I GRANDI  DELLA LETTERATURA
LUIGI PIRANDELLO


 

Luigi De Bellis

 


 

 

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Enrico IV
Il fu Mattia Pascal
L'esclusa
Novelle per un anno
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Uno, nessuno, centomila


 



ENRICO  IV

Dramma in 3 atti, scritto nel 1921, rappresentato con grande successo al Teatro Manzoni (protagonista Ruggero Ruggeri) il 24 febbraio 1922, e pubblicato in volume lo stesso anno. Protagonista è un giovane aristocratico che durante una festa in costume, nei panni appunto di Enrico IV (l'imperatore di Germania che nel 1077 si dovette umiliare a Canossa di fronte a Gregorio VII) per un'improvvisa impennata dei cavallo batte la testa e impazzisce. Per dodici anni vive nella fissazione di essere veramente Enrico IV e i parenti gli mettono accanto, nella sua villa trasformata in reggia, valletti, servitori in costume, un quadro della marchesa di Toscana. Quando dopo tanto tempo riacquista la ragione, si rende conto di quanto é successo in quegli anni: Matilde Spina, la giovane da lui amata che lo accompagnava nella famosa cavalcata, è diventata l'amante di Belcredi, colui che, per eliminare il rivale, aveva provocato apposta l'impennata del cavallo. Per reazione decide dì continuare a fingersi pazzo: così guarderà dal di fuori, da "esiliato", la vita. Ma una sera (sono ormai trascorsi vent'anni dalla festa che è all'origine del dramma), arrivano nella villa Belcredi, Matilde con la figlia Frida e il genero Di Nolli, e un medico che per guarire il pazzo sottoponendolo a uno choc, fa prendere a Frida, travestita da contessa Matilde di Toscana, il posto del grande dipinto che raffigura la contessa. Quando Enrico IV entra, ella lo chiama e il sedicente pazzo, rivedendo in quel volto la bellezza che vent'anni prima aveva Matilde Spina, la donna amata, per poco non impazzisce di nuovo. Ma poi sì calma e rivela che ormai da tanti anni è guarito. Tutto sembra volgere per il meglio ed Enrico IV tenta di abbracciare Frida, che col suo travestimento gli ha dato per un momento l'illusione di essere riportato di vent'anni indietro, apparendogli come la Matilde amata nella sua giovinezza. Ma Belcredi gli si oppone violentemente, ed Enrico lo trafigge con la spada. Ora non gli resta che riprendere a fingersi pazzo: sarà la sua condanna, ma nel contempo l'unico modo che gli permetterà di restare esiliato e libero dalla realtà.

La cristallizzazione, la forma - pazzo che crede di essere Enrico IV - prima viene imposta al protagonista dal caso, ma poi è da lui consapevolmente accettata: si sottrarrà così al fluire degli eventi, al vanificarsi delle cose, sarà un esiliato dalla vita ma avrà un'oggettiva, storica consistenza, sarà un personaggio i cui fatti non possono più cambiare in quanto sono già stati. Ma la vita prende la sua rivincita sulla forma, ne mette a nudo la precarietà: il volto di Frida riporta Enrico IV al passato, alla triste consapevolezza che dal banchetto della vita egli è stato escluso, all'illusione di poter diventare, seppur tardivamente, anche lui un commensale. Ma proprio da ciò deriva la catastrofe: alia responsabilità che li suo gesto - l'uccisione di Belcredi - comporta, alla scoperta che la maschera assunta finora è uno schermo fittizio, una fragile difesa all'urgere della vita, egli sfugge rifugiandosi ancora una volta nella forma cristallizzata; sarà volontariamente e per sempre Enrico IV.

