggeriti dal gusto
dell'epoca. Il periodo di apprendistato letterario del giovane
Thomas fu tuttavia assai breve e i singoli tentativi di questi anni
confluiranno ne Il piccolo signor Friedemann (1897), la prima opera
di valore dello scrittore. Il racconto propone una tematica che
tornerà spesso in seguito: il desiderio insopprimibile di
assaporare sino in fondo la vita distrugge la "piccola"
felicità, il tranquillo epicureismo di un'anima rassegnata alla sua
inferiorità fisica.
l Buddenbrook e altro
Nell'autunno 1896 Thomas Mann si trasferì per un anno e mezzo
in Italia con il fratello Heinrich, soggiornando soprattutto a Roma
e a Palestrina. E proprio in Italia, sollecitato dall'editore S.
Fischer che stava per pubblicare il suo primo volume di racconti,
iniziò la stesura de I Buddenbrook: l'opera verrà condotta a
termine dopo il ritorno in Germania e apparirà nell'ottobre del
1901.
Non vi è dubbio che nel romanzo confluirono non pochi elementi
autobiografici e lo stesso Thomas Mann confessò in seguito che non
avrebbe potuto scriverlo se il padre fosse stato ancora in vita.
Come per ogni opera d'arte letteraria, tuttavia, anche in questo
caso vale il discorso che essa è tale solo se e in quanto riesce a
superare l'elemento autobiografico e ad assumere una valenza
generale. E I Buddenbrook, al di là del fatto che gran parte dei
buoni cittadini di Lubecca con grande scandalo vi si vide
rappresentata (i librai, sottobanco, offrivano un elenco dei modelli
reali dei personaggi), illustrano davvero la crisi spirituale della
borghesia tedesca e più in generale europea. Una borghesia
mercantile che era stata sconfitta a livello politico nel 1848, che
aveva subito il processo di unificazione bismarckiano sotto l'egida
della Prussia, e che con l'avanzata dell'industrializzazione stava
ormai perdendo la propria secolare posizione di preminenza. Thomas
Buddenbrook è in un certo senso l'ultimo rappresentante di una
classe che credeva ancora in valori come l'onestà e la rettitudine
e che aveva fatto proprio il motto degli antenati: «Concludi solo
quegli affari su cui la notte puoi dormire tranquillo». I borghesi
della nuova generazione, gente come gli Hagenstróm ad esempio, di
questi precetti non sanno che farsene, la dimensione etica degli
affari è loro del tutto estranea: dormono sempre sonni tranquilli,
anche quando le loro transazioni commerciali non sono proprio
limpidissime. La nuova borghesia tedesca rifiuta l'eredità
umanistica, non sente più il bisogno di trovare una giustificazione
etica alla propria attività: i guadagni si giustificano da sé, non
necessitano più di una motivazione esterna. Partendo da questi
presupposti Thomas Mann compie un ulteriore passo affermando che il
distacco fra etica e vita porta con sé anche il distacco fra arte e
vita: le due entità procedono ormai lungo itinerari diversi e
divergenti. Da qui nasce il dramma dell'artista borghese, che è
tale perché proviene dalle file della borghesia, ma che dalla
borghesia in fondo viene respinto (Tonfo Króger verrà definito un
«borghese sviato»), e da qui nascono gran parte dei problemi
dell'arte moderna, anch'essa costretta a trovare in se stessa la
propria autonoma ragion d'essere.
Su queste antitesi di fondo Mann innesta i temi sperimentati nei
primi racconti. Anche nei Buddenbrook appare evidente l'influsso di
Bourget nonché quello di Nietzsche, che Mann seguì nel
tratteggiare la psicologia del dissolvimento. A Schopenhauer risale
invece l'idea del superamento del dolore attraverso la negazione
della volontà di vita: un concetto che s'innesta perfettamente
nella descrizione della decadenza della famiglia Buddenbrook.
La grandezza epica del romanzo in parte è dovuta alla vastità del
materiale e alla straordinaria perizia con la quale lo scrittore
tiene le fila di una vicenda che si dipana per quattro generazioni.