L'opposizione tra forma e vita (è stato Adriano Thilgher a proporre questa formula critica, discussa in seguito ma sempre utile), che è tanta parte dell'ideologia e della produzione pirandelliana, trova nell'Enrico IV una soluzione di particolare significato ed efficacia drammaturgica: se da un lato il protagonista ha coscienza della maschera che gli (e si) è imposta, dall'altro egli non ha altra alternativa - di fronte all'urgere della vita - che subire, con lucida angoscia, tale maschera.
Enrico IV è, sì, la più complessa, la più realizzata e polivalente delle creature dolorose di quella storia; ma è anche, tra quelle, la creature più direttamente simbolica del loro comune travaglio. Di quelle creature vive non solo il dramma autentico, la tragedia della condizione umana, ma anche tutte le possibili dimensioni e articolazioni, tutti i momenti possibili della loro scenica convenzione, tutti i complessi passaggi del loro vano cammino verso l'eterno.
Egli non ha forma: l'ha perduta un giorno, con la giovinezza e l'amore, nella «storica» cavalcata d'un carnevale borghese, nel tradimento della sua società ingiusta e corrotta. Gli è rimasta una immagine vana, fissata nel quadro della sala del trono, specchio irridente e misura tragica del suo non consistere. È solo, maledetto nel ritmo inarrestabile del suo divenire, preda della molteplicità, della relatività senza scampo; assiste, nel terrore notturno, alla frantumazione infinita del proprio io, allo schianto del presente e al naufragio della memoria, all'aborto dell'avvenire. La discontinuità è il suo destino, anzi il suo momento eterno: e, per essa, vive il terrore del relativo, l'annullarsi di ogni atto e il congelarsi irrazionale di ogni parola. Pure, quella condanna all'informale, l'esilio stesso, la pena, gli si offrono - per virtù di disperata intelligenza - come la estrema possibilità di forma, come rifugio relativo in cui comunque abbattersi con la forza tragica d'ogni attimo. E si dispone, proprio come Enrico a Canossa, a sperimentare il sacrificio della propria umiltà, la volontaria rinunzia al proprio infinito, a vivere come unica parte appunto quella esclusione, quello sconforto della solitudine: inventa un gergo, di gesti, d'abiti e di parole, indossa la maschera in cui la vita lo ha imprigionato, in cui, ingannevolmente assolutizzandolo, lo condannò al relativo. Il disgusto per gli altri, causa e occasione del male, diventa in lui volontà di farsi come gli altri lo vedono, come loro lo vollero. E si trascina nelle sale buie del carcere, solo guardando una luna incredibilmente lontana, perduta come un sogno di antica innocenza. Ma, quando gli altri lo tentano, e, insensibili al suo amore-dolore, ancora una volta lo percuotono con le battute ingannevoli, mendaci, della loro commedia, quando, inconsapevoli meccanismi d'una farsa tragica, gli strappano dal volto la maschera pietosa del sacrificio, la dolorosa menzogna della necessità, allora egli si ribella, uccide, accusa, protesta: ma dal guardaroba artefatto della sua disperazione, che è il suo destino di inconsistenza e insieme il marchio della sua relativa condanna, il suo gesto ricava la grottesca vanità di una vuota stilizzazione. E il suo fuggire si identifica con un restare eterno, il suo disarticolato ruggire svanisce nella sonorità disperata del riso.
È sua la tragedia dell'uomo pirandelliano. E son suoi anche tutti i momenti che quella tragedia altrove hanno rappresentato. Suo il dramma di chi, perduto nell'informale, cerca una forma; di chi, illuso d'averla trovata, muore sotto le rovine della parte delusa; di chi ne evade, perché insofferente della prigione relativa e mistificante; persino di chi, dal di fuori, si costruisce con i pezzi vani della ragione la sua astratta volontà di assoluto: suo il dramma di Ersilia Drei, di Anna Luna, di Martino Lori, di Fulvia, di Baldovino, di Leone Gala. Ma è solo sua, nata con lui, la coscienza di tutti gli altri, infiniti drammi della umana ricerca.
Egli sa da sempre, dal primo momento della sua lucida pazzia, le forme del suo cammino. Lungi dall'amare quell'illusione del suo passato, lo specchio terribile della sua irreale giovinezza, sa che quella immagine fissa lo inchioda e insieme lo perde, lo affoga nella discontinuità, lo imprigiona in una fissità che è quella del divenire senza dialettica («Ma poi voi due... dovreste implorarmi questo dal Papa che lo può: di staccarmi di là, e farmela vivere tutta, questa mia povera vita, da cui sono escluso...»). Sa che non può tornare alla vita, che quell'abisso è incolmabile, che la continuità non è un caotico gioco d'immagini.
E non vedrete più nulla... di tutto ciò che dopo quel giorno di carnevale avvenne, per voi e non per me; le cose, come si mutarono; gli amici, come mi tradirono... Me n'accorsi in un giorno solo, tutt'a un tratto, riaprendo gli occhi, e fu uno spavento, perché capii subito che non solo i capelli, ma doveva essere diventato grigio tutto così, e tutto crollato, tutto finito; e che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell'e sparecchiato.
Sa che irrimediabilmente falso è il contenuto che di quelle immagini egli si appresta a dare; che la parola è una forma vuota, che, senza l'innocenza vera delle illusioni, l'incomunicabilità è la legge definitiva della sorte umana; sa che ogni parte è vana, e che solo a chi non si tortura nella morsa della coscienza è possibile credere in un rifugio eterno, in una forma assoluta
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2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it