I Buddenbrook presentano una struttura a piramide, con una base
gremita di personaggi che via via scompaiono, sino a quando anche
Hanno, l'ultimo esponente, non riposerà «laggiù al margine del
boschetto, sotto la croce di marmo e lo stemma di famiglia».
Elemento di coesione primario sono i cosiddetti Leitmotive, cioè
quegli elementi significatori che vengono evocati ogni qualvolta
appare un personaggio: si pensi in questo senso a Christian e ai
suoi nervi «troppo corti sul lato sinistro», al labbro sporgente
di sua sorella Tony o alle peculiarità linguistiche di altri
personaggi. La principale "grandezza" del romanzo va però
ricercata, come scrive il germanista C. Cases, soprattutto «nella
capacità di far discernere all'interno della vita privata le forze
direttrici della vita pubblica, l'evoluzione storica e le idee e i
principi in cui essa si riconosce». È quindi la coincidenza
pressoché perfetta fra «dimensioni interne ed esterne dei
personaggi» a conferire «loro una monumentalità che non potrà più
ripetersi e che determina la compattezza ottocentesca e quindi la
popolarità del libro».
Il romanzo venne accolto molto favorevolmente dalla critica e, dopo
un avvio assai lento (le mille copie della prima edizione furono
vendute in un anno), anche dal pubblico: quando nel 1929 Thomas Mann
ebbe il premio Nobel, in breve tempo, nella sola Germania se ne
vendettero un milione di copie. Il successo si spiega anche con il
fatto che, subito dopo, lo scrittore pubblicò due racconti (o
romanzi brevi) che consolidarono la sua fama e che vanno annoverati
fra i migliori della letteratura tedesca: Tonio Króger e La morte a
Venezia. I loro protagonisti, gli scrittori Tonio Kròger e Gustav
von Aschenbach, hanno sicuramente molti tratti in comune; ma questa
affinità spirituale non è tale da cancellare profonde divergenze.
Mentre il primo è alla ricerca di un equilibrio borghese in grado
di arginare le tendenze autodistruttrici presenti in, lui, e con
questo obiettivo si reca al Nord, il secondo segue il processo
inverso e dopo un'esistenza vissuta all'insegna della disciplina,
nella vita come nell'arte, si sente irresistibilmente attratto dal
"meridione", e più in particolare da Venezia, una città
fatiscente, dominata dal colera. Il percorso di Tonio Króger
conduce quindi verso una sintesi fra arte e morale, quello di
Aschenbach verso la dissoluzione della dignità dell'artista nella
voluttà di eros e tbanatos. Anche i personaggi collaterali sono
antitetici. Certo Tadzio è biondo e ha gli occhi chiari al pari
della coppia Hans Hansen/Ingeborg Holm, ma mentre questi sono
rappresentanti del rassicurante equilibrio borghese, Tadzio,
l'adolescente bellissimo che sconvolgerà la vita di Aschenbach, è
già segnato dallo sfacelo fisico. Apparsi rispettivamente nel 1905
e nel 1912 i due racconti riproponevano quindi ad altissimo livello
letterario il grande tema del conflitto tra arte e vita, tra dignità
borghese e liberazione degli istinti: ma se in Tonio Kroger Thomas
Mann configurava una possibile sintesi tra le due sfere, in Morte a
Venezia il conflitto si risolve tragicamente.
Verso la prima guerra mondiale
Nel 1905 Thomas Mann sposò Katharina Pringsheim, appartenente a
una delle famiglie più in vista di Monaco, dalla quale avrà sei
figli. Con il matrimonio egli fece confluire la propria esistenza
d'artista, costantemente esposta - come testimoniano le lettere di
questi anni - ai pericoli della dissoluzione, nei binari di quella
fertile e operosa rettitudine che era il patrimonio più autentico
ereditato dalle tradizioni familiari lubecchesi.
Agli anni che precedettero la prima guerra mondiale risalgono
Altezza reale, il secondo romanzo di Thomas Mann - nel quale il tema
nietzschiano dell'isolamento dello spirito nella società, il
conflitto dunque fra arte e borghesia, è trasferito, anche a scopi
parodistici, sullo sfondo di una corte tedesca - e i primi progetti
de La montagna incantata, la cui stesura venne interrotta dalla
guerra, un evento che impose allo scrittore pressanti motivi di
riflessione e aprì un periodo di profondo travaglio intellettuale e
personale.
Thomas Mann si dichiarò subito favorevole al conflitto, aderì con
decisione al movimento nazionalistico, e in numerosi scritti - fra i
quali i Pensieri di guerra del 1914 e soprattutto le Considerazioni
di un impolitico del 1918 - polemizzò con le posizioni pacifiste e
"antitedesche" degli ambienti culturali democratici.
Anticipando il saggio di O. Spengler Il tramonto dell'occidente (che
fu uno dei testi cui fecero riferimento i nazionalsocialisti), alla
"Zivilisation" di matrice francese Thomas Mann
contrapponeva la "Kultur", espressione profonda e
irrinunciabile dell'animo tedesco (per il Thomas Mann del 1914
"Kultur" è la forma di vita dei popoli giovani, ha come
scrive L. Mittner, «un carattere di ritualità regolatrice
l'istinto primordiale» mentre "Zivilisation" è la forma
di vita dei popoli vecchi, « è infiacchimento democratico,
scetticismo livellatore, decadenza intellettualistica»). Come ebbe
a dire lo stesso Mann qualche anno più tardi, la sua era una «battaglia
di ripiegamento», i tentativo di rimettere in qualche modo ordine
nelle proprie categorie di pensiero non solo politico; un'opera di
riassestamento che proseguì anche dopo la guerra e i cui
provvisorio punto d'arrivo fu il discorso Della repubblica tedesca
tenuto a Berli no nel 1922, che segnò il passaggio delle sue idee
politiche verso una concezione democratico-borghese.
La montagna incantata
E sullo sfondo di questo lavoro di revisione che va analizzato
il terzo romanzo dello scrittore, La montagna incantata, una delle
opere più suggestive di tutta la letteratura del '900, in cui
confluirono, rivisti e corretti, molti temi delle Considerazioni. È
riproposta, nei personaggi di Naphta, l'ebreo gesuita, e di
Settembrini, il massone democratico, l'opposizione tra "Kultur"
e "Zivilisation"; ma Hans Castorp, il protagonista, non è
disposto a seguirli fino in fondo: certo nei confronti
dell'esponente della "Zivilisation" non c'è più
quell'acredine che aveva caratterizzato le Considerazioni, e anzi
Settembrini è fra i personaggi più simpatici del romanzo; il suo
bagaglio ideologico tuttavia, che è poi quello della borghesia
progressista, appare superato e velleitario, e nelle discussioni
politiche è spesso Naphta, il suo antagonista, a spuntarla. In
quest'ultimo, d'altro canto, nel discepolo del romanticismo tedesco
e di Nietzsche, si presentano tratti di fanatismo che non esitiamo a
definire di tipo fascista. Il suo suicidio indica che Hans Castorp
non ritiene percorribile nemmeno questa strada. Per sopravvivere
sceglierà una via mediana: la sua voglia di sperimentare, la sua
curiosità, il suo interesse per la malattia e la morte sono
espressione di un profondo interesse per la vita: «Per rispetto
alla bontà e all'amore l'uomo ha l'obbligo di non concedere alla
morte il dominio dei propri pensieri».
Grande protagonista "occulto" del romanzo è il tempo.
Castorp, recandosi a trovare suo cugino ricoverato in sanatorio,
pensa a una visita di tre settimane: il suo soggiorno durerà invece
sette anni. Chi vive nell'aria rarefatta di Davos, sperimenta il
tempo in termini diversi rispetto a chi vive «in pianura»: esso
acquista una dimensione più propriamente interiore, alla quale
Thomas Mann ha conformato anche la struttura del romanzo, diviso in
due parti di uguale lunghezza. La prima narra i primi sei mesi di
soggiorno, mentre la seconda descrive complessivamente sei anni e
mezzo. Un'asimmetria che corrisponde appunto al modo in cui il
trascorrere del tempo è soggettivamente percepito dal protagonista.
In questo senso La montagna incantata si ricollega ad altre due
opere fondamentali della letteratura moderna: la Ricerca del tempo
perduto di Marcel Proust e l'Ulisse di James Joyce (che risalgono
rispettivamente agli anni 1913-27 e al 1922).
Le differenze rimangono tuttavia profonde, perché Mann anche in
questo caso restò sostanzialmente fedele alla tradizione
ottocentesca e non usò questo modo di intendere il tempo, che in
termini bergsoniani definiremmo "durata", come principio
compositivo. Anzi, egli in un certo senso rovesciò l'intera
questione, recuperando nella problematica dell'esperienza soggettiva
del tempo quella del tempo oggettivo: Hans Castorp, si dice
all'inizio. del settimo capitolo, non sa più da quanto tempo si
trovi lassù a Davos, apparentemente ha perso, come gli altri
pazienti del sanatorio, ogni riferimento con quanto avviene giù «in
pianura». Ma poiché il sanatorio è un'Europa in miniatura, un
microcosmo in cui sono presenti tutte le contraddizioni del mondo
reale, ecco che il tempo torna ad avere entrambe le valenze, e il
romanzo sarà un «romanzo del tempo» nel duplice significato del
termine: «romanzo del tempo» soggettivo di Castorp, e «romanzo
del tempo» nel senso di romanzo della propria epoca.
Per un altro aspetto invece La montagna incantata, e anche gran
parte dei successivi romanzi, ruppe con gli schemi ottocenteschi (e
quindi anche con I Buddenbrook): per l'inserimento nel tessuto
narrativo di veri e propri saggi sugli argomenti più diversi di
ordine scientifico, morale, politico.
Sin dalla pubblicazione nel 1924, La montagna incantata, proprio
perché ricapitolava e riassumeva le problematiche che avevano mosso
le coscienze europee negli ultimi decenni, suscitò un vastissimo
interesse anche al di fuori dei confini tedeschi. Thomas Mann si
proponeva nella nuova veste di autore europeo, come momento di
mediazione, anche politica, fra diverse sfere culturali (e a
spingerlo in questa direzione contribuì anche il premio Nobel,
conferitogli nel 1929). In una fase di grande effervescenza - in
Germania sono gli anni della Repubblica di Weimar - lo scrittore
accettò di buon grado il ruolo (da più parti contestatogli) di
massimo rappresentante della cultura tedesca. Era questa una
posizione che indubbiamente gli si confaceva e che in un certo senso
lo divertiva e appagava. In fondo non faceva che riproporre il ruolo
che suo padre aveva avuto a Lubecca: come questi, in frac e
cilindro, aveva partecipato alle sedute del senato della città-stato,
così Thomas Mann, anche lui spesso in frac, partecipava a convegni,
conferenze, dibattiti.
Giuseppe e i suoi fratelli
Questa fase segna non a caso il distacco dalla «triplice
costellazione Schopenhauer, Nietzsche, Wagner» che aveva
caratterizzato gli esordi e l'accostamento alla figura e all'opera
di Goethe, l'altro grande rappresentante della cultura tedesca, al
quale Mann dedicò numerosi saggi, fra cui Goethe quale
rappresentante dell'epoca borghese (1932). E furono proprio alcune
reminiscenze goethiane (oltre a due soggiorni in Egitto) a
suggerirgli il tema di Giuseppe e i suoi fratelli, le cui quattro
parti, iniziate nel 1926, vennero condotte a termine nel 1943. La
scelta di narrare, nel clima di montante antisemitismo di quegli
anni, le vicende di un "semita" (perché tale è il
Giuseppe dell'Antico Testamento), aveva un che di provocatorio. A
proposito della sua tetralogia Mann scrisse infatti che «il mito
venne tolto dalle mani del fascismo e "umanizzato" perfin
nel più riposto cantuccio della lingua, e se i posteri troveranno
qualcosa di notevole in quest'opera sarà appunto questo». In nome
dell'umanità lo scrittore agisce quindi contro la mistificazione
fascista che si serviva di altri miti (germanici) per rendere
credibile la propria azione politica, proponendo, al contempo, un
"non-ariano" come protagonista. Questa umanizzazione
avviene attraverso lo strumento dell'ironia, che pervade la vicenda
a tutti i livelli, da quello narrativo a quello linguistico.
A proposito della Montagna incantata si è detto che era globalmente
caratterizzata dal placet experiri del protagonista e dalla sua
posizione mediana. Nel nuovo romanzo le antitesi nelle quali ancora
si era dibattuto Hans Castorp vengono riprese con l'obiettivo
dichiarato di condurle a un superamento. Giuseppe è l'emblema di
questa rinnovata immagine dell'essere umano, di questa umanità
sublimata in cui «spiritualità e materialità si congiungevano
esaltandosi l'un l'altra».
Le reiterate prese di posizione a favore della Repubblica di Weimar
avevano ormai reso inviso lo scrittore ai nazionalsocialisti; il
pretesto per un attacco in grande stile fu la conferenza Dolore e
grandezza di Richard Wagner, tenuta a Monaco ai primi di febbraio
del 1933 (Hitler era stato nominato cancelliere qualche giorno
prima, il 30 gennaio); i nazionalsocialisti accusarono lo scrittore
di avere offeso un grande artista tedesco e così tradito la causa
della Germania. Mann, che aveva lasciato Monaco, la città dove
abitava, per un giro di conferenze in vari paesi europei, avvertito
dai figli circa i pericoli che avrebbe corso tornando in patria,
decise di rimanere all'estero, stabilendosi dapprima in Francia e
successivamente in Svizzera, a Zurigo: non tornò mai più a vivere
in Germania.
L'esilio
La prima e la seconda parte del romanzo
biblico (Le storie di Giacobbe e Il giovane Giuseppe), apparse
rispettivamente nel 1933 e nel 1934, poterono essere ancora
pubblicate in Germania; la terza (Giuseppe in Egitto, 1935) e la
quarta (Giuseppe il nutritore, 1943) uscirono invece all'estero. La
posizione dello scrittore nei primi anni del fascismo non fu priva
di ambiguità: alla decisione di non tornare in patria non fece
seguito un'esplicita condanna del regime hitleriano e Mann fu forse
l'unico grande scrittore in esilio che continuò, almeno per qualche
tempo, a pubblicare i suoi libri in Germania. La sua prudenza suscitò
non poche polemiche fra gli esuli (fra i quali il figlio Klaus,
attivamente impegnato nella. lotta antinazista), che si
consideravano i rappresentanti della Germania autentica, i veri
depositari delle tradizioni culturali del paese. I
nazionalsocialisti fecero anche qualche tentativo per convincerlo a
tornare, in quanto il suo rientro in patria avrebbe rappresentato
una grande vittoria propagandistica. Solo nel 1936-37, ormai privato
anche della cittadinanza tedesca, uscì allo scoperto e si dichiarò
solidale con gli altri scrittori emigrati. Nel 1938 si trasferì
negli Stati Uniti, dapprima a Princeton e poi, nel 1941, a Pacific
Palisades, in California.
Fra il III e il IV volume della tetralogia si inserisce il romanzo
Carlotta a Weimar, pubblicato nel 1939. Al centro della narrazione
era posto ancora una volta il tema dell'isolamento dell'artista, che
tuttavia in quel contesto storico assumeva una valenza particolare e
diversa da quella che aveva avuto in passato nell'opera manniana:
l'isolamento di Goethe, la sua ammirazione per Napoleone e la sua
estraneità di fronte ai movimenti "patriottici"
dell'epoca vanno visti in relazione all'isolamento dello stesso Mann
(e degli altri esuli) di fronte al "patriottismo"
nazionalsocialista. Goethe assume qui caratteristiche tipicamente
manniane: diventa cioè l'artista che annienta le esistenze che gli
sono vicine (è anticipato qui il dramma di Adrian Leverkúhn nel
Doctor Faustus) e che deve rinunciare alla vita per realizzarsi in
quanto artista (che è il tema del dialogo centrale del Tonio Króger).
L'impegno politico
Nelle conferenze tenute in questi anni ('.fra cui .La Germania e
i tedeschi) ai motivi strettamente letterari si affiancarono in
misura crescente quelli di ordine politico. Mann si schierò
apertamente contro la politica neutralista americana e dopo lo
scoppio della guerra iniziò un'intensa attività di propaganda
anti-nazista rivolta, attraverso la BBC, ai radioascoltatori
tedeschi. In California si rifugiarono molti intellettuali e artisti
tedeschi; oltre allo stesso Thomas Mann, suo fratello Heinrich,
Bertolt Brecht, il filosofo Theodor W. Adorno (del cui aiuto Mann si
valse per la parte musicologica del Doctor Faustus), il musicista
Arnold Schònberg, per citarne sola alcuni. Non costituirono però
un unico fronte anti-nazista: le divergenze politiche e ideologiche,
poniamo fra Thomas Mann e Brecht, erano profonde negli anni Venti e
Trenta e rimasero tali anche durante l'esilio. Un esempio in questo
senso fu la questione della cosiddetta "colpa collettiva"
del popolo tedesco; vi era chi come Brecht appunto, e altri
esponenti marxisti che consideravano il fascismo una naturale
conseguenza del capitalismo e proponevano un'analisi di classe del
conflitto - distingueva tra popolo e governo, attribuendo a
quest'ultimo e ai gruppi sociali che lo sostenevano la responsabilità
della tragedia. Thomas Mann parlò invece ripetutamente di una colpa
collettiva dei tedeschi: non respingeva le tesi marxiste, tuttavia
inseriva nella sua analisi anche un elemento più strettamente
culturale, individuando in alcuni fatti della storia della cultura
germanica profondamente radicati nel popolo tedesco i presupposti
del nazismo; tutti i tedeschi erano quindi responsabili dei crimini
del regime hitleriano, tanto più che in Germania non si intravedeva
la benché minima forma di resistenza.
Il Doctor Faustus
Fu in questo clima che nel 1943 Mann iniziò le ricerche
preliminari al Doctor Faustus, il romanzo che uno studioso della
cultura tedesca, Hans Mayer, ha definito il «libro della fine»,
nel senso che esso, nel seguire l'evoluzione spirituale del
musicista Adrian Leverkuhn e la più recente storia della Germania,
descrive veramente la fine di un lungo periodo storico apertosi con
Martin Lutero e la riforma protestante; Lutero - afferma Mann nella
citata conferenza La Germania e i tedeschi, che a livello tematico
è strettamente legata al romanzo - è il primo responsabile del
provinciale isolamento dei tedeschi, un isolamento pieno di
pericoloso orgoglio che li esclude dal progresso civile dell'Europa
e che è all'origine del nazionalismo tedesco. Storicamente questo
nazionalismo si collega alla cosiddetta "Innerlichkeit"
(interiorità) del popolo tedesco, alla sua sin troppo esasperata
sensibilità; anche questo è un dato che possiamo ricondurre
all'esperienza religiosa del protestantesimo: è con Lutero che
(come scrive Tito Perlini) «s'è insediata stabilmente nei tedeschi
un'attitudine a far convivere la più grande audacia interiore coll'ossequio
servile al potere. Da ciò l'inconciliabilità di autorità e libertà
che è la vera maledizione della storia tedesca». Un'«audacia
interiore» che ha portato a straordinari risultati in ambito
filosofico, letterario, musicale, e che tuttavia solo raramente si
è coniugata con un'autentica coscienza politica (non a caso l'ampio
saggio del 1918 recava il titolo Considerazioni di un impolitico).
Nel Doctor Faustus l'identificazione dell'autore con il proprio
oggetto è assoluta. Non solo perché sono numerosissimi i
riferimenti autobiografici, ma soprattutto perché il romanzo
raccoglie e compendia tutti i temi che Thomas Mann aveva toccato in
circa mezzo secolo di attività: sia pure con nome mutato ritroviamo
Lubecca, non come luogo geografico ma in quanto «forma di vita
spirituale», e poi Lutero e gli ultimi quattro secoli di storia
della Germania, Nietzsche, di cui il protagonista ha non pochi
tratti, Goethe, al quale risale il motivo di Faust e del suo patto
col diavolo, e infine la malattia, l'antico tema dell'incompatibilità
tra arte e vita, la musica - in questo caso quella dodecafonica,
considerata una pericolosa forma di regressione che è «sfera
demoniaca».
Quando, nel 1945, l'amico-narratore Serenus Zeitblom porta a termine
il racconto del tragico destino di Adrian, anche la Germania ha
ormai compiuto la sua discesa agli inferi. Per i tedeschi si apre
una nuova fase, le cui conseguenze si faranno sentire sino ai nostri
giorni.
L'ultimo decennio
Il prestigio di cui godette Thomas Mann in questi anni fu
vastissimo e le sue prese di posizione erano perciò destinate a
suscitare polemiche: così avvenne nel 1945, appena conclusosi il
conflitto, quando un esponente della cosiddetta "emigrazione
interna" (così si definivano, non senza vena polemica, gli
scrittori che pur non condividendo la politica hitleriana avevano
preferito rimanere in Germania) lo invitò a tornare in patria per
dare il suo contributo alla rinascita del paese. Mann motivò le
ragioni del suo rifiuto con una lettera aperta, che provocò
reazioni risentite. Accadde ancora nel 1949 quando, dopo sedici
anni, visitò per la prima volta il paese, ormai diviso: la sua
scelta, politicamente ineccepibile, di commemorare il bicentenario
della nascita di Goethe sia a Francoforte (nella Repubblica
Federale) che a Weimar (nella Repubblica Democratica) provocò le
reazioni dei settori più revanscisti della Germania occidentale.
Anche negli Stati Uniti tuttavia dopo la morte di F.D. Roosevelt,
che segnò la fine di un'epoca storica, la vita politica subì una
complessiva involuzione, di cui Thomas Mann, dal 1944 cittadino
americano, non fu l'unica vittima. Il clima persecutorio instaurato
nei primi anni Cinquanta dal senatore J.R. McCarthy, Nel luglio del
1955, dopo i festeggiamenti per l'ottantesimo compleanno, Thomas
Mann si recò in Olanda, dove venne insignito di un'importante
onorificenza. Qui fu colpito da trombosi: trasportato a Zurigo in
aereo, morì la sera del 12 agosto.
In un saggio, redatto qualche mese prima della morte e dedicato a un
autore russo da lui molto ammirato, Anton Cechov, Mann aveva
scritto: «E tuttavia si lavora, si narrano storie, si plasmala
realtà e si diverte così un mondo miserando, nell'oscura speranza,
quasi nella fiducia, che verità e serenità di forma abbiano
efficacia liberatrice sull'anima e valgano a preparare il mondo a
un'esistenza migliore, più bella, più legata allo spirito». Sono
forse proprio queste parole a fornirci una chiave interpretativa
della figura di Thomas Mann. Si lavora, ossia si scrive, nonostante
tutto, nonostante due guerre mondiali, nonostante Auschwitz, perché
è questo il "dovere" dello scrittore (quella che Goethe
chiamava «l'istanza del giorno»). Thomas Mann si sente l'erede
delle sane tradizioni commerciali della borghesia lubecchese e
rievoca un'Europa civile e tollerante, di antichissime radici, ma
ancora viva, animata da grandi illusioni e da un'idea di progresso
proiettata nei secoli: pensa quindi a una civiltà, a una forma di
vita che, spazzata via dai processi economici da essa stessa messi
in moto, già all'epoca dei Buddenbrook non esisteva più, o di cui
era sopravvissuto al massimo qualche piccolo frammento.
Certo nell'opera narrativa (ad esempio in Gaúseppe e i suoi
fratelli) come nei saggi vi sono riflessioni su possibili forme
nuove, alternative, di aggregazione sociale: anche in questi casi
però Mann pensava a una sintesi fra socialismo e mondo borghese, a
una borghesia che fosse capace di tornare alla sua autentica
aspirazione democratica e di conciliare questa con il socialismo.
Le scelte formali dello scrittore erano in fondo espressione diretta
di questa impostazione. Mentre tutto il mondo sembrava crollare - in
senso artistico, con la dissoluzione delle forme tradizionali di
linguaggio (si pensi alle avanguardie nell'ambito delle arti
figurative, della musica, della letteratura), e in senso storico
(due guerre mondiali nell'arco di un trentennio) - Thomas Mann
restava fedele all'ordine, alla forma compiuta, rimettendo
tenacemente insieme i cocci di ciò che era andato distrutto. |